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Psicologia della decrescita

di Giuseppe Giaccio - 09/03/2010

 
 
   
 

La decrescita è in genere associata alla sfera economica. Si parla, cioè, di decrescita del prodotto interno lordo (pil) da ottenere attraverso il programma delle otto “r” (rivalutare, ristrutturare, rilocalizzare, riciclare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riconcettualizzare/reinquadrare), grazie al quale sarebbe possibile avviare «un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile»[1]. Questo evento viene presentato dai suoi avversari come qualcosa di catastrofico, in quanto produrrebbe disoccupazione, stagnazione, povertà, mentre abbiamo (avremmo) bisogno ora più che mai di slancio, di ripresa, di maggiore competitività. Secondo questa visione delle cose, pensare che la macchina economica debba rallentare la sua corsa è pura follia, roba da manicomio. C’è addirittura chi è convinto che la crescita sia oggi imbrigliata e che debba perciò essere liberata. È il caso della Commission pour la libération de la croissance française, voluta da Nicolas Sarkozy all’indomani del suo insediamento all’Eliseo e presieduta da Jacques Attali (e della quale hanno fatto parte anche gli italiani Franco Bassanini e Mario Monti), i cui membri prevedono, a certe condizioni, una futura crescita annua mondiale del 5% – prospettiva ritenuta positiva e quindi altamente auspicabile. I sostenitori della decrescita osservano, dal canto loro, che la riduzione del pil non è sinonimo di minore ricchezza, bensì di ricchezza diversamente (e meglio) prodotta – ad esempio, incrementando la produzione di beni, sottratti al mercato, a scapito delle merci, funzionali allo scambio mercantile; di ricchezza che produce benessere inteso nel senso più ampio e non solo materiale della parola. Se tutti auto-producessero, come accadeva fino a pochi decenni fa in pressoché tutte le case, cibi in scatola, il pil diminuirebbe, perché nessuno comprerebbe più conserve di pomodori o marmellate, ma non per questo si mangerebbero meno pomodori o marmellate. È vero, altresì, che l’aumento del pil non può essere considerato di per sé un segnale positivo, in quanto nel calcolarlo di solito non si tiene conto dei danni che la produzione industrializzata, fortemente bisognosa di input chimici ed energetici, causa all’ambiente. Paradossalmente, questi danni finiscono col far crescere il pil, poiché richiedono interventi di risanamento. D’altra parte, la decrescita non comporta necessariamente una diminuzione dei posti di lavoro, dal momento che essa è, al contrario, in grado di creare occupazione in tutti i settori, largamente inesplorati, dell’economia verde, ossia della produzione finalizzata alla riduzione dell’impatto ambientale, al mantenimento di un’accettabile impronta ecologica.
Comunque la si pensi, ci si iscriva al primo o al secondo di questi due “partiti”, è certo che la decrescita travalica la sfera puramente economica, proponendosi come progetto che investe tutti i campi dell’esistenza. Quando Serge Latouche insiste sulla necessità di decolonizzare l’immaginario o quando osserva che bisognerebbe, a rigore, parlare non tanto di decrescita (termine che si è ormai peraltro imposto), quanto di a-crescita, allo stesso modo in cui si parla di a-teismo, poiché si tratta di uscire da una fede, da una religione, quella dello sviluppo, sottolinea, precisamente, la vastità del concetto di decrescita. Sarebbe perciò monca, difettosa e carente l’analisi di chi, abbordando questo argomento, non ne considerasse tutte le sfaccettature, una delle quali, e non delle meno importanti proprio alla luce di quanto asserisce Latouche, è quella psicologico-psicanalitica. Se, infatti, per decrescere dobbiamo anzitutto fare opera di igiene mentale (ripulendo, appunto, il nostro immaginario), allora tale aspetto assume un’importanza fondamentale giacché «ci apre a una psicologia dove il nemico non è più un avversario che ci fronteggia, ma una presenza dentro di noi. La politica qui si insabbia, se vuole procedere con elaborazioni solo politiche»[2]. La nostra psiche è, in effetti, inquinata da secoli di “predicazione” tendente a imporre la tesi – niente affatto scontata, come ci si vorrebbe far credere – della moralità intrinseca della crescita. Cambiano le pezze d’appoggio utilizzate, che possono essere di tipo religioso (la crescita economica come segno dell’elezione divina) o profano (la crescita come strumento che favorisce la pace, la tolleranza, la democrazia), ma la bontà dell’argomentazione