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Scuola: un laboratorio di sperimentazione sociologica

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 17/03/2010

 

Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. La crisi delle istituzioni sociali tradizionali ha il suo epicentro nella dissoluzione della famiglia. Infatti, al modello familiare, si per sé comunitario, è andato via via sostituendosi il modello individualista del single. La famiglia attuale infatti sembra scaturire da una unione tra single. Da persone cioè tenute insieme da vincoli di nascita e parentela, ma in realtà antropologicamente chiuse nella realtà individuale del single. La famiglia pertanto viene a configurarsi come un microcosmo a sé stante, estraneo, se non contrapposto alla società, quale unione di egoismi individuali interdipendenti. Si verifica un rapporto si tensione conflittuale tra società e famiglia, che conduce il più delle volte alla implosione della famiglia stessa, nella misura in cui i modelli di vita proposti dalla società (e dalla virtualità mediatica), si rivelano incompatibili con la struttura unitaria della famiglia. Pertanto, la famiglia è oggi un microcosmo destinato spesso alla implosione; la sua incompatibilità con la struttura atomistica della società porta sovente alla criminalizzazione della famiglia stessa, vista come un nucleo coercitivo ed alienante, produttivo di sopraffazione e repressione, nel contesto di una società che non tollera nuclei comunitari indipendenti, portatori di valori estranei all’orizzonte individualistico del relativismo etico. Assistiamo oggi alla esternalizzazione delle funzioni già di pertinenza del nucleo familiare, quali l’educazione dei figli, sempre più affidata agli psicologi, la formazione dei giovani, appannaggio oggi della cultura mediatica, l’assistenza agli anziani, con l’intervento spesso coattivo degli assistenti sociali. L’intervento massiccio degli specialisti esterni nella vita familiare è rivelatore di un controllo sociale che si impone sempre più al nucleo familiare: si sta imponendo, in una società che si definisce democratica e liberale, una sorta di totalitarismo sostanziale strisciante che non ha nulla da invidiare ai regimi dittatoriali del ‘900. tale forma pervasiva di controllo sociale è così delineata da Christopher Lasch: “Dietro l’apparente permissività si nasconde un rigido sistema di controllo, tanto più efficace in quanto evita il confronto diretto tra le autorità e gli individui su cui queste cercano di imporre il proprio volere. Poiché il confronto provoca discussioni di principio, le autorità delegano se possibile ad altri l’imposizione della disciplina, atteggiandosi così a consiglieri, <persone di fiducia>, amici. Allo stesso modo i genitori si affidano ai dottori, agli psicologi e agli stesi compagni del bambino per imporgli un complesso di norme e assicurarsi che le rispetti”.

È bene che le tre questioni da te poste, la questione giovanile, la questione familiare e la questione scolastica vengano trattate metodologicamente in modo unitario, perché il modo unitario è il solo adatto a capirci qualcosa. Separandole, si rischia di non capire la logica profonda della loro dinamica evolutiva (o meglio involutiva) unitaria. Si finisce inevitabilmente con il riproporre le consuete (anche se giustificate) geremiadi sul bullismo e sulla maleducazione dei giovani, sul venir meno dell’autorità paterna, e sulla progressiva sparizione della serietà degli studi con conseguenti promozioni facili di massa, anticamera sicura per una disoccupazione ampiamente prevedibile.
Il modo in cui oggi si presentano intrecciate le tre questioni (giovanile, familiare e scolastica) trova il suo minimo comun denominatore unitario in un maestoso passaggio storico di fase della società capitalistica occidentale, da una fase proto-borghese e poi neo-borghese (e quindi necessariamente anche proto-proletaria e neo-proletaria) ad una fase attuale decisamente post-borghese (e quindi ovviamente anche post-proletaria). In una formulazione sintetica, stiamo entrando in una forma nuova di occidentalismo, che potremo definire post-borghese ed ultra-capitalistico. In breve, appunto, un occidentalismo post-borghese ed ultra-capitalistico. Se non si comprende questa sintetica formulazione (indipendentemente dal fatto che non la si comprende da destra o da sinistra, da posizioni liberali, fasciste o comuniste) è praticamente impossibile cogliere concettualmente la dinamica dialettica profondamente unitaria del problema.
Il modello unitario della questione giovanile-familiare-scolastica, così come oggi lo conosciamo, è nato circa due secoli fa, fra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento, sostituendo i modelli precedenti della famiglia allargata (a sua volta discendente dal modello romano di familia) e della scuola religiosa cristiana (protestante, gesuitica o ortodossa a seconda dei luoghi). Per ragioni di spazio, è impossibile qui diffondersi (ma sarebbe illuminante!) sui particolari dei delicati passaggi storici che hanno prodotto il modello della scuola moderna (il liceo classico tedesco e il liceo scientifico francese-napoleonico), il modello della famiglia moderno (l’amore coniugale e l’educazione comune dei figli al posto dei matrimoni combinati dalle famiglie), ed infine il modello romantico della figura del “giovane” (secondo l’idealista Fichte il portatore privilegiato del “ringiovanimento” della società, inteso come la passione per un cambiamento “in meglio” dell’intera società). In questo passaggio epocale in cui siamo immersi (e di cui è per ora ancora impossibile prevedere i prossimi passaggi, visto che è sempre completamente ignota l’architettura del domani) possiamo soltanto capire – in quanto ne siamo sbalorditi spettatori – il tramonto unitario del vecchio modello giovanile-familiare-scolastico, tenendo sempre conto che si tratta di un tramonto non di un dato millenario, ma di un dato soltanto bisecolare.
