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Dopo Cuba, il nulla

di Stenio Solinas - 03/05/2006

 

Uno scrittore post-ideologico “costretto” a vivere nell’unica nazione apparentemente ideologica rimasta

Dopo Cuba, il nulla
Pedro Gutierrez


Emarginato e coinvolto al tempo stesso dalle coordinate geografiche, sentimentali
ed esistenziali di un’isola colta nella sua “glaciazione” politica ed “ebollizione” umana

 

Il nostro GG all’Avana
di Pedro Gutierrez
(edizioni E/O, 110
pagine, 14 euri) sta nel
farci riprendere in
mano Il nostro agente
all’Avana di Graham
Greene. Intendiamoci: Gutierrez è uno scrittore
interessante e la sua Trilogia sporca
dell’Avana, di cui a suo tempo ci siamo
occupati su questa stessa pagina, resta un
classico della narrativa contemporanea di
Cuba. Chi voglia sapere di più su quest’ultima
ha ora a disposizione un volume antologico,
Con l’Avana nel cuore (Tropea editore,
254 pagine, 15 euri) in cui un drappello di
romanzieri è chiamato a delineare le coordinate
sentimentali, geografiche ed esistenziali
di un’isola colta nella sua glaciazione politica
ed ebollizione umana. Di esso, tuttavia,
Gutierrez non fa parte, ed è un peccato perché
fra gli “impolitici” scrittori suoi connazionali
è quello che meglio fa risaltare la
schizofrenia fra la mitologia ideologica di
cui Cuba resta portatrice e la disperata quotidianità
che le fa da controcanto. In quella
infatti che è stata definita la “narrativa del
disincanto”, la carica di attualità è totale ma,
come nota Leonardo Padura Fuentes, cui si
deve la cura antologica del volume, “in
generale il fattore politico resta sommerso,
spesso neppure nominato, intenzionalmente
supposto, e ne affiorano solo le conseguenze
a livello umano e sociale, attraverso comportamenti
e atteggiamenti, evasioni, frustrazioni”.
Ne consegue “un’infinità di racconti
forse troppo infarciti di emarginati,
prostitute, arrivisti, mendicanti, emigranti
balseros che se ne vanno e gusanos che
ritornano), pazzi, drogati e soprattutto omosessuali
(di ogni sesso e tendenza), la maggior
parte dei quali segnati da scetticismo,
scoramento e a volte dallo squallore più
amaro che riflettono la cronaca di un periodo
di mutazioni profonde”.
Scrittore prolifico, di questa “infarcitura” di
emarginati, Gutierrez si deve essere reso
conto, anche perché, come dire, è carne della
sua carne e Il nostro GG all’Avana è un
po’ il tentativo di chiamarsene fuori, metà
pastiche sulle orme di un romanzo celebre,
metà divertissment che, evitando l’autobiografismo
e la contemporaneità, sposta il suo
centro d’azione in quella Cuba di Batista
che consente una maggiore libertà di critica:
non c’è Castro, non c’è il castrismo, non c’è
il regime e la sua repressione, ma tutto, se si
vuole, può essere anche letto in filigrana,
ovvero allo specchio, come un gioco di scatole
cinesi in cui il potere cambia il suo
colore, ma non la sua essenza.
E però è come se la consuetudine a giocare
a rimpiattino con il “politicamente
corretto” che lo circonda - Gutierrez
vive e scrive a Cuba, ha conoscenza di
prima mano delle censure, delle pressioni
e delle umiliazioni di cui uno Stato
totalitario può servirsi - abbia talmente
inciso sulla sua narrativa che, una volta
liberata dall’ansia di voler dire tutto senza
poter dire tutto, essa risulti come spaesata.
In sostanza, quella Cuba in cui non
ha vissuto (l’autore è nato nel 1950) non lo
interessa, non lo stimola: il suo essere stato
a lungo l’isola-casinò degli interessi americani,
il nido dello spionaggio occidentale e
sovietico, l’emblema, per molti diversi, della
corruzione e della decadenza, non lo
attrae più di tanto. Così, quello che sarebbe
potuto essere uno straordinario romanzo nel
romanzo, un oscuro giornalista, omonimo e
connazionale del romanziere, che arrivato a
Cuba in fuga dallo squallore della propria
vita, si ritrova immischiato in un amore fatto