viene continuamente riproposta. Le due tesi possono, peraltro, tranquillamente coesistere. Come sosteneva l’arcivescovo del Massachusetts William Lawrence, «a lungo andare, soltanto gli uomini morali si arricchiscono […] La ricchezza fa lega con la devozione»[3]. Questo condizionamento psicologico, che induce a vedere nello sviluppo sempre e comunque qualcosa di positivo, è forse l’ostacolo più formidabile e difficile da rimuovere che gli “obiettori della crescita” si trovano a dover affrontare. Esemplare, in questo senso, è il saggio che il molto ortodosso ed ufficiale economista Benjamin Friedman ha dedicato a Il valore etico della crescita. Tutte le volte che egli si imbatte in fatti e circostanze che smentiscono la tesi ben illustrata dal titolo del libro (il che accade spessissimo nelle seicento pagine del voluminoso tomo), Friedman li liquida come «effetti collaterali infausti»[4] (in riferimento ai danni ambientali e alla cancellazione delle diversità culturali), oppure come eccezioni, deviazioni, anomalie (termini riservati ai casi, molto frequenti, in cui si constata sviluppo pur in assenza del laissez-faire e delle istituzioni della democrazia liberale ed in presenza, invece, di un più o meno accentuato dirigismo statale). A Friedman (e non solo a lui, purtroppo) non passa nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea che potrebbe essere l’assunto di partenza a non reggere. Né si può parlare di una sua malafede. Semplicemente, nel suo spazio mentale non è contemplato che si possa ragionare in termini diversi da quelli sviluppisti. Ad esempio, in termini di sobrietà, limiti, armonia.
Nell’ordine fisico, di fronte a un inquinamento si reagisce in due modi. Anzitutto, si cerca di comprenderne la gravità con delle apposite apparecchiature che lo misurano; poi si predispongono degli interventi per eliminarlo o, se ciò non è possibile, quantomeno ridurlo e riportarlo entro parametri sopportabili. In ambito psichico, occorre procedere allo stesso modo (anche se gli strumenti di misurazione di cui disponiamo non sono di carattere materiale), in primo luogo convincendosi che siamo malati – cosa non semplice, perché, in questi casi, spesso il malato è convinto di essere perfettamente sano e rifiuta ogni intervento. La malattia di cui soffre l’uomo contemporaneo, in particolare quello dei paesi sviluppati, e che si riverbera nella civiltà da lui creata, la cosiddetta civiltà occidentale, consiste in un’affezione del suo psichismo causata da uno squilibrio nelle relazioni tra l’Es, sede della vita pulsionale, il Super-io, sede della consapevolezza, e l’Io, che equilibra le altre due istanze, mettendole in un giusto rapporto col reale. Lo stato di salute si realizza quando l’Io riesce a svolgere correttamente la sua funzione di intermediazione. Allora, scrive Thibault Isabel, «abbiamo a che fare con un soggetto maturo, capace di adattarsi al suo ambiente e di comportarsi con fierezza, ma anche con modestia, a seconda dei casi […]; sul piano collettivo, questo atteggiamento determina lo sbocciare di una civiltà nel senso più nobile del termine (come nell’antica Grecia, nella Cina classica o nel Giappone medievale»[5]. Il predominio del Super-io coincide, a livello individuale, con una condizione nevrotica e, a livello collettivo, con una fase di iper-razionalità, di «escrescenza della ragione». Quando, infine, prevale l’Es, l’uomo è preda delle passioni, in balia di un perpetuo ondeggiare tra megalomania e depressione. «È il caso di precisare che noi ormai rientriamo essenzialmente in questa terza categoria?», si chiede retoricamente Isabel. Una involontaria, e dunque ancor più significativa, conferma del fatto che le cose stanno proprio in questi termini ci viene da uno studioso attestato su posizioni per molti aspetti opposte, Aldo Schiavone, il quale descrive la vicenda della modernità come quella del «vertiginoso dilatarsi dei bisogni, dei desideri e delle soggettività che se da un lato sta rappresentando un inaudito aumento delle nostre potenzialità di vita e di emancipazione, sta insieme schiacciando letteralmente il pianeta e le sue risorse sotto un carico incontrollato di domande e di aspettative»[6]. Ritroviamo qui il pericoloso movimento oscillatorio tra il delirio di onnipotenza megalomaniaco che ci fa ritenere di poter soddisfare qualsiasi voglia (è solo questione di tempo, quello necessario alla tecnoscienza per trovare le soluzioni più efficaci) e i contraccolpi depressivi derivanti dall’amara constatazione che tra i nostri infiniti desideri e