Nella tua domanda, che contiene già in potenza tutti gli elementi per una risposta, sono evidenziati i due punti cruciali del problema, e cioè da un lato la sostituzione del modello individualistico del single al precedente modello familiare, e dall’altro il conseguente processo di quella che tu chiami opportunamente l’esternalizzazione delle funzioni già di pertinenza del nucleo familiare. Le cose stanno proprio così. Christopher Lasch non è stato probabilmente l’unico a notare che questa estrema individualizzazione atomistica è del tutto complementare all’aumento di un controllo sociale asfissiante demandato ad agenzie specializzate, di contractors e polizie private per il corpo ed i psico-sociologi invasivi per la mente. Ma a mio avviso il cuore del contributo di Lasch per la comprensione di questo fenomeno non sta tanto qui, quanto nell’aver rilevato che la genesi di questo mostruoso fenomeno non si deve cercare a “destra”, ma a “sinistra”, o più esattamente in una evoluzione degenerativa post-moderna della sinistra stessa. Qui l’intuizione di Lasch si coniuga con la tesi dei due sociologi francesi Boltanski e Chiapello, che hanno mostrato come la sinistra si era storicamente costituita attraverso una alleanza fra una critica economico-sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo, di cui erano titolari le classi popolari, salariate, operaie e proletarie, ed una critica artistico-culturale alle ipocrisie maschiliste e patriarcali della borghesia (più propriamente, della vetero-borghesia), di cui erano titolari gli artisti, gli scrittori e gli intellettuali ottocenteschi e novecenteschi. Il contributo di questi ultimi fu decisivo per delegittimare le vecchie forme di controllo “autoritario”, ma in questo modo il bambino fu gettato via con l’acqua sporca. In termini freudiani, si voleva gettare via soltanto il Super-Io, liberando le potenzialità inespresse e “represse” dell’Es, ma alla fine si buttò via anche l’Io, la preziosa istanza di autocontrollo del comportamento sia individuale che sociale. Gli ingenui di “sinistra” che si chiedono ancora come sia stato possibile che l’ignobile Luxuria si sia sostituito al nobile Gramsci potrebbero facilmente capirlo se per loro il richiamo a Marx fosse il possesso di un metodo dialettico di chiarimento degli enigmi del presente,  e non soltanto una spilletta di riconoscimento per “marcare il territorio” di appartenenze organizzate. Gli animali lo fanno molto meglio ed in modo molto più performativo con sapienti getti di urina.
Non intendo negare che la famiglia, come del resto tutte le istituzioni umane, abbia presentato insieme elementi fisiologici positivi  ed elementi patologici negativi. Ad esempio, era abbastanza comune un tempo che il marito picchiasse la moglie, come è abbastanza comune oggi che i figli diventino di fatto ostaggi dei conflitti fra i genitori. Queste patologie familiari, ben note un tempo ai confessori auricolari e ben note oggi agli psicologi ed agli avvocati matrimonialisti, e che appunto non intendo affatto negare, sono state unilateralmente enfatizzate negli ultimi quaranta anni e trasformate in una demonizzazione sistematica dell’istituzione familiare in quanto tale, operazione necessaria per poter promuovere congiuntamente la figura idealizzata del single, non importa se omo, etero o transessuale. Ma qui ci sta un vero enigma, che merita di essere indagato con più attenzione.
Mano a mano che la delegittimazione individualistica anti-autoritaria della famiglia bisecolare moderna aumentava, in un processo che finiva con il dissolvere progressivamente non solo il Super-Io ma anche e soprattutto lo stesso Io (eredità della psyche greca, dell’anima cristiana e della stessa soggettività razionale cartesiana, morale kantiana e filosofica hegeliana e marxiana), aumentava anche la disoccupazione giovanile, matrice del cosiddetto “bamboccionismo” tanto deplorato da ipocriti come Brunetta e Padoa Schioppa. Ed il paradosso sta in ciò, che proprio mentre il processo di diffamazione, delegittimazione e criminalizzazione della famiglia moderna bisecolare toccava vertici mai visti prima (il transessuale sostituisce il padre di famiglia come modello mediatico privilegiato, all’interno di una dittatura di fatto del circo mediatico pervasivo appoggiato dalla casta nichilistica e pretenziosa degli “intellettuali di sinistra” politicamente corretti), nello stesso tempo i giovani disoccupati erano di fatto costretti a rimandare di un decennio almeno il loro inserimento stabile nel mondo del lavoro e della possibilità di costituzione di una famiglia economicamente indipendente. Per parafrasare la Filosofia del Diritto di Hegel, la Famiglia è abolita tramite il modello individualistico della sovranità dei single (il cui motto inarrivabile è stato ed è “l’utero è mio e me lo gestisco io”), la Società civile non si basa più sulla stabilità del lavoro e sul merito riconosciuto, e lo Stato, privato ormai di ogni sovranità monetaria, è ridotto ad arruolatore di mercenari geopolitici per conto dell’impero dominante USA e del suo sacerdozio sionista.
