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La lobby israeliana e la politica estera USA (quarta puntata)

di John Mearsheimer e Stephen M. Walt - 24/04/2006

 
 
Geroge W. Bush ad un'importante congresso dell'AIPAC

La spiegazione consiste nella ineguagliata potenza della lobby israeliana.
Se non fosse per la capacità della lobby di manipolare il sistema politico americano, le relazioni fra Israele e gli Stati Uniti sarebbero molto meno profonde rispetto a quelle attuali.
Che cos’è la lobby?
Con il termine «lobby» indichiamo un’ampia coalizione di individui ed organizzazioni che lavorano attivamente per indirizzare la politica estera americana in una direzione favorevole ad Israele. Questa definizione non implica che «la lobby» sia un unico movimento con una leadership centralizzata, o che i suoi componenti non si trovino in disaccordo su certi temi.
Il nucleo della lobby è formato da ebrei americani che nelle loro attività quotidiane cercano di fare in modo che la politica estera americana promuova gli interessi di Israele.
Le loro attività vanno oltre il semplice voto per i candidati pro-israeliani, ed includono articoli giornalistici, contributi finanziari e supporto per le organizzazioni pro-Israele.
Ma non tutti gli ebrei americano fanno parte della lobby, visto che Israele non riveste particolare importanza per molti di loro.
Un sondaggio del 2004 rivela, infatti, che circa il 36% degli ebrei americani risulta «non molto» o «per niente» legato ad Israele.
Gli ebrei americani inoltre hanno opinioni divergenti su alcune politiche israeliane.
Molte delle organizzazioni chiave della lobby, come l’AIPAC oppure la «Conferenza dei Presidenti delle Maggiori Organizzazioni Ebraiche (CPMJO) » sono capeggiate da estremisti che generalmente supportano le politiche espansionistiche del partito israeliano Likud, compresa la sua ostilità nei confronti degli accordi di pace di Oslo.


La maggioranza degli ebrei americani, invece, è più favorevolmente disposta a fare concessioni ai palestinesi ed alcuni gruppi - come la Jewis Voice for Peace - si battono per ottenerle.
Al di là di queste differenze, sia gli estremisti che i moderati sono favorevoli al costante supporto fornito dagli USA ad Israele.
Come conseguenza, i leader ebrei americani spesso si consultano con i dirigenti israeliani, in modo da poter massimizzare la propria influenza negli Stati Uniti.
Un attivista di una delle maggiori organizzazioni ebraiche ha scritto: «è consuetudine per noi dire: ‘Questa è la nostra opinione sull’argomento, ma dobbiamo vedere cosa ne pensano gli israeliani’. Noi come comunità lo facciamo di continuo».
C’è inoltre una forte consuetudine che impedisce di criticare la politica israeliana, ed i leader ebrei americani raramente sostengono chi fa pressioni su Israele.
Infatti Edgar Bronfman, presidente del «World Jewish Congress», fu accusato di slealtà quando scrisse una lettera al presidente Bush nel 2003 raccomandandogli di fare pressioni su Israele affinché frenasse la costruzione del controverso muro di sicurezza.
I critici dichiararono che «sarebbe disdicevole per il presidente del ‘World Jewish Congress’ cercare di convincere il presidente degli Stati Uniti a contrastare delle politiche promosse dal governo israeliano».
 