la possibilità di realizzarli ci sarà sempre uno iato, tanto più profondo e inaccettabile quanto più veniamo socialmente addestrati a trasformarci in macchine desideranti. Questo delirio si esprime anche a livello lessicale, con l’impiego di termini che rimandano appunto all’eccesso. Il nostro futuro sarà comunque all’insegna della dismisura. Dietro l’angolo, sostiene Jacques Attali, ci aspettano l’“iperimpero”, l’“iperconflitto” (manifestazioni del lato depressivo della nostra psiche squilibrata) oppure l’“iperdemocrazia” (manifestazione del lato ottimistico); non ci saranno più uomini, ma “transumani”. Il futuro sarà popolato di “postumani”[7]. Schiavone, dal canto suo, non parla più nemmeno di uomini, di esseri umani, bensì di «forme biologiche» molto diverse da quelle attuali e che saranno il frutto «di trasformazioni genetiche consapevolmente indotte e controllate»[8], rese concrete dalla «possibilità di intervenire massicciamente» sul nostro patrimonio genetico[9]. Non diversamente si esprime Francis Fukuyama, un tempo celebrato annunciatore della fine della storia, per il quale i bio-ingegneri avranno successo nel loro tentativo di «partorire un nuovo genere umano», là dove gli ingegneri sociali hanno fallito; avremo così una umanità fatta di esseri «meno violenti, liberati dalle loro tendenze criminali» (Arancia meccanica non è poi molto lontana); ma l’avvenire ci riserva qualcosa di ancora più esaltante: riusciremo a mettere fine alla storia umana non perché avremo banalmente sconfitto il totalitarismo comunista, come ci raccontava il Fukuyama de La fine della storia e l’ultimo uomo, ma perché «avremo abolito l’essere umano in quanto tale. Allora, una nuova storia post-umana potrà cominciare»[10]. La hybris fa capolino in queste idee nella convinzione, presente anche in Francis Galton, padre dell’eugenetica, di poter sostituire alla selezione naturale, cieca e procedente a tentoni, una selezione artificiale, tecnica, consapevolmente guidata da un uomo diventato pienamente padrone e possessore della natura, secondo gli auspici di Cartesio. Se siamo arrivati a questo punto, incalza Schiavone, se la vita è apparsa sulla terra, e segnatamente la vita umana con tutte le gloriose conquiste della scienza e della tecnica, è perché siamo stati sfacciatamente fortunati, perché alla roulette della vita il nostro numero è uscito un numero incredibile di volte, ma ora è giunto il momento che noi stessi prendiamo in mano il nostro destino, sottraendolo al caso che finora ha guidato i meccanismi della selezione. Un giorno, potremo costruirci una selezione a nostro esclusivo uso e consumo. Di tutto, di più, come recita un noto slogan pubblicitario. Niente, però, che sia, semplicemente, a misura d’uomo. L’idea stessa di misura è considerata con sospetto perché rinvia alla nostra inevitabile finitezza e quindi, in qualche modo, alla morte, che la nostra civiltà rifiuta con sdegno, quasi fosse un’offesa, dal momento che è «la prima che si crede immortale, mentre forse è semplicemente la prima alla quale manchi un consapevole sentimento di limitazione»[11]. Isabel sintetizza quella che dovrebbe essere la norma ricorrendo a un verso di Pindaro: «O anima mia, non desiderare la vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile» (a complicare il quadro, c’è però il fatto che oggi questo campo si è notevolmente ampliato). Il desiderio di immortalità è già un elemento di squilibrio, la spia luminosa, il segnale di allarme che ci dice che in noi c’è qualcosa che non quadra, perché equivale a rifiutare l’essere-per-la-morte che connota il nostro esistere, a desiderare l’assenza di ogni limite, e particolarmente di quel limite per eccellenza che è la morte (che san Francesco accoglieva invece come sorella), contro il quale la medicina impegna strenue battaglie nel tentativo di farlo indietreggiare sempre di più, ottenendo spesso un risultato niente affatto coincidente con quello voluto: anziché alleviare le sofferenze del paziente, si prolungano inutilmente i suoi dolori, senza peraltro potergli offrire in cambio una realistica prospettiva di guarigione. Nel linguaggio degli psicanalisti e degli psicologi, si parla di “enantiodromia” (dal greco enantios, opposto, e dromos, corsa), vocabolo usato da Jung, che lo ha a sua volta mutuato da Eraclito, che indica quella che, in termini filosofici, viene definita eterogenesi dei fini: ogni cosa, spinta all’eccesso, genera il suo contrario. Troppa medicina ci fa ammalare e morire, troppa informazione e scolarizzazione ci rendono disinformati