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Sovrano è il “politico”

di Fabio Falchi - 07/06/2010


Sovrano è il

E’ nota la tesi fondamentale del grande filosofo del diritto Carl Schmitt: «Sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione» (“Teologia politica”, in C. Schmitt, “Le categorie del politico”, Il Mulino, Bologna, 1984, p.33). Schmitt, influenzato dall’esistenzialismo, ossia da una corrente di pensiero che attribuisce particolare importanza alle “situazioni limite”, ritiene infatti che sia l’eccezione che produce e “com-prende” la regola, non viceversa: «L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione la vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione» (Ibidem, p. 41).

Si tratta di una tesi che, indipendentemente dalla complessa concezione filosofica di Schmitt, sembra offrire una chiave di lettura dell’attuale politica internazionale, contrassegnata dalla scomparsa di un equilibrio che si era venuto a creare dopo la fine della Seconda guerra mondiale e che si basava sulla contrapposizione tra Est (Urss e Paesi “satelliti”) ed Ovest (l’America ed i suoi “alleati”), secondo quella logica di “amico o nemico” che per Schmitt è l’essenza stessa del Politico. Con la crisi irreversibile dell’Unione Sovietica ed il suo crollo all’inizio degli anni ‘90 del secolo da poco trascorso, si è assisto alla fine della guerra fredda e contemporaneamente al tentativo degli Usa, sostenuti dalla potente lobby sionista, di dare vita ad un modello unipolare, allo scopo di controllare il “cuore” dell’Eurasia e, in tal modo, poter conquistare definitivamente il totale controllo del mondo. Un tentativo che può considerarsi già fallito, sia per le difficoltà che l’apparato militare americano incontra, nonostante le sue enormi dimensioni, nel riuscire a risolvere conflitti locali (Iraq ed Afghanistan), sia per l’opposizione alla politica di potenza americana della Russia e della Cina, nonché di Paesi come l’India, la Turchia, l’Iran, il Brasile ed il Venezuela, il cui ruolo sulla scena mondiale diventa sempre più rilevante. Perciò, molti osservatori ritengono che sia già in atto una “fase multipolare”, che è destinata a caratterizzare la politica nei prossimi anni. Cionondimeno, è indubbio che non si sia in presenza di un vero e proprio “ordine” internazionale, tale da permettere di governare i conflitti non solo di carattere politico, nel senso stretto del termine, ma anche, ovviamente, di carattere economico o finanziario (per quanto gli Usa, con l’arroganza che è loro propria, continuino a definire comunità internazionale se stessi, oltre ad Israele ed alla Gran Bretagna).

Di fatto, nessun reale equilibrio, dopo la caduta dell’URSS, si è costituito e l’attuale “fase multipolare” pare ancora essere estremamente fluida ed “aperta”. Ed è proprio in un siffatto quadro geopolitico, in cui le vecchie regole non valgono più e le nuove non sono ancora state stabilite, che si mostra la necessità del Politico per strutturare non solo il sistema delle relazioni internazionali, ma anche e soprattutto per definire le regole dei singoli sistemi sociali ed economici. Ciò non dovrebbe meravigliare, sebbene la prevalenza della funzione economica rispetto alla funzione politica troppo spesso venga fraintesa. Infatti, si deve purtroppo constatare che l’economicismo è ancora a fondamento di molte critiche (benché in larga misura condivisibili) della attuale società capitalistica: si vorrebbe la socializzazione dei principali mezzi di produzione, difendere la decrescita, abolire il potere delle banche e c’è addirittura chi si ingegna a delineare come dovrebbe essere la società socialista o comunque “non di mercato” del futuro. Oppure, si ritiene che il “sistema” possa cambiare in meglio, agendo direttamente sul piano economico e finanziario (sovranità monetaria, nuove politiche sociali ecc.). Ma senza, naturalmente, dire “chi ” dovrebbe farlo e soprattutto “come” lo si potrebbe fare. E’ inevitabile allora che si manchi di concretezza e si rischi di scambiare ciò che dovrebbe essere per ciò che effettivamente è, non comprendendo così che l’affermazione che è l’Economico, anziché il Politico, a svolgere la funzione predominante, non significa che la lotta politica non sia decisiva, ma che il Politico agisce in funzione dell’Economico. Vale a dire che il Politico, in una società liberal-capitalistica, tradisce sia il principio di identità che quello di rappresentanza: il primo, dato che priva il popolo di sovranità reale, trasferendola ad un’oligarchia plutocratica; il secondo, in quanto tutela interessi di parte e non rappresenta più l’unita dello Stato, né agisce più secondo un’idea di “bene comune”. Sicché, se da una lato si deve riconoscere che l’Economico è esso stesso una forma degenerata e mistificata del Politico, dall’altro appare ovvio che sia sul “terreno” della politica che si decide anche il ruolo e la “natura” dell’Economico. E’ il controllo dello Stato, in particolare dello Stato dominante (cioè gli Usa ancora oggi, soprattutto per quanto concerne l’Europa), che garantisce ai potentati economici di articolare una società secondo i loro interessi.