Similmente, quando il presidente dell’ Israel Policy Forum Seymour Reich consigliò al Segretario di Stato Condoleezza Rice di fare pressioni su Israele affinché riaprisse un importante punto di transito sul confine della Striscia di Gaza nel novembre 2005, i critici lo accusarono di «comportamento irresponsabile» e dichiararono che «
non c’è spazio nel movimento ebraico
per discussioni contrarie alle politiche di sicurezza di Israele
».
Per difendersi da questi attacchi, Reich disse che «la parola ‘pressione’ non è nel mio vocabolario quando si parla di Israele».
Gli ebrei americani hanno dato vita ad un numero impressionante di organizzazioni per influenzare la politica estera americana, delle quali la più importante e potente è l’AIPAC.
Nel 1997 la rivista Fortune chiese ai membri del Congresso ed ai loro staff quali fossero le lobby più potenti a Washington.
L’AIPAC risultò al secondo posto, dietro l’Associazione dei Pensionati (AARP) ma davanti a potenti lobby come la AFL-CIO e la National Rifle Association.
Uno studio del National Journal del marzo 2005 ha fornito conclusioni simile, piazzando l’AIPAC al secondo posto (vicina all’AARP).
La lobby include inoltre primari esponenti del movimento Cristiano Evangelico come Gary Bauer, Jerry Falwell, Ralph Reed, e Pat Robertson, ed inoltre Dick Armey and Tom DeLay, leader di maggioranza nella Camera dei Rappresentanti.
Credono che la rinascita di Israele sia una parte di una profezia biblica, supportano le sue politiche espansionistiche, e pensano che fare pressioni su Israele sia contrario alla volontà di Dio.
Inoltre fra i membri della lobby ci sono esponenti neoconservatori come John Bolton, il precedente editore del Wall Street Journal Robert bartley, l’ex Segretario all’Educazione William Bennet, l’ex ambasciatore alle Nazioni unite Jeanne Kirkpatrick e l’opinionista Gorge Will.


Le fonti del Potere.
Gli Stati Uniti hanno una forma articolata di governo che offre molte strade per influenzare il processo politico.
Come conseguenza, i gruppi di interesse possono agire in molti modi - cercando di influenzare i rappresentanti eletti ed i membri dell’esecutivo, facendo campagne di contributi, votando nelle elezioni, plasmando la pubblica opinione.
Inoltre, particolari gruppi di interesse dispongono di un enorme potere quando si concentrano su una questione rispetto alla quale la maggioranza della popolazione è indifferente.
I politici hanno la tendenza ad accontentare chi si preoccupa di tali questioni, anche se sono in pochi, dal momento che pensano che la popolazione non li penalizzerà.
Il potere della lobby ebraica deriva dalla sua ineguagliata abilità nel gioco della politica.
Nelle sue attività di base, non si comporta diversamente dalla lobby degli agricoltori, da quella dei lavoratori metalmeccanici o del tessile, oppure dalle altre lobby etniche.
Quello che la distingue è la sua straordinaria efficacia.
Non c’è nulla di censurabile nel fatto che gli ebrei americani ed i loro alleati cristiani tentino di influenzare la politica americana verso gli interessi di Israele.
Le attività della lobby non rappresentano una cospirazione come quella descritta nei Protocolli dei Savi di Sion.
Per la maggior parte, le persone e le organizzazioni che formano la lobby fanno esattamente le stesse attività degli altri gruppi di interesse, soltanto molto meglio.
Inoltre, i gruppi di interesse pro-arabi sono deboli o non esistono, cosa che rende il compito della lobby ancora più facile.


Strategie per il successo.
La lobby persegue due principali strategie per promuovere il supporto americano nei confronti di Israele.
Primo, esercita una significativa influenza a Washington, facendo pressioni sia sul Congresso che sul Governo.
Qualunque siano le opinioni di un politico, la lobby cerca di far apparire il sostegno ad Israele la scelta politica vincente.
Secondariamente, la lobby cerca di fare in modo che Israele sia dipinto favorevolmente nei confronti dell’opinione pubblica, ripetendo i miti su Israele e la sua fondazione, e pubblicizzando le idee politiche israeliane.
L’obiettivo è quello di impedire che le critiche ad Israele ottengano una vasta eco nell’arena politica.
Il controllo del dibattito politico è essenziale per garantire il supporto americano, in quanto una libera discussione delle relazioni israelo-americane potrebbe portare gli Stati Uniti ad adottare politiche diverse.


Influenzare il Congresso.
Una pilastro centrale dell’efficacia della lobby è la sua influenza sul Congresso, luogo in cui Israele è virtualmente immune da ogni critica.
Questa è già una condizione degna di nota, in quanto il Congresso non è quasi mai «timido» nei confronti di questioni controverse. Che si tratti di aborto, salute, discriminazioni, welfare, c’è sempre un acceso dibattito al Capitol Hill.
Quando si tratta di Israele, invece, i potenziali critici se ne stanno in silenzio è non c’è praticamente alcun dibattito.
Una delle ragioni del successo della lobby al Congresso è che alcuni suoi membri sono Cristiani Sionisti come Dick Armey, che affermò nel settembre 2002 che «la mia priorità numero uno in politica estera è quella di proteggere Israele».
Si potrebbe pensare che la priorità numero uno per un membro del Congresso sia quella di «proteggere gli Stati Uniti», ma non è ciò che Armey ha affermato.
Vi sono anche diversi senatori e membri del congresso ebrei che cercano di influenzare la politica estera americana in favore di Israele.
Il personale pro-israele che lavora al Congresso è un’altra sorgente del potere della lobby, come disse Morris Amitay, già capo dell’AIPAC, «ci sono molte persone che lavorano a Capitol Hill…che sono ebrei e vedono certe questione con occhio favorevole ad Israele… Sono tutte persone che possono decidere per i senatori… E’ possibile ottenere molto a questo livello».
 