e ignoranti, troppo movimento ci blocca (come ben sanno gli automobilisti chiusi negli imbottigliamenti del traffico). Ed ancora: l’esaltazione prometeica dell’uomo e delle sue possibilità, tipica della modernità, si rovescia nella “vergogna prometeica” dell’uomo di fronte ai suoi manufatti analizzata da Günther Anders. Orbene, noi siamo immersi fino al collo, sia individualmente che collettivamente, nell’enantiodromia: la corsa verso la crescita illimitata, cui siamo mentalmente assuefatti fin dalla più tenera età, determina gli effetti entropici accelerati e irreversibili descritti da Nicholas Georgescu-Roegen. Pensando di liberarci, di diventare adulti, abbiamo ingaggiato una gara sfrenata finalizzata all’abolizione di limiti e barriere  – che, secondo Pierre-André Taguieff, ha finito ormai col perdere ogni connotazione teleologica, risolvendosi in bougisme, in movimento fine a se stesso –  per definire la quale usiamo i termini di sviluppo e progresso, mentre, come suggerisce Luigi Zoja, si tratta in realtà di tipiche «perversioni moderne: dannose già a livello psicologico, prima ancora di esserlo nelle conseguenze materiali»[12]. Non vogliamo morire (la morte è il grande tabù contemporaneo), abbiamo ucciso Dio e lo abbiamo “mangiato”, compiendo un atto di “teofagia”, per dirla ancora con Zoja, e, come capita ai cannibali, crediamo di averne incorporato le qualità: l’infinitezza, l’immortalità, l’onnipotenza, l’illimitatezza. Grazie ai progressi della scienza e della tecnica, saremmo addirittura sul punto di sconfiggere per sempre la morte, relegandola tra i brutti e angosciosi ricordi della preistoria dell’umanità, ovvero della sua infanzia (secondo questa mentalità, i veri antichi, e quindi i veri saggi, saremmo noi moderni, mentre gli antichi sarebbero degli ingenui bamboccioni). «Credo», ha scritto a questo proposito Aldo Schiavone, «che la generazione cui appartengo e quella dei suoi figli saranno fra le ultime a fare i conti con l’esperienza della morte, almeno nei termini in cui la nostra specie l’ha incontrata finora»[13]. Non morremo più, a meno che non decideremo noi di farlo, come capita a Daniel25, il “neoumano” protagonista de La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq, stanco della sua eternità artificiale. Non moriremo più, perché la nostra mente potrà essere trasferita su un «supporto pensante non biologico», oppure (ipotesi meno estrema) perché riusciremo a trasformare il nostro corpo «da entità solo biologica a entità mista, bioelettronica»[14]. Ma è il primo scenario, che Pietro Barcellona etichetta come quello del «postumano disincarnato»[15], ad avere maggiori aficionados. In esso, il corpo fatto di sangue, ossa, nervi, tessuti, liquidi e che costituisce l’ultimo, grande ostacolo alla totale artificializzazione della vita, vista come progresso e vittoria sulla natura, «è sostituito da un supporto arbitrario, che serve solo a mantenere lo sciame di bit che ne descrivono la struttura: l’informazione contenuta in un corpo si può estrarre e introdurre in un altro corpo, in una macchina, nel silicio di un robot. Se l’identità di un Sé consiste in una certa configurazione neuronale, allora il corpo diventa soltanto una sede occasionale di quel Sé, che può essere trasferito in qualunque altro supporto. Il corpo cessa di essere ciò che è sempre stato: il segno distintivo ultimo dell’identità individuale»[16]. No, non siamo capitati in un romanzo di fantascienza e sarebbe un grave errore reagire con un sorriso, perché qui siamo nel cuore del progetto eugenetico della modernità, la quale rifiuta tutto ciò che è dato, in quanto ritiene che sia suo dovere trasformarlo e “migliorarlo” all’infinito; siamo nel cuore del progetto borghese, ossia dell’«idea dell’illimitata fattibilità del mondo»[17], di quella «visione dell’uomo e del mondo in cui l’universale appropriabilità delle cose è la conseguenza della totale producibilità dell’oggetto. Tutto ciò che è manipolabile è anche producibile e tutto ciò che è producibile è appropriabile. Illimitata producibilità e immediata appropriabilità coincidono, talché il mondo diventa ciò che può essere appropriato  e prodotto senza limiti»[18]. Cinquant’anni fa, Hannah Arendt aveva largamente previsto questo scenario quando, riflettendo sull’umanità futura che gli scienziati pensavano di produrre nel giro di un secolo, descriveva l’uomo prossimo venturo come un essere che appare «posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani), che desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto»[19]. 