Come ho già avuto modo di rilevare almeno due volte, la crisi attuale della famiglia non è la crisi di un modello millenario, ma è la crisi di uno specifico modello comunitario soltanto bisecolare. È essenziale impadronirsi concettualmente di questa consapevolezza, perché in caso contrario gli attuali svergognati apologeti della dissoluzione individualistica avranno buon gioco nel far notare (ed avrebbero ragione) che nel corso dei millenni la famiglia è passata attraverso grandi cambiamenti, e quindi non esiste un solo modello “naturale” di famiglia. È normale che papa Ratzinger parli di modello “naturale” di famiglia contro quella vera e propria “icona della dissoluzione” che è Emma Bonino, ma si tratta di una trincea difensiva debole, perché è bene ammettere che la famiglia, oltre che una base naturale, ha avuto anche un’evoluzione storica. E allora la vera trincea difensiva sta nel sostenere che la famiglia bisecolare moderna, democratizzata attraverso la sacrosanta emancipazione femminile, è ancora una forma di vita insuperata, e sarebbe un grave errore sostituirla con una sommatoria di singles.
Il futuro è impregiudicato. Ma forse la famiglia moderna si può salvare ancora. Preliminare al suo salvataggio è la delegittimazione, che deve diventare però aperta e coraggiosa, della mefitica cultura dissolutiva di “sinistra” (e qui mi ricollego non tanto a Marx, quanto appunto a Lasch), che abbiamo lasciato colpevolmente impazzare indisturbata nell’ultimo quarantennio.

2. La scuola era tradizionalmente intesa come una istituzione preposta alla educazione dei giovani ai valori etici della comunità di appartenenza. Il concetto di educazione così inteso (dal latino educere, elevare), sembra essere ormai scomparso come un relitto dei secoli scorsi. L’educazione e l’istruzione presuppongono il riconoscimento dell’autorità dell’insegnante, la disciplina necessaria per l’apprendimento e per la formazione dei giovani, perché nell’età adulta fossero a loro volta forniti delle doti necessarie per divenire educatori. Oggi il rapporto docente - discente sembra essersi rovesciato, dato che sono gli adulti che devono rapportarsi ai giovani: l’insegnante deve attrarre la loro attenzione, dimostrarsi accattivante ed abile intrattenitore. E’ il fanciullo che è divenuto protagonista del rapporto con l’adulto, che a sua volta deve adattarsi ad esso, deve paradossalmente essere “educato” da esso. Questa concezione rovesciata del rapporto giovane - adulto è l’espressione più autentica dell’ideologia individualista prevalente nell’attuale società globalizzata: l’individuo è dalla nascita una entità in sé stessa già compiuta e autoreferente, capace di giudizio e di scelta e qualunque forma di educazione rappresenterebbe una coartazione della sua libertà innata e restia ad ogni ad ogni freno che ne ostacoli le sue espressioni creative. Da tali presupposti deriva il permissivismo generalizzato, a danno dell’educazione nei rapporti umani e uno spontaneismo incontrollato a danno della necessaria autodisciplina. Negare la necessità dell’educazione e della disciplina nella scuola significa formare adulti caratterialmente deboli, psicologicamente labili e quindi meglio predisposti a recepire la cultura mediatica della società dei consumi. Inoltre, la scarsa predisposizione al sacrificio frutto di tale permissivismo conduce all’abbassamento generalizzato delle capacità di apprendimento e del livello culturale della società.

Dal momento che sia la tua seconda che la tua terza domanda hanno come oggetto il problema scolastico, correttamente interpretato come sintomo di un più generale problema sociale e politico, toccherò in questa mia seconda risposta solo il problema generale, “globalizzato” e mondiale, della crisi del vecchio modello bisecolare di educazione, e nella mia terza risposta soltanto la sua versione tragicomica italiana. Nella mia seconda risposta evocherò una vera e propria tragedia, nella mia terza risposta invece una commedia che diventa in alcuni casi un dramma satiresco (la riforma Berlinguer e la cosiddetta “scuola dell’autonomia”).
Nel testo delle tue domande (di cui condivido sia la lettera che soprattutto lo spirito) emerge ancora una volta la consapevolezza che in realtà la crisi, apparentemente duplice, è in realtà profondamente unitaria, in quanto si tratta di una crisi unica della famiglia e della scuola nella loro forma educativa bisecolare. Tutto questo sfugge al circo mediatico, che è oggi un fattore attivo di diseducazione, dissoluzione e disgregazione, e sfugge ovviamente ai due gruppi specialistici dei pedagogisti e degli assistenti sociali (o consulenti familiari). Ma solo possedendo il “bandolo della matassa” ci si può capire qualcosa.
