Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il declino Usa minaccia di provocare nuovi disastri

Il declino Usa minaccia di provocare nuovi disastri

di Filippo Ghira - 08/04/2010


      
 
La crisi che gli Stati Uniti stanno vivendo non è soltanto finanziaria ed economica, ma è anche politica e morale. E come tale promette di riflettersi sugli scenari internazionali ridisegnandone gli equilibri e i rapporti di forza. Una questione è chiara. Gli Usa sono un Paese stanco e privo di energie. Soprattutto incapace di presentarsi come un modello da imitare per il resto del mondo, come succedeva nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale. Danno l’idea di essere un Impero giunto alla fine della sua parabola e che si tiene in piedi, come un pugile suonato sul ring, soltanto grazie alla forza di inerzia. Si trovano poi penalizzati da un enorme debito pubblico e da un altrettanto enorme debito commerciale che la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 ha contribuito a far lievitare ulteriormente. Gli aiuti di Stato concessi dal duo Bush ed Obama a tutte le categorie di speculatori nazionali, banche di investimento, società finanziarie e assicurazioni, per non parlare di quelli elargiti alle industrie nazionali tipo quelle dell’auto, hanno tinto di scuro i conti pubblici già in rosso cronico ed hanno confermato che gli Stati Uniti sono un Paese nel quale i cittadini e lo Stato sono indebitati e vivono molto al di sopra delle proprie possibilità.
 
Un Paese perennemente indebitato
La crisi finanziaria del 2008 si è abbattuta come un ciclone sulla situazione economica delle famiglie, milioni delle quali si sono ritrovate senza un lavoro, con l’impossibilità di pagare il mutuo per una casa di legno, nella quale un europeo schiferebbe di abitare, e con l’aggravante di vedere i propri risparmi trasformati in cenere dal fallimento delle banche travolte dalle proprie speculazioni. Il fenomeno tipicamente americano dei fallimenti individuali ha quindi avuto una brusca impennata. Da qui il calo verticale dei consumi in quanto le banche, come da noi, hanno ristretto il cordone del credito ai cittadini, da decenni abituati alla possibilità di comprare a rate anche la roba da mangiare.
L’enorme debito generato dall’interscambio commerciale sta a dimostrare da un lato che i prodotti made in Usa, tranne quelli ad altissima tecnologia, non riescono più ad affermarsi sui mercati internazionali, e dall’altro che l’economia nazionale si tiene in piedi, come sempre, grazie ad una robusta domanda interna. Una domanda che, peraltro, ha goduto l’anno scorso dei massicci aiuti di Stato che il Tesoro ha elargito a piene mani, dopo essere stato costretto ad emettere una montagna di titoli di Stato. Un debito pubblico per il quale la necessità impellente è quella di trovare un compratore.
 
L’aiuto dei cinesi
La Cina che aveva fatto man bassa negli ultimi dieci anni di titoli di Stato Usa, dopo lo scoppio della crisi nel 2008 ha incominciato lentamente a tirarsi indietro, a vendere i titoli a breve per acquistare quelli a lungo termine. Tanto che a metà del febbraio scorso, Pechino e Tokio erano praticamente pari quanto a valore complessivo dei bond Usa in cassaforte. Una peculiarità che in ogni caso conferma che lo sguardo di Washington resta orientato al Pacifico e che i discorsi su una pretesa solidarietà atlantica con l’Europa sono in realtà una presa in giro che soltanto chi non vuole vedere può continuare a prendere per buona. Certo, nelle ultime settimane la Cina ha preso a riconsiderare la affidabilità degli investimenti in Europa, considerato che la stabilità del sistema dell’euro è stata messa in forse dal catastrofico stato dei conti pubblici della Grecia che ha scavato una profonda crepa nell’edificio della moneta unica. Ma se il crack finanziario della piccola Grecia non comporterebbe necessariamente un disastro a livello globale, il crack finanziario degli Usa, ossia l’impossibilità di onorare alla scadenza i propri titoli di Stato e pagarne i relativi interessi, in conseguenza della recessione e delle minori entrate fiscali, causerebbe una crisi finanziaria di dimensioni incalcolabili. Ma nonostante la crisi economica interna, gli Usa hanno sempre più bisogno di soldi per sostenere le proprie ambizioni egemoniche ed il loro ruolo sullo scacchiere internazionale. Hanno bisogno, in altre parole, di aumentare la spesa pubblica e di continuare ad ammodernare il proprio apparato militare e di tenerlo attivo in tutte le zone calde del mondo, specie in una fase nella quale Obama e i suoi compari alzano la voce sul nucleare contro i cosiddetti “Stati canaglia”, Iran in testa. Ma se non ci sono soldi, come si possono mandare altri soldati, per lo più a contratto, in un Paese come l’Afghanistan dove ogni giorno che passa, cresce la minaccia di un ritorno al potere dei talibani?
 