L’ex allieva di Heidegger ha spiegato molto bene come si è arrivati a questo punto: la modernità ha rinunciato a considerare la terra, unica sede dove la condizione umana si è finora manifestata, come il luogo in cui appare, sotto molteplici forme, la verità; ha rinunciato, in altri termini, a quello che originariamente era considerato il punto di partenza del filosofare, «il thaumazein, la meraviglia di fronte al miracolo dell’essere»[20]; si è stufata di contemplare e interpretare il mondo, ora vuole solo trasformarlo. La verità, secondo l’uomo moderno, non è conoscibile per la nostra intelligenza e i nostri sensi, che spesso ci ingannano. Noi possiamo conoscere solo ciò che facciamo. Un tempo la vita attiva e il pensare erano propedeutici alla sfera contemplativa. La modernità ha prodotto non tanto un rovesciamento di questo rapporto, ponendo la vita attiva al posto di quella contemplativa, ma ha semplicemente soppresso la contemplazione, ritenendola del tutto inutile, e ha messo il pensare al servizio del fare. I due possibili punti di fuga di una realtà di questo genere, ampiamente sperimentati dall’Occidente, sono la disperazione o un abnorme incremento dell’attività, una «crescita innaturale, per così dire, del naturale»[21].  
Per questo abbiamo fondato il nostro mondo sul fuoco, sull’energia termica, rinnovando così il gesto di Prometeo e scartando o mettendo in subordine gli altri elementi (terra, acqua e aria) che tradizionalmente, combinati insieme, ci davano energia e vita: perché il fuoco è l’elemento che meglio asseconda il nostro attivismo progressista e sviluppista, il nostro malsano desiderio di abbattere ostacoli ad ogni costo distruggendo le capacità omeostatiche della natura, la nostra voglia di spiccare il “folle volo” di cui parla Dante a proposito di Ulisse. Il fuoco ha schiavizzato la terra, riducendola a deposito da cui estrarre carbone, gas e petrolio, da trasformare poi in fuoco attraverso la combustione e a luogo di sepoltura delle ceneri prodotte dalla combustione; ha schiavizzato le acque dei mari, dove queste stesse ceneri si diluiscono; ha asservito il vento, cui è affidato il compito di disperdere i residui delle nostre fornaci. La scelta del fuoco, come l’ha definita Alain Gras, «fu un salto intellettuale nell’ignoto, l’occasione al contempo di una rottura con un patto implicito di aggressione misurata dell’ambiente e della chiusura di altre vie tecnologiche non termiche»[22]. In questo modo, continua Gras, «l’uomo moderno dà ragione ai Titani e respinge all’infinito i limiti posti alla volontà di potenza dagli antichi dèi»[23]. In uno dei miti fondanti della nostra cultura, quello di Prometeo, troviamo dunque già chiaramente indicati, in termini di una sconcertante attualità, i tratti costitutivi dell’immaginario moderno e della sua hybris: «Il calore dell’energia fossile che sembra dare il dominio del divenire, la credenza in un universo artificiale che non conoscerebbe la decadenza, il sogno di un lavoro senza l’uomo; tutti elementi che restano ai giorni nostri i fermenti dell’idea di progresso tecnico. Il quale progresso presuppone sullo sfondo l’immagine di una vittoria sulla morte, di cui il gigantesco sistema di protezione della salute è il potenziale garante»[24]. Non si tratta di fare l’apologia dell’immobilismo, ma di riconoscere che «la mente umana vuole il movimento, ma vuole anche fermarsi»[25]. Ciò non vale, in verità, solo per la mente umana, ma per il vivente in generale. Gli organismi, sia animali che vegetali, si evolvono infatti, come hanno mostrato Elredge e Gould, secondo lo schema dei ponctuated equilibria; si muovono, non sono quindi parte di un universo immutabile dato una volta per tutte, ma il loro movimento tende comunque al raggiungimento di un equilibrio all’interno della propria specie e con l’ambiente circostante. Quando poi abbiamo a che fare con