Alcuni intelligenti saggisti hanno cominciato a capire che il continuo richiamo ideologico all’Occidente ebraico-cristiano è in realtà un perfido strumento per il seppellimento di tutte le tradizioni positive di questo occidente stesso, e della sola esaltazione della sua principale tradizione negativa (la rivendicazione della superiorità della cosiddetta civiltà occidentale ed il diritto al colonialismo e all’aggressione imperialistica). Fra questi intelligenti saggisti mi limito qui a richiamare Luca Grecchi (cfr. Occidente: Radici, essenza, futuro. Il Prato, Saonara 2009) e Marino Badiale e Massimo Bontempelli (cfr. Civiltà Occidentale, Il Canneto, Genova 2009). Non esiste naturalmente nessun occidente ebraico-cristiano e tantomeno nessun mito di “ebrei fratelli maggiori”. Si tratta di sciocchezze militari sioniste rivolte alla legittimazione ideologica di una contrapposizione simbolica di civiltà contro l’Islam, che non potrebbero mai passare senza il prolungamento a tempo indeterminato del complesso di colpa degli intellettuali europei per avere “permesso Auschwitz”. La cultura cristiana è certamente una componente essenziale dell’identità europea, ma l’identità europea non ha di per sé niente di esclusivamente occidentale (sinonimo di carolingio, e solo di carolingio), in quanto comprende anche l’ortodossia orientale di origine bizantina e la stessa componente arabo-ebraica dell’Andalusia musulmana medioevale. L’Occidente è il veleno dell’Europa, non il suo codice genetico. Il suo codice genetico comprende almeno una decina di componenti, fra cui ci sono certamente il cristianesimo, l’illuminismo e le culture andaluse ebraiche e musulmane, ma c’è soprattutto la componente originaria greca, che sta anzi alla base del concetto di educazione (paideia). Ed è proprio questa base spirituale greca che è oggi messa in pericolo dalle fanfaluche sull’occidentalismo (metafora dell’impero ideocratico USA) e dell’identità ebraico-cristiana (metafora della sottomissione europea al sacerdozio sionista ed ai suoi obiettivi geopolitici).
La logica della globalizzazione imperialistica a direzione spirituale e militare USA tende a superare il vecchio modello bisecolare borghese-europeo (basato appunto sul comune carattere educativo della famiglia e della scuola), attraverso una strategia di dominio politico sul proletariato, di dominio economico sui ceti medi e la piccola borghesia, ed infine di dominio culturale sulla stessa borghesia complessivamente intesa (e non ridotta alla sua semplice caricatura riduttiva economicistica). Il dominio politico sul proletariato avviene attraverso la progressiva eliminazione dai parlamenti di tutte le forze politiche critiche del capitalismo, denunciate come “populiste” dalla casta corrotta dei politologi universitari e colpevolizzate come dipendenti dal totalitarismo novecentesco, dal comunismo dispotico e dal baffo asiatico di Stalin, l’alter ego di Hitler. Il dominio economico sulle classi medie avviene attraverso la distruzione del loro fondamento sociale bisecolare, il posto fisso prestigioso sostituito dal lavoro flessibile e precario, matrice della polverizzazione individualistica e dell’impotenza storica generale. Il dominio culturale sulla borghesia avviene appunto attraverso la complementare distruzione della famiglia e della scuola, basi simboliche della sua egemonia bisecolare. Ma questa ferrea e maestosa logica non può essere capita né a “sinistra”, in cui continua a dominare l’immagine paleo-marxista per cui nel triennio 1989-91 c’è stata una vittoria della Borghesia sul Proletariato, né tantomeno a “destra”, in cui mezzo secolo di anticomunismo ideologico funzionale alle cerimonie di espiazione e di perdono per essere stata “fascista” (e quindi variante del Male Assoluto) ha necessariamente comportato l’inevitabile passaggio da Giovanni Gentile ed Ezra Pound a Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, con la benedizione finale dell’impero americano (cerimonia espiatoria a Washington di fronte ad Obama, alla moglie, alle bambine ed al cagnolino) e del suo sacerdozio sionista (cerimonia espiatoria a Gerusalemme ed al Museo dell’Olocausto con zucchetto ebraico in testa). Inutile dire (ma forse utile per evitare malvagi fraintendimenti) che tutto questo non c’entra né con il marxismo, né con l’illuminismo, né con la religione cristiana, né con la religione ebraica.
Sono molte le ragioni per cui l’attuale globalizzazione ipercapitalistica è del tutto incompatibile con la centralità dell’educazione, e con il fatto che l’educazione, pur essendosi sempre accompagnata sia con la formazione sia con l’istruzione, non può essere ridotta a queste ultime. Mentre infatti su questo punto il presunto (ed inesistente) profilo ebraico-cristiano non può dirci assolutamente niente, il concetto di educazione europeo deriva direttamente dal concetto greco di educazione (paideia) si tratta di un concetto comunitario, o più esattamente a base comunitaria, che non rimanda assolutamente ad una base sociale schiavistica (secondo una tradizione confusionaria indifferentemente di destra e di sinistra, da Nietzsche a Stalin), ma ad una base sociale dominata da una maggioranza politica di piccoli produttori indipendenti (il popolo ateniese che affollava i teatri e le feste pubbliche, fra cui Socrate, figlio di uno scalpellino e di una levatrice). L’educazione greca (paideia) è un prodotto di questa base sociale, non di ricchi oziosi mantenuti da schiavi (che vennero, ma vennero più tardi, in pieno periodo ellenistico-romano).
