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Dante e la Venezia Giulia

di Francesco Lamendola - 04/05/2006


Vogliamo parlare di  “Dante e la Venezia Giulia”. Perché?
È una domanda preliminare che lo storico si sente spesso rivolgere nel corso del suo lavoro di ricerca.
Johann Huizinga, il geniale storico olandese autore di un affresco grandioso e affascinante come L’Autunno del Medioevo, se l’era posta da sé, e aveva cercato di rispondere nei seguenti termini: “Si vuole conoscere il passato. Perché lo si vuole conoscere? C’è ancora chi risponde: per prevedere il futuro. Ci sono molti che pensano: per comprendere il presente. Personalmente, io non arrivo a tanto. Io penso che la storia cerchi di dare uno sguardo al passato in sé e per sé. Ma a che scopo? Il fattore finalistico, nella nostra sete di conoscenza, non può essere trascurato. Evidentemente, in ultima analisi, sempre allo scopo di ‘comprendere’. Che cosa? Non le circostanze e le possibilità particolari del confuso presente. Chi volesse sostenere una cosa simile, non dovrebbe poi meravigliarsi se qualcuno ne concludesse che egli vuol conoscere Lutero allo scopo di capire la politica ecclesiastica del Terzo Reich, o Michelangelo per capire l’espressionismo del 1920. No, non si tratta della tempesta del fosco presente,ma del mondo e della vita nel loro eterno significato., nella loro eterna tensione e nella loro eterna quiete. Ricordiamo la felice espressione di Jakob Burckhardt: ‘Ciò che un tempo fu gioia e  dolore, ora deve diventare conoscenza, come del resto anche nella vita del singolo.’ (…) Il nostrio augurio è che, per mantenere ed elevare ancor più l’esercizio della storia, non manchino neppure due doti ancor  più indispensabili dei mezzi tecnici, e della limpida ragione: lealtà e purezza di spirito.” (1)
Cerchiamo dunque, con lealtà e purezza di spirito, di restituire i suoi contorni a una pagina di storia, in questo caso di storia letteraria, che era stata ingiustamente dimenticata, così come ingiustamente dimenticata è stata, negli ultimi decenni, l’italianità culturale (in primo luogo linguistica) e spirituale dell’Istria, di Fiume e di una parte della Dalmazia. Il nostro scopo non è quello di imbastire una polemica politica né di strumentalizzare il gran padre Dante ai fini di un disegno revisionistico della nostra storia recente. Non sarebbe questo il luogo e non sarebbe rispettoso nei confronti dello stesso Dante, che non è una bandiera che questa o quella parte possano agitare per i propri, pur legittimi, fini. Dante, come la storia, appartiene a tutti, purchè ci si abbeveri alla sua fonte con atteggiamento sereno e rispettoso. Vogliamo soltanto cercar di capire cosa Dante pensasse del confine nord-orientale dell’Italia, delle sue genti e dei loro dialetti, quali luoghi abbia personalmente visitato, quali conosciuto per via indiretta; quali tracce del suo passaggio, materiale o ideale, vi abbia lasciato.
E partiamo, naturalmente, da quei famosi versi in cui, per descrivere gli avelli infuocati della città di Dite, ove soffrono gli eretici del VI cerchio infernale, Dante ricorre a un doppio paragone geografico, citando sia la necropoli romana di Arles, alla foce  paludosa del Rodano, sia quella di Pola, presso il golfo del Quarnaro, che delimita l’Italia e ne bagna i confini:

Dentro li entrammo sanz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;
e veggio ad ogne man grande campagna
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ‘l modo  v’era più amaro;
ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte. (2)

Sulla base di questi versi, alcuni critici hanno affermato, ed altri hanno negato, un viaggio a Pola del sommo poeta; ne riparleremo tra breve; ora vogliamo porci un’altra domanda. Se Dante, con le parole: presso del Carnaro  /  ch’Italia chiude  e suoi termini bagna, abbia voluto adoperare  una semplice espressione geografica, un po’ come il principe di Metternich al Congresso di Vienna, quando definiva l’Italia, appunto, un’”espressione geografica” (3), o se abbia voluto fornire una sua propria convinzione circa i confini politici del bel paese, dove il sì suona.