quel particolare organismo che è l’essere umano – particolare in quanto agisce ed è aperto al mondo – allora questi limiti vengono anche storicamente costruiti. Essi variano a seconda delle culture e delle epoche, ma non mancano mai in ogni civiltà sana. A confermarlo, anche in questo caso involontariamente, è ancora una volta Aldo Schiavone, il quale ritiene invece che l’autentica realizzazione del destino umano consista nell’andare oltre la specie, nello sfondare una soglia al di là della quale saremo protagonisti di «un’avventura senza precedenti»[26]. Tuttavia, se osserviamo la scala temporale lungo la quale si è evoluta la vita (la sua “storia”, giacché per Schiavone, che si riconosce in una posizione di storicismo assoluto, «L’universo è storia. La vita è storia. Noi non siamo che sola storia»[27]), l’impressione che se ne ricava è tutt’altro che caratterizzata da accelerazioni e fughe vertiginose: la Terra risale a quattro miliardi e mezzo di anni fa, le prime forme di vita unicellulare appaiono un miliardo di anni dopo, quelle pluricellulari risalgono a cinquecentosettanta milioni di anni fa. A questo punto, inizia una serie di “decimazioni”, la più famosa delle quali è quella dei dinosauri, che consentono ai mammiferi di affermarsi. I primi ominidi si separano dalle grandi scimmie all’incirca otto/sei milioni di anni fa, l’uomo, così come lo conosciamo adesso, ossia l’homo sapiens sapiens, risale a quarantamila/trentamila anni fa. Pur volendo prendere per buona questa ricostruzione – che, sebbene sia quella prevalente, è però anche in larga misura ipotetica, dato che del passato più remoto dell’universo, oltre che del nostro, non sappiamo in realtà quasi niente – ci sembra che solo un residuale e inconscio pregiudizio progressista autorizzi Schiavone a interpretare queste varie tappe come accelerazioni (diciamo “residuale” e “inconscio” perché Schiavone sottolinea più volte di non riconoscersi nella classica versione lineare e gradualistica dell’evoluzionismo). Le distanze temporali tra una fase e l’altra, pur accorciandosi, sono troppo forti per consentirci di parlare di accelerazioni. Del resto, piuttosto che vederle come accelerazioni, potremmo altresì considerarle come catastrofi, nel senso letterale della parola, vale a dire come svolte, radicali trasformazioni di un universo del tutto indifferente al tempo, alla storia e agli esseri viventi (prospettiva, questa, che non rientra nello storicismo di Schiavone, ma ciò nondimeno proponibile e plausibile). Fin qui siamo però in un ambito di percezioni soggettive. A sembrarci oggettivamente rilevante è invece un altro elemento, e cioè che all’interno del vivente, anche di quello umano, prevale la ricerca di equilibri, per quanto mai definitivi. Quando si sofferma, a volo d’uccello, sulla storia dell’uomo, Schiavone deve, suo malgrado, constatare che essa offre lo spettacolo di una costante ricerca di limiti e confini. Commetteremmo un errore se vedessimo in ciò la conseguenza di una incapacità tecnica; se pensassimo, in altri termini, che, siccome gli uomini di una volta non erano bravi a dominare il mondo come noi occidentali illuminati e sviluppati, dovevano per forza accontentarsi di quello che passava il convento. Questa sarebbe solo, da parte nostra, un’ennesima manifestazione di auto-glorificazione e di sbruffoneria. La storia della tecnologia ci racconta qualcosa di diverso. I cinesi, ad esempio, pur avendo «inventato una buona parte delle tecniche che accompagnarono l’espansione della potenza dell’Occidente […] non sembravano preoccupati dal loro divenire»[28], ossia non si ponevano il problema del loro sviluppo, comprendendo forse che, in certi casi, non fare è meglio che fare e che aprire il vaso di Pandora è un gesto che si può pagare a caro prezzo. Il limite, ha scritto Zoja, assurge presso i greci al rango di «statuto di fede» e viene «iscritto