I Dialoghi di Platone sono in proposito un documento storico assolutamente rivelatore, in quanto in essi affiora continuamente la differenza fra quella che chiameremmo oggi formazione-istruzione e quella che chiameremmo oggi (ma che sciaguratamente chiamiamo sempre di meno) educazione. Il pilota ed il ceramista devono essere ovviamente “istruiti” per conseguire il loro profilo professionale specifico (chiamato dai greci techne), ma dal semplice possesso della techne non consegue direttamente il sapere filosofico necessario per la riproduzione armonica della comunità dei cittadini. Attraverso la techne si costruiscono le case, si guidano le navi e si vincono le battaglie, ma è solo attraverso l’educazione filosofica (paideia) che si sviluppa il logos, strumento non solo della ragione e del linguaggio ma anche e soprattutto del corretto calcolo sociale (il verbo loghizomai) dei rapporti politici ed economici fra i cittadini. Il discorso sarebbe lungo, ed è qui soltanto impostato, ma ciò che conta è capire che non esiste educazione (paideia) senza una base comunitaria che ne impronta il carattere. L’educazione bisecolare borghese si è basata su quel cattivo succedaneo della polis greca che è stato lo stato nazionale europeo moderno, che si è delegittimato da solo attraverso i due bagni di sangue novecenteschi (1914-1918 e 1939-1945), e per questo viene oggi gettato via dalla globalizzazione come si getta via appunto il bambino con l’acqua sporca.
Le conclusioni, sempre provvisorie (come devono essere le conclusioni), si possono già tirare con una relativa sicurezza. Chi pensa di salvare l’eredità educativa comune della famiglia e della scuola bisecolare (la cui genesi è borghese, ma la cui validità è potenzialmente universalistica, e quindi da difendere e conservare) accettando contemporaneamente la globalizzazione finanziaria ipercapitalistica attuale si illude, ed illudendo sé stesso illude tutti coloro che gli danno retta. La logica della globalizzazione (purtroppo solo superficialmente scalfita dalla crisi esplosa nel 2008) porta alla sostituzione della famiglia con una sommatoria di single, alla riconversione del vecchio insegnante in animatore psicologico di adolescenti consegnati ai videogiochi ed ai pubblicitari televisivi, alla riconversione del vecchio clero religioso in assistenzialismo puro di drogati e poveracci, alla dittatura degli economisti, ed alla fine della scuola sostituita da agenzie interinali di formazione. Il capitalismo postborghese è una società priva di eticità; e quindi di educazione.
Molti cominciano ad accorgersene (in Italia ad esempio la saggia Paola Mastracola). Ma il generale discredito in cui è oggi caduta la critica al capitalismo, identificata con il baffo di Stalin o l’ancheggiare di Luxuria, porta all’illusione per cui ci possa essere una sorta di “via pedagogica” alla salvezza. Non è cosi, ma ci vorranno decenni prima che tutto questo possa diventare patrimonio politico e sociale comune.

3. Il livello di istruzione delle masse si è notevolmente elevato negli ultimi 50 anni. L’istruzione già elitaria ed accessibile solo alle classi più elevate, si è diffusa in gran parte del mondo industrializzato anche negli strati sociali meno abbienti. Lo sviluppo della tecnologia ha richiesto sempre maggiore qualificazione e specializzazione nel mondo del lavoro. Quindi, l’istituzione scolastica ha subito grandi ampliamenti e ha garantito nuove possibilità di scelta per le giovani generazioni, sia per un’evoluzione della società verso una maggiore giustizia sociale, che per adeguarsi alle rapide trasformazioni di una società industriale sempre in continuo progresso. Tuttavia l’istituzione scolastica si è dimostrata, almeno in Italia, sempre inadeguata rispetto alle esigenze del mondo del lavoro. La formazione scolastica si è rivelata sempre più arretrata rispetto alla evoluzione della società. L’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro è stato negli ultimi decenni sempre più difficoltoso, se non traumatico, sia per le scarse prospettive di occupazione, sia per una sostanziale impreparazione dei giovani, non forniti di una istruzione adeguata, rispetto alle mansioni richieste dalle esigenze produttive. Scuola e società si sono rivelati due mondi incompatibili. Lo Stato si è dimostrato sempre carente negli investimenti nella formazione e nella ricerca. Tuttavia, dati il declino del primato dello Stato, la formazione è oggi concepita come esclusivamente funzionale alle dinamiche del mercato e delle esigenze del mondo imprenditoriale. L’istruzione è quindi concepita come un insieme di nozioni tecniche richieste dal mercato della occupazione, con conseguente annullamento delle funzioni educative di carattere etico. Inoltre, con la fine dello stato sociale e l’elevazione del livello di specializzazione, l’istruzione tende a riacquistare il carattere elitario di inizio ‘900. Si diffonde infatti sempre più il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno: la globalizzazione comporta dunque gravi fenomeni di regresso sociale.

La risposta precedente ha richiamato una vera e propria tragedia, e cioè l’inserimento della comune crisi della famiglia e dell’educazione all’interno di una sottomissione reale sia della borghesia che del proletariato alla semplice riproduzione di un meccanismo sociale cannibalico che non ha più bisogno né della famiglia né dell’educazione, ma promuove unicamente il dominio della merce e dell’accesso ad essa attraverso differenziati profili di solvibilità. La sostituzione di borghesi e proletari attraverso semplici venditori e compratori ha ovviamente conseguenze telluriche, di cui mi limito qui ad indicare la sostituzione dell’inglese al latino come lingua liturgica sacralizzata, la sostituzione in filosofia del progetto universalistico educativo dell’umanità con il chiacchiericcio disincantato postmoderno (solo un ingenuo può veramente pensare che il relativismo ed il nichilismo siano semplici opinioni filosofiche errate anziché strutture ideologiche costitutive della società – mi spiace dover connotare come “ingenuo” il pur dotato filosofo tedesco Joseph Ratzinger), e l’oscena riduzione dei professori ad animatori sociali inseriti nel mercato della cosiddetta “autonomia scolastica”.