E’ la stessa AIPAC, comunque, che rappresenta il «cuore» dell’influenza della lobby sul Congresso.
Il successo dell’AIPAC è dovuto alla sua abilità a ricompensare i parlamentari che supportano i loro programmi, e di punire quelli che vi si oppongono.
I soldi sono un elemento essenziale per le elezioni americane (come il recente scandalo riguardante gli oscuri affari del lobbyista Jack Abramoff ci ricorda), e l’AIPAC fa in modo che i propri candidati «amici» ricevano un forte supporto finanziario dalla miriade dei comitati politici pro-israeliani.
Per quanto riguarda i candidati che sono considerati ostili ad Israele, l’AIPAC fa in modo che i finanziamenti vadano ai loro oppositori.
L’AIPAC inoltre organizza campagne di stampa ed incoraggia i giornali ad appoggiare candidati pro-Israele.
Non vi sono dubbi sull’efficacia di tali tattiche.
Per fare un esempio, nel 1984 l’AIPAC contribuì alla sconfitta del senatore Charles Percy dell’Illinois, il quale, secondo un importante membro della lobby, «si era dimostrato insensibile e perfino ostile ai nostri interessi».
Thomes Dine, al vertice dell’AIPAC in quel periodo, spiegò cosa era successo: «tutti gli ebrei d’America, da costa a costa, si sono coalizzati per estromettere Percy. Ed i politici americani, quelli che adesso occupano posizioni pubbliche, e quelli che aspirano a farlo, hanno capito il messaggio».
L’AIPAC mette in campo la propria reputazione alla stregua di un formidabile avversario, scoraggiando così i candidati ad opporsi ai suoi programmi.


L’influenza dell’AIPAC su Capitol Hill si spinge anche più in là, comunque.
Secondo Douglas Bloomfield, ex-dirigente dell’AIPAC, «è comune per i membri del Congresso rivolgersi prima all’AIPAC quando necessitano di qualche informazione, piuttosto che alla Biblioteca del Congresso, al Servizio di Ricerca oppure ad esperti».
Inoltre, egli nota che spesso vengono fatte richieste all’AIPAC di «redigere discorsi, lavorare sulle leggi, consigliare sulle tattiche, eseguire ricerche, raccogliere voti e sponsorizzazioni».
La conclusione è che l’AIPAC, che di fatto agisce per un governo straniero, esercita un controllo paralizzante sul Congresso.
Un libero dibattito riguardante la politica USA nei confronti di Israele non è permesso, anche se tale politica ha importanti conseguenza per tutto il mondo.
Pertanto una delle tre principali articolazioni del potere USA è fermamente pro-Israele.
Come l’ex senatore Ernest Hollings notava lasciando il proprio ufficio: «non possiamo avere verso Israele una politica diversa rispetto a quella dettata dall’AIPAC».
Non sorprende il fatto che il Primo Ministro Israeliano Ariel Sharon una volta disse ad un pubblico americano: «Quando la gente mi chiede come può aiutare Israele, io rispondo: ‘Aiutate l’AIPAC’».


