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Il Panottico

di Alain de Benoist - 20/04/2010

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Le società occidentali dispongono oggi di strumenti di sorveglianza e di controllo che i regimi
totalitari di un tempo avrebbero soltanto potuto sognare. E li usano ogni giorno un po’ di più.
Questa sorveglianza viene ad aggiungersi al “politicamente corretto”, che cerca di imporre le sue
norme all’opinione pubblica tramite l’impiego di parole imposte a tutti, al “pensiero unico”, che
tende a sostituire al dibattito il sermone, all’invadente igienismo, che mira a regolare le abitudini in
nome del Bene, alla regolamentazione delle preferenze e delle predilezioni, che va direttamente
contro la libertà di espressione, ed infine alla propaganda, che oggi viene chiamata pubblicità.
In questi ultimi anni, la sicurezza è diventata una preoccupazione politica essenziale. Soddisfare tale
preoccupazione senza mettere in pericolo le libertà è un problema che non data da ieri. All’interno
della “società del rischio”, l’insicurezza reale o presunta genera un clima di incertezza e di paura
che è in grado di far nascere ogni tipo di ossessione. L’apparato di rassicurazione utilizza questo
clima per mettere sotto controllo la società. Scomparsi i totalitarismi classici, fanno la loro
comparsa altre logiche, più sottili, di servitù e di dominio. Esse assumono la forma di un complesso
ingranaggio di proibizioni e regolamentazioni, che si legittimano attraverso onnipresenti minacce. I
pretesti sono sempre eccellenti: si tratta di lottare contro la delinquenza, di vigilare sulla nostra
salute, di aumentare la sicurezza, di controllare meglio l’immigrazione illegale, di proteggere i
giovani, di lottare contro la “cybercriminalità” e via dicendo. L’esperienza tuttavia dimostra che i
provvedimenti adottati all’inizio nei confronti di un piccolo numero di persone vengono sempre poi
estese all’insieme dei cittadini. Una volta ammesso il principio, non resta che generalizzarlo.
Scrive il filosofo Giorgio Agamben: “Da alcuni anni si cerca di convincerci ad accettare come
dimensioni umane e normali della nostra esistenza prassi di controllo che erano sempre state
considerate eccezionali e tipicamente inumane”. Il problema è che, per garantirsi la sicurezza, gli
uomini sono stati in ogni epoca pronti ad abbandonare le loro libertà. La “lotta contro il terrorismo”
è, da questo punto di vista, esemplare. Essa consente di instaurare su scala planetaria uno stato di
eccezione permanente. Negli Stati Uniti, gli attentati del settembre 2001 hanno avuto come
conseguenza diretta enormi restrizioni delle libertà pubbliche. Quel modello si sta generalizzando.
A causa della sua virtuale onnipresenza, il terrorismo provoca paure particolarmente redditizie e
sfruttabili. Contro il nemico invisibile, la mobilitazione non può che essere totale, dato che in una
simile situazione tutti sono immancabilmente sospettabili. La lotta contro il terrorismo permette ai
poteri pubblici di imporsi sulla propria società civile perlomeno tanto quanto sui propri nemici
designati. Al di là della sua realtà immediata, il terrorismo può perciò essere definito come un
fenomeno generatore di un terrore convertibile in un capitale politico che profitta, più che ai suoi
artefici, a coloro che se ne servono come di uno spauracchio per condizionare e mettere la
museruola ai loro stessi concittadini.