Ebbene, diamo subito fuoco alle polveri riportando il commento di uno dei più noti esegeti moderni della Divina Commedia, Tommaso Di Salvo, ai versi in questione, 113-114: “Quest’indicazione a confini orientali dell’Italia che in epoche nazionalistiche venne interpretata come un sostegno a coloro che  sostenevano anche Fiume oltre che Trieste dovesse far parte intergrante dell’Italia non ha in Dante altra funzione che di un rilievo territoriale forse sulla base oltre che geografica anche amministrativa da far risalire al tardo impero.” (4)
Che in un manuale destinato ad uso scolastico l’Autore abbia sentito il bisogno di confutare drasticamente  non già una interpretazione letteraria, bensì politica  dei versi di Dante, scendendo così  in polemica con un  ideale  interlocutore  su un terreno diverso da quello della pura filologia, è già una cosa che richiama l’attenzione del lettore, anche perché  un po’ inconsueta. Entrando nel merito delle sue affermazioni, poi, non si può non notare la disinvoltura con cui esse paiono voler troncare la questione una volta per tutte, questione, ripetiamo, di natura non letteraria e perciò neppure aperta da critici danteschi come Natalino Sapegno (5), Carlo Grabher (6), Giuseppe Giacalone (7), Manfredi Porena (8), Emilio Pasquini e Antonio Quaglio (9), Umberto Bosco e Giovanni Reggio (10), Piero Gallardo (11), Anna Maria Chiavacci Leonardi (12), S. Jacomuzzi e altri (13). L’elenco potrebbe continuare e sarebbe ancora lungo: tutti questi commentatori si limitano a osservare che il Quarnaro, per Dante, segna la frontiera geografica dell’Italia, e non sfiorano nemmeno considerazioni di natura politica contingente. Non sollevano affatto la questione se Dante la considerasse anche una frontiera, almeno idealmente, politica; e meno ancora se oggi noi possiamo, sulla scorta di Dante o di altri autori insigni, considerarla tale.
Ma il commento del Di Salvo ci sollecita a rilevare anche un certo anacronismo metodologico, la cui spia è la forma letteria involuta (“un sostegno a coloro che sostenevano”) e una certa indeterminatezza storica (“epoche nazionalistiche”, al plurale) e metodologica (“far parte integrante dell’Italia”: intesa come Stato italiano? O solo in senso geografico? E poi perché solo Fiume e non, logicamente, Pola e tutta l’Istria?). L’anacronismo consiste in questo: che non si può tirare in ballo Dante né per sostenere l’italianità di Fiume (e  con essa dell’Istria) né per negarla, se prima non si chiarisce cosa s’intendeva, al tempo di Dante, per “far parte integrante” di uno Stato; anzi, cosa s’intendeva per Stato e cosa s’intendeva per patria; che non sono le stesse cose di oggi.
Oggi si è affermata la forma politica dello Stato-nazione (almeno nell’Europa occidentale, e con qualche eccezione: Svizzera, Belgio), nonché il concetto giuridico di sovranità personale e territoriale:
Scrive Igino Vergano: “I teorici del diritto individuano gli elementi che compongono lo Stato: il territorio, i cittadini, l’ordinamento giuridico, l’organizzazione politico-amministrativa, la potestà di imperio, i fini. La potestà di imperio (o sovranità) è il potere di dettare norme valevoli per tutta la collettività e circa le cose esistenti sul territorio; perciò si parla di sovranità personale che è quella dello Stato rispetto ai cittadini e di sovranità territoriale che investe il territorio.” (14)
Gli elementi fondamentali dello Stato, comunque, possono essere ulteriormente ridotti a tre: popolo, territorio, apparato (governo), come ci informa un qualunque manuale di diritto costituzionale. (15),
intendendo per apparato o governo precisamente la sovranità. Come dicono infatti igli studiosi di diritto: “Il terzo elemento costitutivo dello Stato è rappresentato dalla sovranità, cioè dal suo potere di comando. La sovranità si manifesta sia come supremazia nei confronti dei singoli cittadini e delle varie formazioni sociali esistenti nel territorio statale, sia come indipendenza da altri stati. La sovranità dello stato è originaria, esclusiva, incondizionata e coattiva.