A causa di una situazione particolare (in  breve, la necessità sistemica di riciclare le due classi politiche mercenarie ricattabili degli ex- comunisti e degli ex-fascisti dopo il colpo di stato giudiziario extra-parlamentare surrealmente denominato Mani Pulite) la distruzione della scuola in Italia non “fa testo”, in quanto ha assunto movenze tragicomiche e satiresche sostanzialmente assenti nella maggior parte degli altri paesi europei. A mia conoscenza (e parlo da esperto, perché sono stato professore di scuola secondaria per 35 anni, 1967-2002) soltanto in Italia la cosiddetta “autonomia scolastica” è stata presentata come aperta e sfacciata duplicazione mimetica del mercato, e soltanto in Italia la scuola è stata consegnata ad un pittoresco distruttore puro come il dilettante Luigi Berlinguer (1996-2000), che ha trovato i suoi miserabili esecutori in una congrega di sindacalisti semi-analfabeti, virago CGIL scuola, psicologi invasivi e soprattutto pedagogisti pazzi, nel silenzio impotente ed orripilato dei pochi professori pienamente consapevoli della natura distruttiva di quanto stava capitando.
Segnalo in proposito il saggio di Massimo Bontempelli (cfr. “Indipendenza”, n.27, 2009), in quanto Bontempelli, intellettuale dotato di ampia competenza storica e filosofica, e nello stesso tempo insegnante di scuola secondaria, è perfettamente in grado di capire la logica distruttiva innescata negli ultimi vent’anni, che ha trovato nel quinquennio di Luigi Berlinguer un momento parossistico e tragicomico di dittatura dei sindacalisti e dei pedagogisti contro i semplici professori, che la riforma Gentile del 1923 aveva correttamente messo al centro del progetto scolastico (prescindo qui del tutto dal fascismo, dal liberismo e dal comunismo – non a caso Gramsci ne diede sempre una valutazione positiva, e questo non a caso, dal momento che Gramsci era un neo-idealista DOC). Bontempelli non ricorda però un precedente pittoresco ma significativo, il fatto cioè che lo sciagurato avesse firmato più di un ventennio prima un testo interamente descolarizzatore insieme con altri due confusionari (cfr. “Il Manifesto” rivista, n. 21, febbraio 1970). La descolarizzazione propugnata dal sessantottino fu infatti applicata, ma non nella forma utopico-consiliare, quanto nella forma aziendalistico-mercatistica. Ricordo bene quegli anni di follia, perché essi coincisero con gli ultimi anni del mio insegnamento liceale, in cui fui ridotto ad una guerriglia isolata di resistenza, scacciando come mosche fastidiose tutte le bande pedagogico-sindacali ed ignorando sovranamente tutto il ciarpame di test, documenti ed altri deliri. Piccole cose, ma come dice un proverbio greco moderno, anche gli scarafaggi sono piccoli, eppure fanno schifo lo stesso.
Non scendo qui nei particolari, e per questo rimando all’articolo di Bontempelli sopra citato. Il punto centrale sta però in ciò, che a fianco del delirio invasivo di sindacalisti semi-analfabeti e di pedagogisti pazzi (penso che il massimo della abiezione pedagogica invasiva sia stata quella dei signori Maragliano e Vertecchi, equivalente scolastico dei mutanti Veltroni e Bertinotti) la distruzione della scuola fu progettata attraverso la distruzione dei programmi nazionali e la cosiddetta “autonomia scolastica”, adattamento dell’istituzione scolastica alla logica del mercato, in cui gli studenti diventavano compratori e clienti, e come sanno tutti i negozianti, il “cliente ha sempre ragione”.
Per capire la logica di tutto questo bisogna capire che essa si rivolgeva non alla mente, ma alla “pancia” degli operatori scolastici, perché trasformava i presidi in “imprenditori sul territorio” e gli insegnanti in giocatori del vecchio gioco di “Monopoli”, in cui tutti comprano e vendono. Nel linguaggio platonico, si trattava di una vittoria tennistica dei peggiori sui migliori, perché il vero buon professore ha una vocazione pedagogica esclusiva di studio, ed è generalmente divenuto professore proprio rinunciando ad attività molto meglio pagate che richiedevano però proprio l’esercizio di attività imprenditoriali che occupavano però almeno dieci ore al giorno (per dirla con il comico Totò, modestamente era proprio il mio caso).
La chiave teorica per capire tutto questo deve essere cercata in una vecchia esternazione dell’avvocato Gianni Agnelli, per cui bisogna rivolgersi alla sinistra per poter portare a termine il programma della destra (e si pensi a Prodi ed alla sua “lenzuolata” di privatizzazioni, in cui la Goldmann Sachs sostituisce la vecchia via italiana al socialismo). Ma, appunto, quale sinistra? La sinistra derivata dal vecchio apparato metamorfico PCI – PDS – DS – PD, intesa come ceto politico particolarmente ricattabile, riconvertitosi in mercenariato politico delle multinazionali e della guerra USA geopolitica nei Balcani (si pensi a D’Alema ed al Kosovo 1999). Quando si comincerà a capire (ma ci vorranno ancora molti anni) che l’autonomia scolastica di Luigi Berlinguer e l’intervento in guerra di Massimo D’Alema nel 1999 seguono la stessa logica (ma ho l’impressione che neppure l’acuto Bontempelli lo capisca veramente), allora si porranno le basi minime per la comprensione della logica complessiva degli eventi italiani dell’ultimo ventennio.
