mario e andrew cuomo

Devo questo articolo a un amico, Giovanni Barone-Adesi, prestigioso economista dell’Università della Svizzera Italiana, a Lugano. Una mattina, bevendo un caffé nella mensa dell’Università (a cui collaboro anch’io), mi disse che non riconosceva più le élite americane. Erano a suo giudizio troppo nepotiste.

Ne ho tratto un articolo, uscito ieri su il Giornale, che prende spunto dalla candidatura di Andrew Cuomo al posto di governatore di New York, a lungo occupato da suo padre Mario. E il suo non è un caso isolato. Quelli dei Bush e dei Clinton sono noti, meno quelli del vicepresidente Joe Biden, che  è un tipo curioso. L’uomo si è fatto da sé, ma ai suoi figli non ha negato nulla. Il più giovane, Hunter, è diventato uno dei lobbisti più abili proprio nel Senato di cui il padre, per anni, è stato uno dei rappresentanti più influenti. Il maggiore, Beau, è procuratore pubblico del Delaware che, guarda caso, è lo Stato di famiglia. Un paio di anni fa pensò di candidarsi al seggio paterno, ma decise di soprassedere. Domani, però…
La squadra di Obama è piena di figli di papà. Timothy Geithner a solo 47 anni è diventato ministro del Tesoro, dopo essere stato governatore della Federal Reserve di New York. Un genio? Forse. Ma ben instradato. Suo padre era responsabile della Us Development agency in Asia ovvero era colui che ha gestì il «piano Marshall» d’Oriente.
Il superconsigliere al Tesoro, Lawrence Summers, è nipote di due premi Nobel all’economia, Paul Samuelson e Kenneth Arrow. L’ambasciatore americano all’Onu, Susan Rice, è figlia di un ex governatore del Federal Reserve system. Persino il presidente della Camera, Nancy Pelosi, vanta un bel pedigree familiare: su padre Thomas, era ex deputato del Maryland nonché sindaco di Baltimora.

L’America di un tempo era molto rigida nel rifiutare il nepotismo e riteneva diseducativa la trasmissione della ricchezza per via ereditaria. Il successo andava conquistato di generazione in generazione, ripartendo da zero. O quasi. Un rigore morale che indusse grandi magnati a devolvere in beneficenza le loro ricchezze o a costituire floridissime fondazioni non profit, come quelle di Ford e Carnegie.
Ma gli Stati Uniti di oggi sono diversi. D’accordo, Barack Obama ce l’ha fatta, senza poter vantare lignaggi aristocratici, ma la sua storia, nel mondo politico, rappresenta ormai un’eccezione. L’America si è imborghesita, è diventata più europea; anzi, più italiana.

 Insomma, anche l’America tiene famiglia

E quando prevale il familismo, la società si chiude, smarrisce la sua linfa vitale, le élite diventano autoreferenziali e staccate dal popolo. Il familismo è indice di declino morale. O sbaglio? 

PS Figlio di papà anche Rand Paul, a cui ho dedicato il penultimo post e che a giudicare dalle prime uscite, a dispetto delle speranze che ha suscitato, non si sta rivelando all’altezza del padre, come alcuni di voi hanno già fatto notare. Peccato…