- originaria, perché nasce insieme allo stato, è ad esso connaturata e non ha bisogno di alcun riconoscimento;
- esclusiva, perché appartiene solo allo stato;
- incondizionata, perché non ha quei limiti chwe lo stato pone agli altri enti pubblici (es.: regioni, province, comuni);
- coattiva, perché fa osservare anche con la forza i suoi comandi a chi non lo faccia spontaneamente.” (16)
Ora è facile vedere come, a cavallo fra 1200 e 1300, al tempo cioè di Dante Alighieri, non esisteva né l’esempio concreto, né la concezione teorica dello Stato e della sovranità, così come noi la intendiamo oggi; e men che meno esistevano il fatto e l’idea dello stato-nazione (tranne che in alcuni Paesi dell’Europa occidentale, ove peraltro muovevano appena i primi passi). In Italia esistevano una congerie di comuni, signorie, marchesati, contee, principati ecclesiastici, il tutto in perenne stato di ebollizione sia all’interno che all’esterno, in una condizione di bellum omnium contra omnes. Teoricamente, ma solo teoricamente, quelli del centro-nord riconoscevano la sovranità del Sacro Romano Impero; al centro, quella particolarissima creazione dei papi che era il potere temporale della Chiesa, anch’esso, come l’Impero, con pretese di universalità e quindi in continuo conflitto con esso; al sud, una  monarchia indipendente, l’angioina (dal 1266), che aveva preso il posto della sveva e, prima ancora, della normanna. Nessuna di queste realtà politiche frammentate e lacerate da guerre e lotte di fazioni godeva del privilegio della sovranità in senso stretto; nessuna, tranne la monarchia angioina (peraltro minata all’esterno dalle lotte con gli Aragonesi e dalla perdita della Sicilia, all’interno dalla strapotenza dei baroni) poteva dirsi un vero Stato. La giurisdizione imperiale si sovrapponeva a quelle comunali e signorili; quella dell’aristocrazia feudale sostituiva spesso, de facto, l’una e l’altra; e quella ecclesiastica sempre  e dovunque s’intrecciava con i poteri laici con un proprio apparato giudiziario, un proprio sistema di tassazione (le decime), una propria rete di garanzie extraterritoriali (diritto d’asilo) nonché un potere coercitivo nei confronti di tutti: città libere, signorie, principati e perfino l’imperatore (cioè la scomunica e l’interdetto). In molte parti della Penisola, insomma, si accavallavano, e talvolta si scontravano, diverse forme di sovranità, ciascuna indipendente nel proprio ambito; mentre muoveva i primi passi una sorta di polizia ecclesiastica internazionale, il tribunale della Santa Inquisizione, capace di esercitare un controllo capillare su tutto e tutti, accanto e, se necessario, al di sopra degli altri poteri giurisdizionali. Per completare il quadro caotico e drammatico di quel tempo, esisteva una protesta sociale diffusa che solo raramente prendeva le forme di una lotta sociale indirizzata coerentemente ad un fine (come avverrà nel tumulto dei Ciompi, a Firenze) mentre più spesso si travestiva da movimento religioso popolare, talvolta interno (l’ala intransigente del francescanesimo) talvolta esterno (catarismo) alla Chiesa e ad essa contrario, talaltra pericolsamente in bilico tra le due alternative (movimenti gioachimiti e patarini), quando non esplodeva in forme di ribellione disperata e violenta contro tutti i poteri costituiti (dolciniani). (17)
E Dante, cosa ne pensava dello stato e della sovranità? Nel De Monarchia, composto, come oggi sembra, fra il 1312 e il 1313, egli si sforza di dimostrare la necessità di un sovrano universale, l’imperatore appunto, dal momento che un bene è l’unità, un male invece – a suo dire – la molteplicità. Solo un unico monarca può tendere verso il Bene, perché egli solo può rappresentare l’insieme dei cittadini, trascendendo gli interessi particolari ed egoistici: per tale motivo egli si era entusiasmato alla discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, nel 1310 (e fu l’ennesima, amara delusione): finalmente un sovrano era venuto a metter ordine nel viluppo sanguinoso dei partiti, delle consorterie, delle famiglie che si massacravano e si condannavano all’esilio l’un l'altra, in una sorta di girandola senza pace né fine. Chiariti questi concetti nel I libro, nel II Dante passa a dimostrare come solo Roma possa essere la sede naturale della monarchia universale, poiché voluta tale da Dio all’interno di un disegno provvidenziale chiaramente riconoscibile nella storia. Infine nel III libro, il più importante, affronta di petto la scabrosa questione dei reciproci rapporti fra Chiesa e Impero, i due grandi poteri universali. Per lui non vi può essere conflitto di priorità, perché i loro ambiti sono nettamente delimitati dalla stessa Volontà divina (teoria dei due Soli): al potere politico il compito di governare in pace e giustizia il genere umano, a quello spirituale di assicurare il bene dell’anima e la vita eterna. Entrambi hanno origine da Dio, ma nessuno dei due è superiore all’altro: certo la Luna (l’Impero) riceve la luce riflessa dal Sole (il Papato), ma non deve a questo la sua essenza: ciascuno dei due è sovrano nel proprio ambito e ciascuno è necessario agli uomini, così come l’anima è superiore al corpo, ma entrambi, corpo e anima, concorrono alla vita pienamente realizzata dell’individuo.(18)
Queste idee varranno al De Monarchia la condanna al rogo e a Dante, già morto, il pericolo della riesumazione della salma  e della condanna capitale postuma, poi songiurata in extremis per l’intervento di alcuni potenti personaggi presso l’implacabile cardinale Bertrando del Poggetto, legato del papa Giovanni XXII (allora residente in Avignone) con pieni poteri sull’Italia.(19)
Chiarito, dunque, che al tempo di Dante (come da sempre, del resto, dopo la caduta dell’Imper Romano) la parola Italia non poteva avere che un significato geografico, linguistico e culturale, possiamo tornare a vedere se, in quelle condizioni, si potesse parlare di un confine orientale dell’Italia   che non fosse semplicemente geografico, linguistico e culturale.