L’autonomia scolastica fu “venduta” ai più ingenui come occasione per un rinnovamento, per una sperimentazione controllata e per l’incentivazione della creatività professionale degli insegnanti. Sciocchezze. Più o meno nello stesso periodo si diffuse un’innovazione linguistica che passò del tutto inosservata in quanto il circo mediatico-giornalistico di manipolazione cominciò a sostituire al titolo di “professore” il titolo di prof., un tempo riservato al solo linguaggio gergale giovanile, mentre l’apparato sindacale cominciò a derubricare i professori ad “insegnanti” (dalla scuola materna al liceo classico), riservando il titolo di professori al solo notabilato castale universitario. Ma per capire la logica profonda di questi mutamenti quasi invisibili ci sarebbe voluta una capacità che in generale la gente non ha, quella della “immaginazione sociologica”.
Gli apparati sindacali di sinistra sognano una proletarizzazione universale, in modo da poter “rappresentare” tutti questi nuovi plebei di fronte ai patrizi (Marcegaglia, Montezemolo, ecc.). Venuta meno la possibilità di instaurare la mitica società socialista (derubricata ad utopia sanguinaria di funzionari baffuti in giacca di pelle), il programma diventava quello della distruzione della scuola cosiddetta “borghese” (incarnata dall’abietto Giovanni Gentile). Non si accorgevano però, gli ingenui, che a distruggere la scuola borghese non erano loro (poveri untorelli!) ma erano proprio le nuove oligarchie finanziarie della globalizzazione ultracapitalistica.
I danni fatti da Berlinguer sono stati devastanti, ma non è un caso che nessuno dei successori (Moratti, Fioroni e Gelmini) è in qualche modo riuscito a porvi rimedio. E questo, appunto, non è un caso, perché siamo di fronte ad una tendenza strutturale, per cui il nuovo capitalismo postborghese non ha più bisogno né della famiglia né della scuola.
Ho abbandonato il mestiere di professore con il pensionamento nel 2002, ed ho “rimosso” psicologicamente il periodo di Berlinguer (e del suo irrilevante successore De Mauro) come si rimuove un cattivo periodo della vita, la mia impressione è che la giovane generazione di professori (si noterà che non cerco di usare mai il termine sindacalese di “insegnanti”, che pure sarebbe così bello poter usare se queste blatte non lo avessero sporcato) soffrono a vedersi dequalificati come animatori sociali “del territorio”, ma non sono in grado di innescare comportamenti collettivi e comunitari di resistenza vera e propria. Ancora una volta, la resistenza deve ripiegare nel singolo lavoro ben fatto. E tutti sanno che, scacciati come insetti fastidiosi, i sindacalisti semi-analfabeti, la virago CGIL Scuola, gli psicologi invasivi ed i pedagogisti pazzi, resta alla fine sempre l’educatore, maschio o femmina che sia.
Il mio pessimismo è quindi temperato. Se dovessi riferirmi soltanto alla superficie mediatica, sindacale e dei pedagogisti pazzi (in proposito il mutante Maragliano ha a suo tempo fatto l’elogio del videogioco come sostituto dei noiosi libri tradizionali), dovrei fare osservazioni alla Spengler sul tramonto dell’Occidente. Ma so bene che continuano ad esserci educatori vocazionali, che nessuna congrega di pedagogisti pazzi e di imprenditori dell’autonomia scolastica potrà mai distruggere.

4. Nelle scuole, come nelle università, è scomparsa la ribellione. La ribellione dei giovani, fenomeno congenito all’età adolescenziale, sembra essersi ormai ridotto a manifestazioni quasi folkloristiche, evocatrici di un passato ideologico ormai estinto e assente nella cultura delle nuove generazioni. Sembra inoltre ormai in decadenza la naturale contrapposizione giovani - adulti. Questi infatti sono oggi due mondi tra cui è impossibile la comunicazione. Quando non c’è comunicazione non può esserci né odio né amore. La società contemporanea ha risolto la questione giovanile (già propria delle problematiche sociali del ‘900), attraverso la sua rimozione. Ci si può infatti ribellare alle istituzioni di una società ingiusta e ormai fuori del tempo, se si hanno prospettive di trasformazione e ideali da realizzare in un futuro storico più o meno lontano. L’assenza di una cultura portatrice di valori etici e/o spirituali, porta necessariamente all’accettazione supina delle condizioni del presente storico, subendone le conseguenze, come una sorta di necessità fatalistica. L’omologazione sociale già paventata negli anni della contestazione giovanile è giunta dopo quasi due generazioni al suo compimento. In realtà, tale vuoto di prospettive ha le sue radici nel processo di deresponsabilizzazione e decolpevolizzazione dei giovani perseguito nell’istituzione scolastica nell’ultimo quarantennio. Si è deresponsabilizzato il giovane sin dalla prima età scolare, facendo ricorso ad un facile psicologismo che rovesciasse le responsabilità individuali su di una indefinita e astratta società, si è decolpevolizzato ogni comportamento asociale attribuendone la colpa agli insegnati e alla famiglia, visti come istituzioni autoritarie, relitti di una società arcaica, liberticida e repressiva. Ogni prospettiva di cambiamento è stata annullata formando personalità deboli, recidendo ogni legame con le radici culturali europee e ogni continuità storica con il ‘900, inoculando nei giovani massicce dosi di senso di colpa collettivo (vedi olocausto, colonialismo ecc…). In tale contesto, venendo meno le basi culturali ed una educazione alla autodisciplina e al senso critico, si sono sradicate addirittura le basi antropologiche di ogni possibile sano ribellismo, per quanto velleitario, che potesse manifestarsi nelle scuole e nelle università, proprio in virtù della presa di coscienza, acquisita attraverso la cultura, della propria condizione e del proprio ruolo nella storia e nella società in cui una nuova generazione è chiamata a vivere ed operare.             