L’onere della spesa
Gli economisti Usa prevedono che gli Usa si siano incamminati dentro un precipizio dal quale è impossibile uscire, a meno che non ci siano i soliti polli pronti a sobbarcarsi il fardello della crisi americana. Questo non è certo il caso della vecchia Europa che deve pensare a risolvere i propri problemi economici e che teme di veder saltare quel minimo di edificio comunitario che tanto faticosamente è riuscita a costruire. Un’Europa i cui governi non vedono la necessità di inviare i propri cittadini in divisa a partecipare come truppe ausiliarie, insomma da ascari, a missioni spacciate come “di pace” ma che in realtà sono funzionali al mantenimento del ruolo imperiale di Washington e alla difesa dei suoi interessi petroliferi. Come in Iraq ed in Afghanistan nel cui territorio gli Usa non hanno mai perso la speranza di realizzare il vecchio progetto del gasdotto “talibano” proveniente dal Turkmenistan e attraverso il Pakistan diretto verso l’Oceano Indiano.
Dall’altro capo del mondo ci sono la Cina e il Giappone che hanno accettato di legarsi agli Usa e comprarne i titoli nell’ottica di rafforzare l’area economica transpacifica e di disporre di un mercato di sbocco per le proprie merci. Ma è tutto da vedere se il gioco, già di per sé impegnativo, possa essere portato avanti ancora per gli anni che servono ad Obama per terminare il suo primo mandato. Agli Usa potrebbe venire quindi la tentazione di svalutare il dollaro per rendere più convenienti i propri prodotti e per trasformare i titoli del debito pubblico in carta straccia più di quanto siano già oggi. Ma una tale svolta sarebbe l’ammissione della bancarotta e di una impotenza senza rimedio ed avvierebbe l’inesorabile declino americano. A quel punto si tratterebbe di trovare un sostituto. L’unico che avrebbe le potenzialità per farlo è la Cina contrassegnata da una crescita economica che anche quest’anno sarà di oltre il 10%. Pure lo yuan, la moneta cinese, vorrebbe porsi come alternativa al biglietto verde nelle transazioni internazionali, ma sono molto forti le riserve sulla stabilità di un Paese che in questi anni è cresciuto troppo. Una svolta che in ogni caso Paesi come Brasile e Argentina hanno già fatta propria con accordi sottoscritti da Lula e da Kirchner con il governo di Pechino.
 
Geithner a Pechino. La Cina rivaluta lo yuan
Per il momento Usa e Cina tirano avanti e pensano a dividersi i mercati.
Oggi il segretario al Tesoro, Timothy Geithner sarà a Pechino dove incontrerà il vice primo ministro cinese, Wang Qishan per parlare del tasso di cambio dello yuan con il dollaro. Washington ne ha chiesto la rivalutazione mentre Pechino preferirebbe restare ancorata al valore fisso di 6,827 per dollaro che favorisce le esportazioni cinesi ma penalizza quelle Usa e limita di conseguenza la creazione di nuovi posti di lavoro  negli Usa. Secondo gli osservatori, se lo yuan dovesse fluttuare liberamente, il rapporto di cambio sarebbe più alto di una percentuale compresa tra il 20 e il 40%.
Proprio da tale disputa l’anno scorso si sono originate le guerre dei dazi sui prodotti tessili cinesi che Washington aveva aumentato sulla spinta dei produttori Usa.
I rapporti Cina-Usa restano comunque ottimi. Due giorni fa Wang ha incontrato  Henry Paulson Jr., l'ex segretario al Tesoro di Bush che trattò con Pechino una rivalutazione progressiva del tasso di cambio dello yuan sul dollaro del 20% dal 2005 al 2008. E Wang ha insistito nel ricordare gli interessi comuni fra i due Paesi che possono portare allo sviluppo dell'economia mondiale. Un aggiustamento sembra comunque probabile visto che servirebbe a contenere l’inflazione cinese che nel febbraio scorso ha toccato il 2,7% annuo.
Geithner da parte sua ha tenuto a precisare che la rivalutazione dello yuan rappresenta “una correzione necessaria e salutare” che ribadirà il maggiore peso di una Cina che si sta aprendo al mondo e che sta affrontando un processo necessario e naturale di sviluppo e crescita. A tal fine, ha insistito Geithner, Pechino sta rafforzando il sistema di funzionamento del mercato e sta sviluppando il proprio sistema finanziario. Di conseguenza pure lo yuan assumerà un ruolo più importante a livello internazionale.