All’estremo nord-est della Penisola (20) c’era il più vasto degli Stati, se così, impropriamente, vogliamo chiamarli, dell’Italia settentrionale: il Patriarcato di Aquileia, creato da Enrico IV nel 1077 per tenersi aperto il valico delle Alpi orientali mediante dei principi-vescovi ghibellini a lui fedeli e ai suoi successori. Il Friuli, ch’era stato sede di un importante ducato longobardo e che aveva avuto, con Berengario I, uno dei primi re d’Italia (nell’888; mentre nel 915 era riuscito addirittura a cingere la corona imperiale) aveva una classe feudale germanica e, dopo le disastrose incursioni degli Ungari, fu largamente ripopolato da coloni slavi. Al tempo di Dante, cioè fra Due e Trecento, l’elemento etnico italiano stava riprendendo lentamente il sopravvento, dopo un’eclisse durata due o tre secoli; mentre Udine era divenuta, de facto se non de jure, la nuova capitale dei patriarchi (dopo Aquileia e Cividale), città che allora conobbe, anche per merito dell’afflusso di mercanti lombardio e soprattutto toscani, una straordinaria espansione economica e demografica, attestata fra l’altro da una famosa novella del Boccaccio. (21)
Nel 1248 il patriarca Bertoldo di Merania, per salvare il suo principato minacciato all’esterno da potenti nemici (i Caminesi di Treviso, la Serenissima di Venezia, i conti di Gorizia) e all’interno da una nobiltà feudale estremamente violenta e riottosa (il patriarca Bertrando di San Genesio verrà trucidato nel 1350 in seguito a una congiura aristocratica: e non fu il solo a fare quella fine) decise di aderire alla Lega Guelfa e diede inizio alla serie dei patriarchi di parte guelfa. Questa brusca svolta politica nell’indirizzo dei patriarchi di Aquileia era un contraccolpo del Concilio di Lione del 1245, in cui l’imperatore Federico II  di Svevia era stato deposto e  scomunicato da papa Innocenzo IV. (22)
Nel 1301 papa Bonifazio VIII aveva nominato  patriarca di Aquileia il piacentino Ottobono Rovari, ma lo stato teocratico friulano era ormai in dissoluzione, travolto da invasioni esterne e da continui rivolgimenti interni. Nel 1309 Rizzardo da Camino aveva compiuto un audace tentativo di conquistare Udine, ma era stato respinto con gravi perdite. Il vero padrone del Friuli era comunque a quell’epoca il conte Enrico II di Gorizia, che dopo aver rosicchiato tutta una serie di territori patriarchini di cui era, in teoria, il difensore (sull’esempio del suo predecessore, Alberto II, che aveva preso Tolmino sull’alto Isonzo, Albona e Pinguente in Istria) si era fatto nominare capitano generale a vita del Patriarcato. Fuggito e morto in esilio, nel 1315, Ottobono Rovari, dopo due anni di vacanza Giovanni XXII, da Avignone, aveva eletto suo successore Gastone della Torre, nipote del defunto patriarca Raimondo, che non giunse mai nella sua nuova sede perché morì per una caduta da cavallo.(23)
L’anno dopo, il 1319, giunse in Friuli un suo parente, Pagano della Torre, che appena insediato dovette  sborsare al conte Enrico di Gorizia la cifra astronomica di 6.000 marche per riavere una serie di località da quello abusivamente occupate. Pagano morì alla fine del 1332, ma dal 1322 al 1327 rimase lontano dal Friuli, avendo partecipato alla sfortunata campagna di guerra voluta da Giovanni XXII (che morirà a sua volta nel 1334) contro il suo acerrimo nemico Matteo Visconti Fu lui, forse, a ospitare Dante nel suo castello di Udine, città dove preferiva risiedere e dove coltivava l’alleanza con la potente famiglia dei Savorgnani, che avrà poi un ruolo decisivo negli spasimi finali e nell’agonia del Patriarcato di Aquileia (annesso alla Repubblica di Venezia nel 1420).(24)