Dietro il “potere economico” c’è sempre il “pugno” della politica e militare. Per questo motivo, opporsi alla politica atlantista e sionista è la condizione necessaria perché siano possibili autentiche riforme di struttura, se non innovazioni rivoluzionarie, dato che solo un radicale cambiamento dell’ordinamento geopolitico che finora è prevalso, ovvero quello stabilito dal “Leviatano” americano, creerebbe un nuovo “spazio” in cui sarebbe possibile agire secondo una prospettiva antagonista rispetto ad una concezione del mondo basata sui “dogmi” liberisti. e si libererebbero nuove energie per favorire uno sviluppo economico non (totalmente) dipendente dalla cosiddetta logica di mercato e rafforzare la sovranità delle singole comunità politiche nei confronti della oligarchia finanziaria e della potente lobby sionista (che, in Europa, sembra ormai addirittura in grado di “dettare legge” in ogni ambito sociale e culturale). Ed è questo che almeno alcuni dei Paesi sopraccitati pare abbiano compreso e cerchino di realizzare, sia pure, com’è ovvio, in forme e modi diversi. Scrive giustamente Gianni Petrosillo: «C’è una mappa geostrategica che allinea Turchia, Siria, Iran, Russia ma anche Libia, Italia, Algeria. Questa “corsia” geopolitica può mettere in crisi lo strapotere statunitense negli scenari caldi del pianeta e diventare una breccia irrimediabile nel suo dominio mondiale. E’ solo per questa ragione che gli statunitensi vogliono annichilire le istanze italiane e le sue legittime prospettive di indipendenza» (“La quinta columnia”, disponibile sul sito “Conflitti e strategie. Per un’analisi dei capitalismi nella fase multipolare”. La critica dell’economicismo e l’importanza del conflitto politico, per comprendere anche i fenomeni economici, mi sembra essere il filo conduttore degli articoli pubblicati su questo sito, a cui collabora assiduamente anche l’economista Gianfranco La Grassa. In sostanza, Petrosillo e La Grassa difendono una visione critica ma disincantata della attuale società liberal-capitalistica, mostrando i gravissimi limiti di una semplicistica e ingenua idea della “globalizzazione” – un termine non privo di ambiguità – che trascura perfino il soggetto della “globalizzazione”, ossia il fatto, non secondario o marginale, che a volere “globalizzare”, per così dire, sono appunto gli Stati Uniti ). E’ perciò evidente, per quanto concerne l’Italia e l’Europa continentale, che, se la critica della cultura atlantista e dei pregiudizi filo-sionisti può indebolire l’ideologia dominante (che Gaetano Mosca denomina “formula politica”), rischia però di rimanere “sterile” , qualora non riesca ad “integrarsi” in una “concezione geopolitica”, che non solo valorizzi “iconografie” e identità culturali che connotano la storia millenaria dell’Europa, ma rappresenti anche un’alternativa credibile e realistica all’egemonia dei tre Paesi – cioè gli Usa, la Gran Bretagna ed Israele – che hanno tutto l’interesse a tenere l’Italia e l’Europa in una condizione di sudditanza, più o meno accentuata, a seconda delle diverse situazioni storiche. Di conseguenza, la “fase multipolare” che è appena cominciata conferma – nonostante l’illusione che la storia fosse finita e la terra dovesse rassegnarsi a diventare una sorta di “arcipelago” dominato dalla talassocrazia angloamericana – che è la “decisone” del Politico a stabilire nuovi “ordini e proporzioni”.

