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L'Europa in panne. Il j'accuse di Zygmunt Bauman

di Zygmunt Bauman - 29/04/2006

 

Il j'accuse di Zygmunt Bauman: «Non è più una potenza militare e forse nemmeno economica. Deve puntare sulla cultura»

 

«La forza del Continente in futuro non sarà tecnica, ma etica: simbolo del rispetto dell’altro»«Ancora mezzo secolo fa su queste terre si lottava aspramente per la sopravvivenza, oggi che le frontiere tendono a dissolversi il primo obiettivo deve essere la convivenza» «Il vicino spesso è visto come un nemico e prevale l’istinto di divorarlo, come un tempo accadeva col diverso»

Di Stefano Gulmanelli

«L'Europa sembra non saperlo ma ha ancora molto da dare al mondo». È un messaggio di fiducia quello che Zygmunt Bauman, contraddicendo il suo noto pessimismo, lancia al Vecchio continente. Un continente piegato su sé stesso, avvilito e spaventato da quel mondo che fino a qualche decennio fa dominava e organizzava a suo piacimento. «Trent'anni fa viaggiare nel mondo da europeo significava sentirsi chiedere: "Com'è l'Europa? Cosa accade ora laggiù?"» ricorda Bauman, a Milano per un ciclo di lezioni organizzate da AssoEtica, «Ora questo interesse è scemato e con esso anche il rispetto. Perché ora il resto del pianeta non si aspetta più cose importanti dall'Europa». Quello che fino a non molto tempo fa «era il cortile di casa» - il mondo - ora ci appare una fonte inesauribile di minacce e pericoli di ogni genere. «Sembra si stia tornando a come l'antica Roma vedeva l'altro da sé», sottolinea il sociologo polacco, «"Hic sunt leones": posti dove non andare e di cui diffidare». Una situazione assolutamente inedita per l'Europa, abituata ancora 50 anni fa a vedere - grazie alle colonie sparse ovunque - «Il Sole non tramontare mai su di essa». «Era il periodo in cui l'Europa produceva soluzioni globali - vale a dire che si riverberavano sul globo - a problemi locali, ovvero creati all'interno delle sue società dal processo di modernizzazione proprio dello spirito europeo» ricorda Bauman. Si veniva creando un surplus di persone "ridondanti" e messe ai margini dal progresso? Nessun problema: lo si scaricava sulle colonie o si creavano flussi di emigranti verso zone in cui questi erano ben accetti se non addirittura necessari. Si rischiava un eccesso di produzione? C'erano i mercati del mondo nei quali i prodotti europei avevano fascino e mancanza di alternative.
Ora tutto questo non funziona più e anzi il meccanismo si è ribaltato: l'Europa si trova a dover cercare soluzioni da implementare all'interno dei suoi confini (locali) a problemi la cui genesi è esterna (globali). « Come, ad esempio combattere un inquinamento sempre più generato altrove; o trovare modelli di gestione di flussi migratori - e della multiculturalità da essi indotta - provocati da una crescente pressione esterna».
In questo l'Europa è per certi aspetti vittima della stessa globalizzazione in cui ha molto creduto e che ha essa stessa contribuito a plasmare. «È infatti la globalizzazione - o almeno la sua faccia negativa - ad aver abbattuto frontiere, limiti e barriere, sfilando in ultima analisi il Potere alla Politica per lasciarlo incontrastato alle forze del mercato e alle "verdi praterie" di quel mondo senza confini che è il cyberspazio», dice Bauman. Il che ha portato al progressivo indebolimento dell'architettura su cui soprattutto l'Europa ha fatto affidamento per esercitare il controllo e il governo dei fenomeni: lo Stato Nazione, che è così sempre più contenitore (la Politica) senza contenuto (il Potere).
Di qui una reazione istintiva dell'Europa - politica ma anche sociale - verso un ritrarsi in sé stessa, mirata a "salvare il salvabile": il nostro modus vivendi, la nostra cultura, i nostri valori, le nostre prerogative. «Un'illusione», ammonisce Bauman, «le soluzioni locali a problemi globali - ovvero cercare di mantenere un sistema stabile, democratico e sicuro all'interno di un mondo instabile e insicuro - sono pura illusione».
È per questo che l'Europa deve intraprendere un altro percorso. E può farlo - dice Bauman - offendo al mondo qualcosa di unico, che nessun altro può proporre. Non la potenza militare («quella Usa è inarrivabile»), non lo sviluppo economico («India, Cina e altri Paesi emergenti presto ci sorpasseranno»), non l'innovazione scientifica («ormai diffusa in modo omogeneo in molte aree del mondo»). Bensì «la capacità di vivere con gli altri senza pretendere che gli altri cessino di essere sé stessi». In altri termini sfuggendo all'alternativa secca che Lévi-Strauss aveva notato essere la regola per l'umanità nella gestione del rappo rto con il diverso: "mangiarlo" (annullarlo assorbendolo) o "vomitarlo" (annullarlo distruggendolo). Ora c'è una terza via, quella europea: accettare la diversità culturale, linguistica e sociale, convivendoci. «Vivere con l'altro permettendo a quest'ultimo di rimanere "altro" è qualcosa di nuovo e recente anche per l'Europa, dove soltanto 50 anni fa ci si tagliava la gola a vicenda» conclude Bauman, «Proprio per questo abbiamo dovuto imparare la lezione: per la nostra stessa sopravvivenza». E proprio l'averlo imparato a così alto prezzo mette l'Europa nella miglior condizione di "porgere" l'insegnamento ad altri.