Ma com’era questa Patria del Friuli che, sotto le vesti di monarchia teocratica, si governava di fatto a repubblica il cui Parlamento, uno dei più antichi d’Europa, svolgeva un ruolo centrale. Questa particolarissima istituzione, cui partecipavano le tre classi del clero, dei nobili e dei comuni, “senza però far mai una politica di classe, ma sempre provvedendo ai maggiori interessi della Patria” (25), aveva nel Consiglio il proprio organo esecutivo. Convocato dal Patriarca, anche più volte l’anno (ma giunto al punto di controllarne l’operato), svolgeva un’intensa attività legislativa da cui nacquero, nel corso del 1300, le Costituzioni della Patria del Friuli. Nel resto d’Italia, generalmente, i Comuni erano sorti in opposizione all’aristocrazia feudale; in Friuli, invece, la vita comunale di Udine e Cividale si sviluppò attraverso una efficace collaborazione tra borghesia mercantile e lo stesso patriarca che, bisognoso di appoggi contro i suoi potenti nemici esterni, non costituiva affatto un pericolo per i ceti popolari in ascesa. In pratica, se la forma dello Stato patriarchino era quella teocratico-feudale, si può affermare senza tema di cadere in un eccessivo anacronismo che la sostanza era molto vicina a quella di una libera Repubblica. (26)
Abbiamo detto che il Patriarcato di Aquileia era lo stato più esteso dell’Italia centro-settentrionale, ma era anche uno dei più deboli: in un certo senso, potè sopravvivere nei circa 170 anni dei patriarchi guelfi perché molti dei suoi aggressivi vicini, non riuscendo a mettersi d’accordo sulla sua spartizione, trovavano preferibile mantenerne l’indipendenza formale. Sulla carta costituiva un’entità ragguardevole: andava dal Livenza all’Isonzo ed oltre; comprendeva il Cadore, la Carnia, parti dell’Istria tra cui Pola (persa nel 1331 a favore di Venezia) e la stessa Trieste, almeno fino al 1295 (e che nel 1368 farà atto di dedizione agli Asburgo per sfuggire all’inevitabile conquista  veneziana). Ad est, la Contea di Gorizia (nominalmente vassalla del patriarca) è la sua peggior spina nel fianco; ai conti di Gorizia appartengono una serie di feudi all’interno del Friuli, tra cui Ramuscello (vicino a Concordia), S. Vito al Tagliamento e Pordenone. Una delle due capitali patriarchine, Cividale sul fiume Natisone, è a un passo dal confine, esposta in ogni momento alla minaccia goriziana. Solo dal 1323, quando al defunto Enrico II succedette il figlioletto Giovanni Enrico di due mesi e quindi, in pratica, la bella e intelligente vedova Beatrice di Baviera, i rapporti col patriarca aquileiese cominciarono a distendersi.(27)
Tra le valli superiori dell’Isonzo e della Sava si estendeva il feudo di Veldes che, insieme ad alcune località del Tirolo meridionale (oggi Alto-Adige) apparteneva al vescovo-conte di Bressanone (la cui giurisdizione, peraltro, non era a contatto diretto con quella dell’assai più potente  principe-vescovo di Trento, bensì con quella dei Caminesi che si spingeva fino ad Agordo, nella valle del Cordevole, e includeva i due vescovadi di Ceneda e Feltre). A nord delle Alpi Carniche il Patriarcato di Aquileia confinava con il Ducato di Carinzia e con un feudo del vescovo-conte di Bamberga (in Baviera) che comprendeva Villach, sul fiume Drava, e Tarvis (che allora era un semplice villaggio di minatori, boscaioli e pastori) nell’alta Val Canale.(28) A est del feudo di Veldes (pertinente, come si è detto, al Vescovado di Bamberga), nella valle superiore della Sava, il Patriarcato aquileiese confinava anche con un feudo del vescovo-conte di Frisinga, altra città tedesca della Baviera; più a sud-est, oltre che con la Contea di Gorizia, col Ducato di Carniola. Ancora più a sud, come si è visto, manteneva alcune enclaves in Istria e, dopo la perdita delle zone costiere (Pola, Capodistria e la stessa Trieste) conserverà ancora per qualche anno, in una vicenda piuttosto confusa di partenze e ritorni, un discreto settore di quella che oggi è nota come Ciceria o Istria rossa (la parte montuosa a nord della Penisola) con i paesi di Pinguente e Montona. Infine, a ovest le terre del patriarca erano limitate dai dominii dei Caminesi (sulla Livenza) e di Venezia (che controllava anche la foce del Tagliamento e, quindi, l’accesso alla Laguna di Grado). (29)
Questo era il Patriarcato di Aquileia ai primi del 1300, al tempo, cioè, dell’esilio di Dante Alighieri.Una specie di mondo a parte, diversissimo dalle altre signorie dell’Italia del nord; un mondo solo in parte italiano, dominato da feudatari tedeschi, da patriarchi che furono a lungo, anch’essi, tedeschi (durante il periodo ghibellino soprattutto). Un mondo non privo di bellezza, ricoperto da estese foreste  popolate di cinghiali, lupi e orsi; un mondo caratterizzato da aspetti politici anche avanzati, ma minato inesorabilmente da una debolezza strutturale: l’estrema arretratezza giuridico-sociale delle sue plebi contadine, ridotte ancora, in gran parte, alla misera condizione di serve della gleba.(30)