Una “decisione” tuttavia che può essere efficace solo in quanto presuppone uno “spazio” che non è neutro ed omogeneo, ma “qualitativo” e differenziato, nel quale vi sono percorsi già tracciati dalla storia e dalla cultura ed altri possibili, ancora da progettare e costruire. Del resto è proprio Carl Schmitt che ci insegna che un “ordinamento politico” è in primo luogo un “ordinamento spaziale”, in quanto non può non dipendere dal rapporto dell’uomo con l’ambiente circostante, e che le grandi “rivoluzioni” politiche, sociali e culturali sono quasi sempre state accompagnate da altrettante “rivoluzioni spaziali” (vedi C. Schmitt, “Terra e mare”, Giuffrè, Milano, 1986, in particolare p. 56). Per quanto corrotte e incapaci possano essere le classi dirigenti europee, e in particolare quella italiana, non si dovrebbe allora perdere l”occasione di incoraggiare qualunque apertura verso Est o il Mediterraneo, indipendentemente da ogni altra considerazione. L’Italia e l’Europa hanno già perso l’opportunità di sfruttare l’occasione storica offerta dal crollo del Muro di Berlino e dalla scomparsa del Patto di Varsavia – allorché sarebbe stato possibile mettere fine al dominio Usa, uscendo dalla Nato; e sono seguiti venti anni di privatizzazioni, la degenerazione e l’impoverimento della vita politica, lo smantellamento dello Stato sociale e un “turbo-capitalismo” che ha generato gravissime diseguaglianze sociali ed una gigantesca “bolla finanziaria” che minaccia di distruggere l’economia reale dei Paesi europei. Adesso, un’opinione pubblica più consapevole di quale sia la posta in gioco dovrebbe far prevalere un “sano” realismo politico su “logiche di parte” e cercare di indurre i membri della classe dirigente più attenti all’interesse nazionale a prendere decisioni rischiose ma necessarie, se si vuole evitare di rimanere semplici spettatori di un processo di razionalizzazione del conflitto internazionale che non è ancora terminato.

Le guerre non si possono vincere saltando sul carro dei vincitori, quando i giochi sono fatti. E che vi sia una guerra in corso, non vi è dubbio; e non può non avere conseguenze disastrose per un popolo non comprendere che la politica (cioè il “conflitto”, che non è che una determinata forma di “guerra”) è un “destino”, un modo di essere radicato nel nostro “Esser-Ci”, ovverosia una dimensione costitutiva del nostro “essere nel mondo”. E non è nemmeno dubbio da che parte convenga stare all’Italia ed all’Europa continentale, o meglio al popolo italiano ed ai popoli dell’Europa continentale, ammesso che si abbia ben presente la differenza tra la civiltà europea – “incastrata”, di necessità, nella storia e nella cultura dell’Eurasia – e la cosiddetta civiltà occidentale, che sembra essere, in un certo senso, il “controtipo” di quella europea e la sua “perfetta” contraffazione ed “inversione”. Certo, a coloro che sognano un mondo migliore, può parere poco. Ma la linea retta in politica è spesso la peggiore e in definitiva ciò che conta è che la direzione sia quella “giusta”. E non è un caso che siano dei popoli dell’Eurasia – si pensi, ad esempio, alla resistenza pluridecennale dei palestinesi all’oppressione sionista (e che solo per questo meriterebbero il nostro incondizionato appoggio, ché per noi europei, difendere la loro identità, equivale anche al tempo stesso a difendere la nostra identità) o al fatto che, come afferma Aldo Braccio, «Turchia e Iran condividono oggi quello che si è in gran parte perso nell’Europa occidentale: il rispetto per le proprie tradizioni e per valori autentici di contenuto spirituale e comunitario» (A. Braccio, “Iran e Turchia, lezione di un dialogo”, articolo disponibile sul sito “Eurasia”) – che mostrano, ad un’Europa ancora “traumatizzata” dalle tragedie del Novecento, che il destino di un popolo, se quest’ultimo ha la volontà e la capacità di mantenersi nella sfera della politica, non può essere “deciso” a priori né dai potentati economici né dalla “prepotenza” di quegli Stati che fondano la propria esistenza e le proprie fortune sullo sradicamento e l’annientamento di ogni “ethos” che sia diverso dal loro.