di sesso e in un delitto politico, il suo più
celebre doppio che a propria volta giunge
all’Avana per investigare su quell’io che non
è il suo, ma potrebbe essere materia per un
futuro romanzo sullo sdoppiamento della
personalità, si sgonfia dopo un fulmineo,
esilarante inizio. E, ulteriore paradosso, è
solo nella ricostruzione di una Cuba sensualmente
promiscua e sgangherata che Gutierrez
si muove con disinvoltura, perché è
quella rimasta identica e che conosce perfettamente,
nascosta e/o vietata in modo diverso
rispetto alla morale puritana borghese di
un tempo, sostituita da una morale puritana
rivoluzionaria, ma egualmente vitale, egualmente
grottesca, egualmente pericolosa.
Ne Il nostro GG all’Avana Gutierrez riporta
un brano dell’“Elogio della slealtà” fatto da
Greene in una conferenza alla fine degli
anni Sessanta: vale la pena citarlo per esteso.
«La slealtà è una prerogativa dello scrittore.
Il suo compito consiste nell’essere
l’avvocato del diavolo per le vittime e gli
emarginati, per coloro i quali vivono ai
margini dello Stato e delle istituzioni perché
ne sono stati calpestati o rischiano di esserlo.
È mio dovere e fondamento del mio
impegno, essere il granello di sabbia che fa
inceppare il meccanismo dello Stato. La
politica fa parte dell’aria che respiriamo.
Ciò che mi interessa dei politici non sono le
idee, ma le motivazioni che li spingono. È il
“fattore umano”».
Ora, nel romanzo di Gutierrez è
proprio il “fattore umano” a
essere assente, laddove ne Il
nostro agente all’Avana era
quest’ultimo a fare da protagonista.
I Servizi segreti
inglesi che arruolano Jim
Wormold, modesto rappresentante
di aspirapolveri
che non si aspetta
più nulla dalla vita,
non lo fanno nel nome di
un’idea, cortina fumogena
che avvolge ogni scelta,
ma più semplicemente in
una logica di potere,
di potenza.
Si “inventano” una spia perché partono dal
presupposto che tutti siano come loro, amino
il complotto, la manipolazione, il dominio
degli altri, l’inebriante sensazione di
condurre un gioco di cui sono i re rispetto a
delle pedine necessarie, ma non indispensabili,
e quindi sacrificabili. Il risultato sarà
catastrofico perché Wormold, “inventato”
come spia, ovvero scelto in una logica che
non è la sua, a propria volta inventerà, fingendo
di avere degli agenti che non ha, delle
informazioni che sono solo il frutto della sua
fantasia, e così andrà a sbattere contro una
realtà per la quale la finzione non esiste e
tutto è invece possibile: basta “inventarsi”
un nemico perché questi prenda corpo e
qualcuno si interessi alla sua esistenza.
Graham Greene apparteneva a una generazione
che le ideologie le aveva assaporate
fin dall’infanzia: ventenne quando fascismo
e comunismo avevano fatto la loro comparsa
sulla scena, figlio di una democrazia liberale
nella quale a malincuore si riconosceva,
aveva attraversato gli anni fra le due guerre
nella consapevolezza che solo un conflitto
epocale avrebbe potuto in parte stabilire vincitori
e vinti, lasciando sul terreno uno dei
contendenti, ma proiettando i restanti in un
dopoguerra freddo e lungo, fatto di veleni e
di amarezze. Come già era accaduto per
l’Indocina francese, Greene si accorse che i
nuovi equilibri di potenza che si venivano a
creare, i cosiddetti “interessi nazionali”, le
cosiddette “sfere di influenza”, finivano con
il muoversi internazionalmente senza tenere
in alcun conto la realtà effettuale delle cose:
costruivano e/o disfacevano in base a una
logica che non badava alle esigenze e alle
necessità reali di chi ci finiva in mezzo, ma
solo al concetto astratto che la rendeva possibile.
Nella Cuba precastrista “l’interesse
nazionale” americano giocò prima e a lungo
la carta Batista, il sergente divenuto dittatore,
e quando la ritenne impresentabile e troppo
troppo
autonoma, tirò fuori dal mazzo quella
castrista, considerata più naive, più