È possibile che Dante, se anche viaggiò di persona in questi luoghi e ascoltò con i propri orecchi quel rustico accento che doveva tanto colpirlo (31), e se si spinse, come è possibile, fino al golfo del Quarnaro, si sia posto il problema se era arrivato al limite estremo dell’Italia? Cercheremo di rispondere alla domanda spostando la nostra attenzione dalla Divina Commedia alle opere minori in latino, e precisamente al trattato linguistico De vulgari eloquentia. Scritto, probabilente, tra la fine del 1303 e quella del 1304, quindi nei primi anni dell’esilio e contemporaneamente al Convivio, è rimasto, come quello, bruscamente interrotto: dei quattro libri progettati non ce ne restano che due, e del secondo, che mostra tracce evidenti di una stesura frettolosa, solo quattordici capitoli.Nel primo libro, il più ricco e interessante, Dante, fra l’altro, esamina i quattordici dialetti italiani regionali (che si suddividono, a loro volta, in varietà di secondo e terzo grado, ossia le parlate municipali, assommanti a più di mille). Dante passa in rassegna i quattordici dialetti principali ad uno ad uno, per vedere se ve ne sia uno capace di assurgere al rango di lingua d’arte; ma nessuno ne è all’altezza: non il siciliano, non il toscano e neppure il bolognese, che pure si presenta come il più elevato.
“L’eccellenza del volgare [rispetto al latino] è stata solo di quei poeti che hanno saputo staccarsi dal loro dialetto, come già alcuni siciliani, Guido Guinizzelli ed altri bolognesi, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Dante stesso e Cino da Pistoia. Parlando di questo volgare che supera i dialetti regionali e municipali, il tono di Dante si fa quasi di esaltatore e di profeta, come già nel Convivio. Egli chiama questo volgare ideale illustre, cardinale (perché è come il cardine della porta nei confronti dei dialetti) aulicoe e curiale (perché lingua della reggia e del senato, che non esistono di fatto, ma dovrebbero comprendere i migliori Italiani, come una Curia ideale).” (32)
E’ notevole il fatto che Dante, a questo punto, ha già compiuto il passo che separa l’idea di italianità geografica e linguistica da quella di un’italianità culturale e spirituale.Scrive infatti, a margine di questo passaggio del De vulgari eloquentia, un illustre studioso come Siro A. Chimenz: “Come prima l’unità geografica e l’unità linguistica, così ora Dante afferma e precisa l’unità nazionale d’Italia, sentita come unità spirituale:” (33)
Ed ecco i quattordici dialetti regionali individuati dal Nostro, nell’ordine in cui li espone:
1 – il siciliano (reso illustre dalla prima scuola poetica in volgare, al tempo di Federico II e Manfredi;
2- il pugliese (con questo termine pare che Dante intenda il volgare parlato nella maggior parte dell’Italia meridionale continentale e starebbe, quindi, piuttosto per “napoletano”) (34);
3- il romano (esclusa la Sabinia, e che Dante giudica il più brutto);
4 – lo spoletano (cioè quello parlato nel vecchio Ducato di Spoleto, corrispondente all’Umbria e alla Sabinia: il volgare di S. Francesco e di Jacopone da Todi;
5 – il toscano (che si arroga il vanto d’essere il volgare illustre, ma è solo un “turpiloquio”;
6 – il genovese;
7 – il sardo (che è solo una scadente imitazione del latino);
8 – il calabrese;
9 – l’anconetano (parlato nella terra “che siede tra Romagna e quel di Carlo”, come dice in Purg:, V, 69, cioè tra la Romagna e gli Abruzzi, parte del regno di Carlo d’Angiò);
10 – il romagnolo;
11- il lombardo (cioè quello parlato non solo in Lombardia ma anche in ampie zone del Piemonte, dell’Emilia e del Veneto);
12 – il trevigiano e il veneziano (intendendo per “trevigiano” quello parlato nella Marca Trevigiana ch’era molto più estesa dell’attuale);
13 – il friulano (che Dante chiama “aquileiense”, riferendosi al patriarcato di Aquileia, e che giudica negativamente perché “erutta” suoni crudelmente laceranti, come il tipico Ce fastu?) (35);
14 – l’istriano.(36).