nell’unica tavola dei loro comandamenti»[29]. La preoccupazione di cadere nella hybris (l’arroganza, l’orgoglio, la dismisura), che scatenerebbe inevitabilmente la nemesi degli dèi e la punizione dell’uomo, è in realtà la fedele compagna del cammino dell’uomo sulla terra. I greci conoscevano bene la vertigine dell’illimitato, ma si sforzavano di addomesticarla, non di rincorrerla. La loro vita activa, analizzata da Hannah Arendt, è tutt’altro che sinonimo di vita frenetica e sregolata; al contrario, i greci ritenevano che l’agire, nelle sue varie manifestazioni (quelle dell’animal laborans, dell’homo faber e dello zoon politikon), dovesse comunque essere rigidamente regolamentato, e ciò anche, e soprattutto, in ambito politico, dove l’azione era suscettibile, per il suo potenziale carattere di illimitatezza, di produrre esiti disastrosi; «questo è il motivo», scrive la Arendt, «per cui la vecchia virtù della moderazione, del contenersi entro dei limiti, è certamente una delle virtù politiche per eccellenza, proprio come la tentazione politica per eccellenza è certamente la hybris […] e non la volontà di potenza, come tendiamo a credere noi»[30]. La stessa figura di Prometeo, “colui che vede in anticipo”, e che perciò è diventato l’eroe eponimo, l’araldo del progressismo, rientra in questo discorso. Si dimentica, infatti, troppo spesso, o addirittura si ignora, che il Prometeo incatenato di Eschilo fa parte di una trilogia, di cui è probabilmente il pezzo centrale, comprendente anche altre due tragedie, purtroppo andate perdute, Prometeo portatore di fuoco e Prometeo liberato, il cui senso complessivo è quello della ricerca di un’intesa con gli dèi, di una rinnovata alleanza tra il cielo e la terra, in mancanza della quale la preveggenza prometeica si risolve in un disastro. “Niente di troppo” (medén ágan) è la massima che caratterizza non solo gli antichi greci, ma anche le altre civiltà e culture: i cinesi, i giapponesi, gli indù, i popoli precolombiani, per non parlare delle cosiddette culture primitive o popoli naturali. I miti di Dedalo e Icaro, del carro celeste guidato da Fetonte, quello di Prometeo, del biblico albero del bene e del male, la nozione taoista di wu-wei (non fare, non agire) testimoniano della estrema attenzione con cui l’uomo di ogni epoca ha sempre tracciato solchi e costruito forme, mostrando così il suo “carattere”. Il pensiero meridiano, manifestatosi sulle sponde del Mediterraneo, su cui Franco Cassano ha scritto un suggestivo saggio, non è dunque una esclusiva degli antichi greci. Potremmo dire che il mondo intero è pieno di luoghi “mediterranei”, dove gli uomini hanno cercato, dalla notte dei tempi, di dar vita a culture costiere, “talattiche”, come le chiama Schmitt, ossia a modi di vita in cui il mare e la terra, il senso dell’infinito e del radicamento, non confliggono in modo radicale ma si equilibrano, riuscendo a «ospitare la scissione»[31]. La fascinazione “oceanica” per la scienza e la tecnica e per le possibilità da esse offerte di interventi manipolativi ed eugenetici sul vivente, per la dismisura dell’homo currens, con tutto quello che ciò comporta in termini di sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, è qualcosa di molto recente. Dal suo punto di vista, Schiavone vede in questa ricerca del limes il segno di una mancanza, di una deficienza, di una incomprensibile rinuncia; ma quando questa ricerca accomuna la quasi totalità dell’avventura umana sulla Terra (trentamila/quarantamila anni, come si è visto), mentre la decisione di lanciarsi a capofitto nel tentativo di vivere all’insegna dell’illimitato e dell’infinito, della crescita esponenziale, riguarda solo un minuscolo tratto di questo segmento temporale (gli ultimi trecento anni, dato che, a giudizio di Schiavone, fino al XVIII secolo, «una certa continuità con le epoche precedenti fu ancora mantenuta»[32]), ci