debole e quindi più condizionabile.
Castro fu anche l’effetto della propaganda
americana e fu un giornalista
americano, Henry Matthews,
a costruirne il mito. E però l’eliminazione
del governo Batista,
peraltro per molto tempo
appoggiato dai comunisti
locali, metteva in campo
altri “interessi nazionali”,
sovietici in primo
luogo, disinteressati
alla realtà cubana
quanto interessati allo
loro logica di potenza.
Ne Il nostro agente
all’Avana, tutto questo
è colto in nuce,
perché quello che a
Greene interessava era il “fattore umano”
visto soprattutto dall’altra parte, ovvero dalla
parte degli emarginati, degli umili. Lo
affascinava il perché di una scelta, quel
“granello di polvere” che blocca gli ingranaggi
della ragion di Stato, e i motivi che a
essa stavano dietro: un particolare senso dell’onore,
la difesa dei propri cari, il disprezzo
per chi pretende di importi delle regole di
condotta. Il risultato è un romanzo tragico e
ironico, in quanto la semplicità di Wormold
si scontra con l’alterigia e la supponenza del
potere e ne fa risaltare la vanità, la vacuità,
l’inutile crudeltà.
Nel libro di Gutierrez, invece, il confronto
manca e i motivi sono per certi versi comprensibili.
Gutierrez è uno scrittore postideologico
costretto a vivere nell’unica
nazione ideologica apparentemente rimasta.
La sovrastruttura che ancora al tempo di
Greene mascherava, nobilitava e per molti
versi giustificava un’altra morale rispetto a
quella comune, è andata talmente in pezzi
che non è più neppure ipotizzabile. Il finto
agente di Greene si muoveva in un mondo in
cui il richiamo a degli ideali superiori, di
patria, di partito, di classe, per quanto falso
poteva suonare vero, laddove l’esperienza
pubblica e privata di Gutierrez non lascia
spazio a ipocrisie o fraintendimenti. La rivoluzione
è andata a fondo e ciò che rimane a
galla sono i relitti del sistema da un lato, i
naufraghi del fallimento dall’altro. Chi si
aggrappa ai primi difende lo status quo, non
un’idea, chi nuota fra i secondi si preoccupa
semplicemente di non affogare. Ciò rende
impossibile qualsiasi relazione che vada al
di là di una semplice constatazione dei rapporti
di forza: chi ancora detiene il controllo
ha smesso da tempo di credere nell’indottrinamento,
nella convinzione e nell’esempio
come arma del consenso, chi ne è succube è
consapevole che è comunque il tempo a
lavorare in suo favore e si accontenta di
durare: sopravvivere è il suo modo di combattere.
Si ritorna così a quanto si diceva all’inizio.
Via via che l’attualità da raccontare è sempre
più privata e sempre meno pubblica,
ovvero finisce per considerare la res publica
come un altro da sé, reale, ma non essenziale,
l’orizzonte intellettuale si restringe, si fa
narcisistico-individuale, non riesce più ad
essere costitutivo di un’epoca, di una società,
una classe sociale. Negli anni Sessanta,
quando Cuba era ancora un esempio e per
certi versi un modello, lo scrittore Alejo
Carpentier aveva osservato che “nella maggior
parte dei romanzi di Balzac i personaggi
sono tutti segnati, sorretti, condotti, sollevati
o schiacciati dagli eventi della loro epoca.
Le allusioni alla realtà politica sono
costanti e reiterate. Tutti vivono in funzione
di qualcosa che è accaduto: la rivoluzione, il
crollo dell’impero, la restaurazione della
monarchia, i fermenti rivoluzionari”. Anche
in Graham Greene questa sorta di balzacchismo
è presente, fra illusioni perdute, illusioni
disattese, illusioni rubate, illusioni sbagliate,
mentre per Gutierrez e gli scrittori
cubani della sua generazione è straordinariamente
imperante l’assenza, più che la fine,
delle illusioni. Ciò che resta è l’accettazione
di una sorta di limbo contemporaneo in cui
rifarsi al passato è impossibile, criticare il
presente è vietato, sognare un futuro velleitario
è in fondo inutile, perché non c’è nulla
su cui farlo poggiare.