Che dall’esame e dal confronto dei vari volgari regionali, comunque, Dante abbia tratto la capacità di elaborare l’idea, o quanto meno, il presentimento di una unità nazionale necessaria all’Italia, sia pure come punto d’arrivo di un processo storico-culturale e non già come dato attualmente definito, è convinzione anche di Mario Pazzaglia. Scrive infatti l’illustre studioso: “Se noi italiani avessimo in Italia una corte, [il volgare illustre ] sarebbe il solo degno di essere parlato in essa, [e sarebbe curiale] perché curialità significa la norma ben ponderata dell’agire umano secondo ragione e legge, quale si attua nella Curia o corte, che rappresenta il centro culturale e quindi l’anima della nazione. Se ora manca propriamente in Italia una corte unificata da un sommo principe, vi sono però le sue membra, unificate dal dono divino che è la luce della ragione. Esse sono costituite dagli Italiani forniti d’ingegno e di scienza, i quali facendo sì che la lingua assurga mediante l’arte all’espressione dei più alti valori spirituali, sono gli animatori del sentimento di unità nazionale.”.E conclude: “[Dante] avverte vigorosamente l’unità della nazione italiana, cogliendola nell’unità della comune discendenza da Roma, dei costumi, della cultura, della lingua, che sente come espressione dello spirito e della storia di un popolo.” (37)
Le esatte parole di Dante, al riguardo, sono queste: “Ma se noi manchiamo di Curia dir ch’egli [cioè il volgare illustre] sia stato misurato nella eccellentissima Curia d’Italia potrebbe tenersi un parlar fabuloso: al che rispondiamo che sebbene un’unica Curia appo noi non sia, come sarebbe quella del Re di Lamagna, pur non ci mancano le sue membra; e come nella persona di un Principe le membra di quella si accolgono, così le membra di questa nel benefico lume della ragione. Dunque sarebbe falso asserire che gli Italici non hanno Curia, quantunque privati di un Principe: perché invece l’abbiamo, sebbene le sue membra siano disperse.” (38)
Intuizione notevole, questa, sia per quel che riguarda la funzione unificatrice, anche dal punto di vista linguistico, della Curia cioè di un centro politico (e il pensiero corre, oltre che alla Germania, alla Francia del nord e alla lingua d’oil “creata” dalle esigenze della corte parigina), sia per quel presentimento del “destino” storico delle nazioni di conseguire, traverso l’unificazione linguistica e culturale, quella politica. Si obietterà che qui Dante è in contraddizione con se stesso, cioè con le idee politiche che esprimerà nel De Monarchia e in molti luoghi della Divina Commedia oltre che nelle Epistole  in latino: cioè che gli Italiani dovrebbero “lasciar sedere Cesare in la sella”, ossia riconoscere l’alta sovranità dell’imperatore tedesco. Rispondiamo che tra la stesura del De vulgari eloquentia e quella del De Monarchia corrono parecchi anni di esilio, quelli decisivi per l’evoluzione del suo pensiero politico; che, per lui, l’imperatore non è tedesco ma, al di sopra del principio nazionale, è il rappresentante dell’unità cristiana e il legittimo discendente di Cesare e Augusto; che, infine, il massimo poeta italiano d’ogni tempo rispecchia perfettamente quella italianissima propensione ad alternare, nel giudizio sulla propria patria, un ruvido e disincantato scetticismo a degli scatti d’orgoglio e di  consapevolezza delle sue grandi possibilità, quantunque non mai pienamente espresse.