si dovrebbe seriamente chiedere se tale decisione, proprio per la sua eccezionalità, sia una conquista o una proliferazione tumorale, se per caso non siamo vittime dell’integralismo della corsa denunciato da Franco Cassano e se non abbiamo urgentemente bisogno di un bagno di umiltà, intendendo questa parola non tanto nel suo significato morale-religioso, quanto in quello letterale di vicinanza all’humus, al suolo. Scrive Alain Gras: «Ammettiamo che la situazione attuale è propriamente inconcepibile, ritroviamo l’umiltà per aprirci al mistero del mondo, dimentichiamo il grande credo della crescita, rendiamoci conto del delirio del pensiero economico dominante e allora forse potremo ritrovare una freschezza che ci aprirà le porte di un altro avvenire»[33]. Insomma, dobbiamo, e con una certa celerità, rimettere i piedi a terra. Non siamo affatto certi che ciò accadrà. Non ha torto Latouche quando parla di scommessa. Dal punto di vista psicologico, l’unico, sottile motivo di speranza risiede nel fatto che, sebbene siamo parte di una civiltà che esalta il nuovo fine a se stesso e lo sviluppo ad oltranza, possediamo ancora (ma per quanto?) una psiche che «è, nei suoi strati profondi, quella di sempre: e non può ignorare che la presenza di dio e della morte istituiva il limite nella vita e alla vita»[34]. Al livello filosofico e metapolitico, una possibile riformulazione di questo discorso comporta la rivalutazione del senso del sacro inteso come argine, come limite (katechon) da opporre alla liquefazione del mondo - rivalutazione che troviamo nei citati testi di Cassano e Barcellona. Non è un granché, ma, di questi tempi, chiedere di più è forse troppo, soprattutto per noi che condanniamo gli eccessi della hybris. Che il dio Termine ci protegga!

[tratto da Diorama letterario 296]


NOTE
[1] S. Latouche, “Per una società della decrescita” in Mauro Bonaiuti (a cura di), Obiettivo decrescita, Emi, Bologna 2007, pag. 20.
[2] Cfr. L. Zoja, Storia dell’arroganza, Moretti & Vitali, Bergamo 2003, pag. 188.
[3] Citato in B. Friedman, Il valore etico della crescita, Università Bocconi Editore, Milano 2008, pag. 97.
[4] B. Friedman, op. cit., pag. 4.
[5] Questa e le successive citazioni di tale autore sono tratte da T. Isabel, Il campo del possibile, Controcorrente, Napoli 2009, pagg. 11-38.
[6] A. Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, pag. 98.
[7] Si veda J. Attali, Breve storia del futuro, Fazi, Roma 2007.
[8] A. Schiavone, op. cit., pag. 73.  
[9] Ibidem, pag. 69.
[10] Citato in Pierre-André Taguieff, Du progrès, E.J.L., Paris 2001, pagg. 118-121 [ed. it. Il progresso, Città Aperta, Troina 2003].
[11] L. Zoja, op. cit., pag. 209. 
[12] Ibidem, pag. 9.
[13] A. Schiavone, op. cit., pag. 74.
[14] Ibidem, pag. 73.
[15] P. Barcellona, L’epoca del postumano, Città Aperta, Troina 2007, pag. 31.
[16] Ibidem.
[17] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2005, pag. 82.
[18] P. Barcellona, op. cit., pag. 37.
[19] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, pag. 2. È interessante notare che, riferendosi all’uomo venturo prodotto negli alambicchi dei laboratori della modernità, la Arendt usi termini come «posseduto» e «ribellione» che rinviano alla sfera del demoniaco.
[20] Ibidem, pag. 224.
[21] Ibidem, pag. 35.
[22] A. Gras, Le choix du feu, Fayard, Paris 2007, pag. 157.
[23] A. Gras, Fragilité de la puissance, Fayard, Paris, pag. 167.
[24] A. Gras, Fragilité de la puissance, op. cit., pag. 9.
[25] L. Zoja, op. cit., pag. 9.
[26] A. Schiavone, op. cit, pag. 54.
[27] Ibidem, pag. 55.
[28] A. Gras, Fragilité de la puissance, op. cit., pag. 208.
[29] L. Zoja, op. cit., pag. 190.
[30] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, pag. 140.
[31] F. Cassano, op. cit., pag. 23.
[32] A. Schiavone, op. cit., pag. 49.
[33] A. Gras, Le choix du feu, op. cit., pag. 7.
[34] L. Zoja, op. cit., pag. 209.