Influenza sull’Esecutivo.
La lobby esercita inoltre una forte influenza anche sull’Esecutivo.
Questo potere deriva principalmente dall’influenza dei votanti ebrei nelle elezioni presidenziali. Nonostante la loro bassa percentuale nella popolazione (meno del 3%), fanno delle vaste campagne di donazioni ai candidati di entrambi i partiti.
Il Washington Post ha stimato che i candidati presidenziali democratici dipendono dal supporto finanziario degli ebrei americani per circa il 60%.
Inoltre i votanti ebrei si recano alle urne in massa e sono concentrati in stati chiave come California, Florida, Illinois, New York, e Pennsylvania.
Dal momento che tali elettori sono fondamentali in competizioni elettorali serrate, i candidati presidenziali si guardano bene dall’inimicarseli.
Le principali organizzazione nella lobby si occupano di influenzare direttamente l’Amministrazione in carica.
Ad esempio fanno in modo che i critici di Israele non ottengano posizioni di responsabilità in politica estera. Jimmy Carter avrebbe voluto nominare George Ball come Segretario di Stato, ma sapeva che questi era considerato critico di Israele, che la lobby si sarebbe opposta a tale nomina.
Questo episodio emblematico fa sì che chiunque aspiri ad importanti cariche diventi un aperto sostenitore di Israele; e questo spiega il fatto che i critici di Israele sono una razza in via di estinzione fra i politici americani che si occupano di politica estera.
 
Questo vincolo è presente ancora oggi.
Quando il candidato democratico Howard Dean si dichiarò a favore di un approccio più «equidistante» nel conflitto arabo-israeliano, il senatore Jospeh Lieberman lo accusò di svendere Israele e disse che le sue affermazioni erano «irresponsabili».
Praticamente tutti i principali parlamentari democratici firmarono una dura lettera di critiche a Dean, ed il Chicago Jewish Start riportò che «anonimi hacker… avevano intasato le caselle e-mail dei leader ebraici in tutta la nazione, avvertendo che Dean sarebbe stato un pericolo per Israele».
Tali timori erano assurdi, poiché Dean in realtà era un «falco» riguardo ad Israele.
Il vice-presidente designato della sua campagna era un ex presidente dell’AIPAC, e Dean stesso disse che le sue idee sul Medio Oriente si avvicinavano più a quelle dell’AIPAC che non quelle più moderate del movimento «Americans for Peace Now».
Dean semplicemente suggerì di «riavvicinare le due parti» e che Washington avrebbe dovuto agire come un giusto arbitro.
Questa non è sicuramente una posizione radicale, ma rappresenta un anatema per la lobby, che non tollera nemmeno l’idea di equidistanza quando si parla del conflitto israelo-palestinese.
 
Gli obiettivi della lobby sono perseguiti anche quando importanti posizioni nell’esecutivo sono occupate da personalità pro-israeliane.
Durante l’Amministrazione Clinton, ad esempio, la politica verso il Medio Oriente fu in larga parte decisa da funzionari strettamente legati ad Israele (od a organizzazioni pro-Israele), come ad esempio Martin Indyk, ex direttore della ricerca all’AIPAC e co-fondatore del WINEP (Washington Institute for Near East Policy); ed anche Dennis Ross, che è entrato a far parte del WINEP dopo aver lasciato il governo, ed Aaron Miller, che ha vissuto a lungo in Israele.
Queste persone erano fra i principali consiglieri del presidente Clinton nel summit di Camp David nel luglio del 2000.
Benché tutti e tre fossero favorevoli agli accordi di Oslo ed alla creazione di uno Stato palestinese, volevano che ciò fosse fatto all’interno dei limiti posti da Israele.
In particolare la delegazione americana fu imbeccata dal Primo Ministro israeliano Ehud Barak, coordinando la linea da tenere in anticipo, e senza presentare delle proprie proposte per la risoluzione del conflitto.
Non c’è da sorprendersi se i negoziatori palestinesi si lamentarono che «stavano trattando con due delegazioni israeliane, una con la bandiera di Israele ed una con quella USA».
La situazione è ancora più evidente con l’amministrazione Bush, che fra i suoi ranghi include ferventi personalità pro-Israele come Elliot Abrams, John Bolton, Douglas Feith, Lewis («Scooter») Libby, Richard Perle, Paul Wolfowitz, e David Wurmser.
Come vedremo, queste persone hanno continuamente cercato di promuovere politiche favorevoli ad Israele e sostenute dalla lobby.


John Mearsheimer e Stephen M. Walt


(Traduzione di Sebastiano Suraci)


(continua)


(prima puntata, archivio esteri, pagina 3, 31/3/2006)
(seconda puntata, archivio esteri, pagina 2, 7/4/2006)
(terza puntata, archivio esteri, pagina 1, 17/4/2006)