La libertà di stampa non si difende con le intercettazioni
di Piero Sansonetti* - 28/05/2010
Alla fine, la corporazione dei giornalisti l’ha spuntata. Il governo ha attenuato la legge contro le intercettazioni telefoniche. Non ha modificato le parti della legge che riguardano la magistratura, ma ha porto un ramoscello di ulivo agli editori, evitando le asprezze che riguardano la pubblicazione delle intercettazioni e ridimensionando le misure che miravano a tutelare i diritti alla privacy dei cittadini. Ne è venuta fuori una legge orrenda, che ha perduto la sua ispirazione originaria e ha finito per diventare solo una legge anti-giudici.
Qual era l’ispirazione originaria? Quella di affrontare il problema di un eccessivo potere dei giornali nei confronti non solo della politica ma anche della società. Gli episodi di “linciaggio” a mezzo stampa sono sempre più frequenti, e alcuni, negli ultimi anni, sono stati clamorosi. Per esempio l’indicazione del giovane marocchino Azouz come responsabile dello sterminio della propria famiglia (che invece era stata sterminata da due lombardi), per esempio nel caso Stasi, per esempio nella demolizione di due poveri romeni innocenti accusati appena un anno fa di avere violentato varie ragazze, per esempio nel clamoroso caso di Ottaviano Del Turco. I giornali hanno demolito la vita di queste persone (e di moltissime altre) senza pagare uno scotto, seppur minimo, e senza neanche produrre uno scrupolo di coscienza. Non ho mai letto l’articolo di un direttore di giornale che chiedesse scusa alle vittime del suo sensazionalismo basato sulle confidenze o le intercettazioni di un giudice. Mai.
Né mi pare che nessun direttore di giornale si senta in colpa per avere influito sulla lotta politica, in modo del tutto scorretto. Faccio un paio d’esempi. Il primo – eclatante e dimenticato – è la campagna di Repubblica sulle rivelazioni del pentito Spatuzza, che erano infondate – e assolutamente non verificate – ma hanno tenuto le prime pagine dei giornali per molte settimane, producendo alla fine solo un effetto: quello di screditare l’impegno antimafia, spargendo l’idea che tutto ciò che riguarda l’intreccio tra mafia e politica è falso. E invece non è falso. Solo che bisogna cercare di raccontarlo non pubblicando fogli e fogli avuti in dono da giudici amici, ma scarpinando, cercando la verità, parlando con le persone e i testimoni, cercando i riscontri. Vi ricordate l’eroico giornalismo antimafia di trenta anni fa e di quarant’anni fa? Quello – per la verità – di pochi giornali: Paese Sera, l’Ora, l’Unità? Quello che costò la vita, per fare qualche piccolo esempio, a Pippo Fava e a Mauro De Mauro? Be’, se ve lo ricordate siete fortunati, perché di quel giornalismo non c’è più traccia. La politica delle veline (non nel senso delle ragazze, ma degli articoli forniti già scritti dalle questure… , dei pool giornalistici e delle intercettazioni ha cancellato quelle attività, che negli anni bui del rapporto tra mafia e politica mettevano paura ai potenti, e le ha trasformate in “pratica di stati maggiori”, dove tutto è deciso a tavolino e dove il giornalismo, teleguidato, finisce per interferire prima con l’azione della magistratura e poi con la lotta politica.
Il secondo esempio di pessimo rapporto tra giornalismo di “intercettazione” e politica è stato l’operazione anti – D’Alema del 2007. Quando la pubblicazione di pezzettini di conversazione, privi di valore, tra i leader dei Ds (Fassino e D’Alema) e il dirigente di Unipol Consorte, condizionarono in modo clamoroso la nascita del Pd, levando di mezzo le figure di D’Alema e Fassino, ridimensionando pesantissimamente il ruolo (e la linea politica) dei Ds, cioè della componente di sinistra del partito, e favorendo assai la Margherita e poi la figura di Walter Veltroni, che assunse la leadership della nuova organizzazione senza neppure dover combattere, e in pochi mesi liquidò Prodi e portò la legislatura all’esaurimento e il centrosinistra alla sconfitta.
L’ispirazione originaria del decreto intercettazioni doveva essere questa: eliminare dalla lotta politica e dalla vita civile un eccesso di interferenza delle tecnologie e dello Stato. Cioè dare finalmente una conclusione a tante battaglie che la sinistra conduceva da almeno trent’anni, contro il potere spionistico sulla vita pubblica. I più anziani ricorderanno la mitica offensiva dell’Espresso, guidato da Eugenio Scalfari, contro gli 007 che avevano intercettato e spiato (allora artigianalmente e con fatica) tutti gli uomini politici italiani per ricattarli. E ricorderanno la rabbia con la quale noi militanti di sinistra parlavamo con grande attenzione al telefono, perché temevamo, a ragione, di essere spiati dai servizi segreti. Non erano battaglie di destra le nostre.
Questo vuol dire che il decreto anti-intercettazioni è un decreto dettato da ragioni nobili e di sinistra? Naturalmente no. E’ dettato – come ognuno intuisce – dalla volontà di Berlusconi di ridurre il potere dei giudici, i quali premono sulla politica e le impediscono da una parte la piena autonomia (il che è negativo) e dall’altra la piena impunità (il che, evidentemente è positivo). Il fatto che la motivazione vera del decreto sia “berlusconiana” e non di sinistra, non toglie nulla alla sostanza delle cose. E il modo nel quale la vicenda si è conclusa ha finito, appunto, per eliminare la parte migliore del decreto e per rafforzare la sua parte peggiore. Resta intatto il valore antigiudici, viene invece cancellato il segnale che si voleva dare alla stampa, richiamandola ai suoi compiti, a un senso di responsabilità e di rispetto della società.
Lo spettacolo dei direttori dei quotidiani – di tutti i quotidiani: dalla Repubblica al Giornale – assiepati insieme in una conferenza stampa di battaglia per ottenere di essere risparmiati dal decreto, secondo me, è stato penoso. Dicevano: «Ci levate la libertà di stampa». Perché? «Perché dover aspettare che una persona sia riconosciuta colpevole prima di esporla al ludibrio pubblico è un atto autoritario». E già: proprio così. Si rivendica il diritto di costruire il giornalismo sulle soffiate dei giudici, e di difendere le vendite attraverso i linciaggi, il giustizialismo, la gogna.
Ecco, io penso che la libertà di informazione, in questo paese, non sia grandissima. Ma per motivi opposti a quelli indicati dai direttori dei giornali. Per esempio, per questa ragione: che tutti i giornali, invece di occuparsi, in modo pluralista, dei problemi del paese, della vita della gente, dei diritti, dei soprusi, degli eccessi di ricchezza e povertà, dello sfruttamento, eccetera eccetera, si occupano solo degli scandali sessuali via intercettazione telefonica. Nelle settimane scorse sono stato qualche giorno negli Stati Uniti e ho letto i giornali americani. Ricchi, vari, pieni di informazioni interessantissime sulla società degli Stati Uniti e sui grandi problemi aperti. Mi è venuta una invidia incredibile. La differenza di qualità tra quel giornalismo e il nostro chiacchiericcio pettegolo è abissale. E il fatto che invece di provare, almeno su questo, a copiare un po’ gli americani, ci stracciamo le vesti paventando il rischio che le leggi rendano un po’ più difficile il nostro pettegolismo, e che pensiamo che questo sia un modo di proteggere la libertà di stampa, beh, è un fatto davvero tragico.
*L’articolo è stato pubblicato oggi, 28 maggio, sul settimanale Gli Altri ed è qui ripreso per gentile disponibilità dell’Autore.
La redazione