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La Grecia al palo

di Mauro Tozzato - 04/05/2010



La Cancelliera tedesca Angela Merkel, in una conferenza stampa a Berlino, alla fine ha ammesso: «Non possiamo permettere che la Grecia diventi una nuova Lehman Brothers. Nel caso degli stati - ha spiegato - non si può permettere una situazione come quella della Lehman Brothers». In questi giorni anche gli economisti e i giornalisti specializzati tendono ad accostare il “crac” della grande banca americana al rischio di default dello stato greco. Sul Sole 24 ore (del 30.04.2010) Carlo Bastasin scrive:
<<Come avvenne con il fallimento di Lehman anche la crisi in Grecia pone uno scomodo interrogativo sull’adeguatezza della democrazia di fronte a fenomeni finanziari violenti, incontrollabili e indifferenti ai perimetri nazionali della politica.[…]Dall’Asia arrivano già le osservazioni di chi ritiene che l’impasse europea sia una prova della superiorità dei sistemi autoritari.>>
Continuando il discorso si arriva però anche a scambiare l’effetto con la causa - in riferimento alla crisi “esplosa” a partire dal settore finanziario globale nella seconda metà del 2008 – per cui lo stesso Bastasin prosegue affermando:
<<Nel 2008 l’allora ministro del Tesoro, Henry Paulson, fece fallire Lehman scatenando una crisi globale perché non voleva affrontare il Congresso che aveva già una volta bocciato un piano di salvataggio delle banche, l’estremo tentativo di Paulson fu un accordo extra-politico e non pubblico con l’inglese Barclays che fallì come era prevedibile.>>
La crisi dei mutui subprime, lo scoppio della bolla speculativa immobiliare, la crisi creditizia e ipotecaria generalizzata con l’emissioni di titoli derivati privi sin dall’inizio di qualsiasi copertura – per attenerci alle cause più immediatamente economico-finanziarie – sono state le forze determinanti che hanno portato al fallimento di Lehman Brothers ma anche alla nazionalizzazione del colosso assicurativo AIG e al salvataggio di numerose altre grandi banche e di grandi corporations come Crysler e General Motors (per limitarci ovviamente ai soli Stati Uniti). La deregolamentazione finanziaria, di cui si è tanto parlato, è stata determinata dalle difficoltà degli attori economici privati e pubblico-statuali nel mantenere margini di utile monetario che si voleva assolutamente salvaguardare, in un sistema globale che si era ormai modificato sul piano prima di tutto geopolitico, e poi geoeconomico, in conseguenza dell’aumento di uno sviluppo sempre più disuguale e differenziato (e maggiormente conflittuale) tra le varie aree del pianeta. Come conseguenza degli interventi di politica economica e finanziaria portati avanti negli ultimi due anni si è venuta ad evidenziare la situazione critica – rispetto alle problematiche pur gravi relative alle bilance dei pagamenti e ai debiti esteri – dei deficit e del debito pubblico complessivo degli stati, con la relativa difficoltà di finanziarlo senza strangolare la crescita con il ricorso alla leva fiscale (e senza alimentare una inflazione “galoppante”) . A tal proposito il giornalista-economista Massimo Gaggi sul Corriere del 30.04.2010 scrive:
<<L’Europa […]torna a boccheggiare schiacciata dal peso di una crisi partita dalla Grecia e a invidiare la ripresa che si sta consolidando negli Stati Uniti. Ma a Washington non c’è compiacimento: troppi i disoccupati mentre città e Stati con le casse vuote tagliano servizi essenziali, dalle scuole ai bus urbani. E l’indebitamento federale sta raggiungendo livelli insostenibili.>>
In questa congiuntura si è assistito pochi giorni fa all’insediamento della commissione antideficit, voluta da Obama, che dovrà consegnare le sue conclusioni a dicembre, dopo le elezioni di “mid term”. Al riguardo Gaggi così continua il suo articolo:
<<Forse non riusciranno a offrire al presidente una vera ricetta, ma certificare la gravità del problema, l’impatto che su esso ha avuto la crisi globale, consentirà a Obama di muoversi più liberamente, meno vincolato alle promesse politiche (come quella di non aumentare le tasse del 95% degli americani) fatte in campagna elettorale.>>
Seppure in un linguaggio criptico, insiste il nostro esperto di economia, il FMI ha cercato recentemente di far capire cosa sia necessario fare:
<<Qualcuno ha tradotto: ai Paesi ricchi, oberati di debiti, serve una “cura dimagrante” fatta di più tasse, meno welfare e servizi pubblici e di un allungamento della vita lavorativa. Cose spaventose da comunicare ai propri elettori. E se Obama avesse deciso di fare sul serio in un Paese che si sta già allenando a una dura “austerity”[…]?Magari tra un anno dovremo elogiare gli Usa, oltre che per la ripresa (se durerà), per il loro coraggio nell’affrontare il deficit. Mentre in Europa i governi continuano a passarsi cerini accesi da un vertice d’emergenza all’altro.>>
Un ultima domanda ce la facciamo noi, per concludere: cosa potrebbe accadere, qui in Europa, se risultasse necessario applicare integralmente “ricette” molto dure - tali da mettere “sotto pressione” radicalmente i ceti “nondecisori” a medio-basso reddito “costringendoli” ad una protesta disordinata - in questa fase di confusione e soprattutto con la totale mancanza attuale di una elité che possa magari guidare e orientare i gruppi sociali subordinati ?