Sono d’accordo con la tua affermazione, per cui ci deve essere un rapporto, sia pure non immediatamente evidente ad occhio nudo, fra la progressiva deresponsabilizzazione educativa e familiare dei giovani ed il contestuale progressivo indebolirsi ed affievolirsi della ribellione dei giovani stessi, fenomeno certamente in parte fisiologico, ma anche storico, perché i movimenti di massa giovanili sono spesso stati dei veri e propri barometri e segnalatori di sommovimenti sociali complessivi.
Per chi è stato interno per decenni alla cultura di sinistra, questo fenomeno appare chiaro come il cristallo. Dal vecchio marxiano “Proletari di tutto il mondo unitevi!” si era infatti passati al “Hai ucciso tua nonna per rubargli la pensione? La colpa in definitiva non è tua, ma è della società”. Chi ha ceduto (e due generazioni di idioti lo hanno creduto) che responsabilizzando unicamente la società si sarebbe ottenuto il risultato di concentrare l’attività ribellistica dei giovani contro la società stessa (e le sue innegabili e peraltro sempre crescenti ingiustizie), si trova ora con un cerino spento in mano, come l’imbecille che ha appena segato il ramo d’albero in cui era seduto. Deresponsabilizzando del tutto l’individuo per i cosiddetti “mali sociali” alla fine si è finito con il deresponsabilizzare congiuntamente anche l’istanza soggettiva razionale responsabile dell’individuo stesso. Il deresponsabilizzato non può essere un soggetto militante, ma al massimo un oggetto per psicologi ed assistenti sociali.
Il presupposto storico e filosofico di qualsiasi ribellione giovanile (non mi riferisco a pagliacciate mediatiche in cui gli studenti agiscono come guardia plebea e carne da cannone per la difesa di un modello di università completamente mafioso e corrotto ed in cui ogni meritocrazia è sostituita da cooptazioni familistiche truccate, quasi sempre verticali per i maschi ed orizzontali per le femmine) sta in una unità di sentimenti, passioni ed interessi delle tre classi di età, i giovani, le persone di mezza età e gli anziani, in cui i giovani agiscono da avanguardia storico-biologica di tutte e tre le classi di età. Ed è appunto questo che oggi è messo fortemente in discussione.
In tutti i periodi storici, fin dal tempo del paleolitico, le tre classi di età hanno teso a costruire gruppi culturali separati, in cui i riti di passaggio ed i riti funerari hanno sempre giocato un ruolo simbolico di mantenimento della comunità (pensiamo agli antichi egizi). E tuttavia, al di là della separatezza delle tre classi di età, esisteva il presupposto della comunità unitaria da riprodurre. Con lo sviluppo della individualizzazione atomistica estrema tutto questo viene meno. L’individuo diventa così talmente ipertrofico da svuotare il significato dell’educazione, l’etica del lavoro e la stessa ritualizzazione della morte. Il giovane è semplicemente un vecchio sano, ed il vecchio un giovane malato.
È bene capire che il controllo sociale complessivo da parte delle oligarchie dominanti non avviene più secondo le modalità prevalenti nel novecento, in cui le oligarchie controllavano l’insieme sociale con il metodo del divide et impera, contrapponendo gli interessi collettivi della classe operaia e dei braccianti agricoli (da cui socialismo, comunismo, fascismo, eccetera). Oggi il controllo avviene indirettamente attraverso lo sviluppo dell’impotenza sociale, per cui tutti indistintamente i membri della società – non importa se provenienti dalla vecchia piccola borghesia o dal vecchio proletariato – si sentono egualmente impotenti a cambiare le cose. La stessa fine del mondo diventa più visualizzabile e rappresentabile di un cambiamento radicale della società in cui si vive, che è diventata ormai una società dell’impotenza sociale permanente. E come si può resistere di fronte ad una entità così sfuggente e nello stesso tempo così onnipotente come la globalizzazione?
Tu affermi che la società contemporanea ha risolto la questione giovanile attraverso la sua rimozione. Affermazione esatta, ma da integrare. Il giovane è superficialmente onnipresente, attraverso l’ostensione televisiva dei muscoli del calciatore e/o delle chiappe delle veline, o attraverso i continui borborigmi sul bullismo e la cosiddetta “mancanza di valori”. Ma è appunto presente come presenza fisico-biologica socialmente del tutto impotente, a partire dalla Madre di Tutte le Impotenze, l’incapacità sociale di risolvere il problema dei problemi, il lavoro flessibile e precario. Mi ero sbagliato. Non viviamo in una società dell’impotenza, ma in una società della vergogna.