Le democrazie liberali, ostili ad ogni opacità sociale, si sono date un ideale di “trasparenza” che può
essere realizzato soltanto attraverso la suddivisione a scacchiera della società per tenerla sotto
stretto controllo poliziesco. La società si trasforma allora in un bunker protetto da tesserini
magnetici, codici di accesso, telecamere di sorveglianza. La moltiplicazione degli spazi privativi,
sempre a fini di sicurezza, li sottrae al flusso sociale e finisce col far scomparire il concetto stesso di
spazio comune, che è lo spazio della cittadinanza. Entra così in funzione un Panottico ben più
temibile di quello previsto da Jeremy Bentham, ma la cui funzione è la stessa: vedere tutto, sentire
tutto, controllare tutto. All’interno di una società di assistenza generalizzata, in cui ormai i problemi
sociali hanno a che vedere soltanto con la “cellula di assistenza psicologica” e la sciocca ossessione
del “dialogo” fa credere che, attraverso la discussione, tutto sia negoziabile e possa trovare una
soluzione, l’imposizione della conformità – o, come la chiama Xavier Raufer, della “monocromia”
– avviene nel mondo in cui, in informatica, viene operata la formattazione di un disco duro, in
maniera tale da fargli accettare una sola categoria di software o di programmi. Di conseguenza, è
più facile capire perché l’ideologia dominante parla più volentieri di diritti che di libertà, dal
momento che l’instaurazione di un nuovo diritto si accompagna inevitabilmente a un controllo
illimitato della sua applicazione.
La figura che la società di mercato cerca di promuovere è quella dell’eterno adolescente, in preda a
una dipendenza da consumo permanente: le merce come droga. Economia pulsionale, nella quale
l’energia è riconvertita in puro movimentiamo, in semplice capacità di distrarsi. Questo
divertimento, nel senso pascaliano del termine, si apparenta a una diversione. Distoglie
dall’essenziale, contribuendo all’espropriazione dell’Io. Fare paura da un lato, divertire dall’altro,
cioè condurre a distogliere dall’essenziale, impedire che si possa riflettere o dare prova di spirito
critico. Fare di tutto affinché le persone producano e consumino, senza interrogarsi su qualcosa che
si collochi al di là delle loro preoccupazioni e dei loro desideri immediati, senza mai impegnarsi in
un progetto collettivo che possa renderli più autonomi. La società, resa docile in questo modo,
diventa quel “gregge di animali timidi e industriosi” di cui parlava Tocqueville. È l’ideale
dell’allevamento di volatili in batteria.
Il fatto più significativo è la correlazione osservabile fra la perdita di autorità e l’obsolescenza
politica dello Stato nazionale e il rafforzamento del suo apparato repressivo. Nel momento stesso in
cui si disimpegna progressivamente dall’ambito economico e sociale, lo Stato legifera e controlla
sempre più i suoi cittadini. Il vantaggio, per lui, consiste nel fatto che, in materia di sicurezza, non è
tenuto ad un obbligo di conseguimento di risultati. O per dirla ancora meglio: il suo interesse sta nel
non ottenerne troppi, perché è così che può giustificare la pretesa di rendere permanenti le sue
politiche di controllo e di sorveglianza: “Non si rinnova la fiducia ad un governo che predica il
tutto-per-la-sicurezza perché è riuscito a ridurre l’insicurezza. Gli si rinnova la fiducia perché
l’insicurezza persiste”, ha scritto Percy Kemp. Il vero scopo non è dunque tanto sopprimere
l’insicurezza, che è pane benedetto per coloro che ne approfittano, bensì mantenerla, così da rendere
possibile l’applicazione di una sorveglianza sempre più generalizzata.
Si tratta, in fin dei conti, di creare un caos latente che, senza oltrepassare una certa soglia, sia
sufficiente ad inibire ogni velleità di reazione collettiva. La stessa tattica la si osservava ieri contro
le “classi pericolose”, con l’obiettivo inconfessato di eliminare i devianti, i sostenitori di un punto di
vista discordante. Oggi sono gli stessi popoli che, agli occhi della Forma-Capitale e delle oligarchie
regnanti, sono diventati nel loro insieme la “classe pericolosa”. Sono i popoli i soggetti che vanno
addomesticati. Per impedire loro di elaborare progetti collettivi di emancipazione e di autonomia,
basta far loro paura. A questo serve il Panottico. Diceva Péguy: “Quando non è il martirio fisico,
sono le anime che non riescono più a respirare”.