È, questo, anche il parere di Nicola Maggi, che osserva: “L’Italia ha la Curia nelle vene, per così dire, se non altro perché essa è l’erede, genetica se si vuole, della sapienza romana. E, per quanto imbarbarita e umiliata, asservita e profanata, i lampi di questa sapienza ancora le consentono di essere maestra di dottrina e luce di civiltà. È l’ambivalenza caratteristica di Dante, in eterno diviso tra l’orgoglio d’una romanità sempre dichiarata e lo scoramento per un’abiezione storica che non vuole finire.” (39) Insomma Dante, nonostante l’aspirazione profonda alla pace in un’Italia lacerata da odii feroci e percorsa da torme di sbanditi rancorosi e vendicativi, sia guelfi che ghibellini, e le vicende dolorose del suo personale esilio che lo spingevano sempre più su posizioni filo-imperiali, ebbe non solo amor di patria e piena consapevolezza della sua missione spirituale nel mondo, ma anche l’aspirazione a una unità nazionale che riunisse, per usare la sua espressione, le sue “sparse membra”, cioè le sue realtà locali frammentate linguisticamente e culturalmente oltre che politicamente (40) Certo, non aveva né poteva avere l’idea, tutta moderna, dello Stato nazionale, poiché l’unità dell’Impero veniva prima di quella nazionale e non solo sul piano simbolico e ideale, ma anche su quello pratico e reale. Politicamente, da questo punto di vista, era ancora – com’è stato più volte osservato – un vero uomo del Medioevo e quindi in ritardo rispetto all’evoluzione storica dell’Europa, ove già Francia e Inghilterra, per esempio, si andavano costituendo quali monarchie nazionali del tutto indipendenti dal Sacro Romano Impero, nonché (come si vide in occasione del conflitto tra Filippo IV il Bello e papa Bonifazio VIII) dall’altro antico potere universale, quello della Chiesa. Ma egli aveva compiuto la propria formazione politica all’interno della realtà comunale di Firenze, dove aveva fatto il suo apprendistato e ricoperto anche la carica massima, quella di priore; e benchè il soggiorno, durante l’esilio, presso potenti signorie come quella degli Scaligeri a Verona, dei Caminesi a Treviso e dei Da Polenta a Ravenna valesse certamente ad aprirgli la mente sulle nuove realtà politiche che si andavano formando ovunque sulle rovine della società comunale, in lui rimase sempre una sorta di nostalgia per il “buon tempo antico”, testimoniata anche esplicitamente da alcuni passi famosi della Divina Commedia. (41) Che poi, nella sua potente personalità, la nostalgia per l’antico si fondesse in parte con il presentimento, modernissimo, della necessità di un governo universale che ridesse pace e giustizia agli uomini e consentisse loro, aristotelicamente, di sviluppare pienamente la propria natura razionale, in accordo con il disegno divino cui fermamente credeva, è questione che meriterebbe una trattazione a parte ed aprirebbe la strada a molte considerazioni che, ora, non possiamo svolgere.(42)
Abbiamo inteso dimostrare che Dante credette nell’unità ideale della patria italiana e considerò auspicabile e necessaria la sua realizzazione, sia pure entro la cornice dei due “Soli” dai quali unicamente, secondo la sua concezione, potevano venire la sicurezza e il benessere materiale e la salute dell’anima, scopo ultimo della vita terrena. Di conseguenza, non è questione oziosa chiedersi, e pensiamo si possa rispondervi affermativamente, se l’Italia avesse per lui dei confini politici, oltre che linguistici e culturali. Sappiamo, ad esempio, che considerava i volgari di Alessandria, Torino e Trento come non puri, a causa della loro posizione periferica e, quindi, alla vicinanza con altre regioni linguistiche (l’occitanica per le prime due città, l’alto-tedesca per la terza) (43). Quanto al confine orientale, lui stesso afferma esplicitamente che tanto il Friuli quanto l’Istria sono parte del “versante adriatico” della Penisola, dunque considera l’Istria parte integrante dell’Italia non solo linguisticamente, ma anche storicamente e, quindi, politicamente. (44) La cosa appare tanto più naturale quando si ricordi che l’Istria, come abbiamo detto, ai primi del 1300 era quasi tutta sottoposta al dominio di Venezia, o del Patriarca di Aquileia, o dei conti di Gorizia e che i primi due erano considerati sicuramente stati italiani, il terzo, nonostante il carattere tedesco dei suoi signori e dei suoi nobili, parzialmente italiano anch’esso, non foss’altro per gli stretti, quantunque complessi e anche contraddittori rapporti, che intratteneva col patriarca e con vari signori dell’area veneta..
Siamo dunque arrivati alla conclusione che gli argomenti portati da Tommaso Di Salvo per negare che Dante considerasse il Quarnaro come il confine d’Italia del suo tempo, sono speciosi e non reggono al vaglio di una critica conseguente. Ricapitolando: Dante credeva nell’unità ideale dell’Italia, anche in senso politico; credeva che la natura le avesse assegnato dei confini, e che i confini naturali press’a poco coincidessero con quelli linguistici e politici; credeva che non solo il Friuli (intendendo sia la regione storica odierna, sia il territorio molto più vasto del Patriarcato, Goriziano compreso) ma anche l’Istria ed, evidentemente, la regione che collega l’uno all’altra, ossia il Carso (litorale triestino e capitanato di Postumia) facessero parte dell’Italia a tutti gli effettti; dunque credeva che il golfo del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia, costituisse la frontiera orientale dell’Italia.
Quanto a Fiume, cui pure allude Di Salvo, il discorso è diverso, poiché essa faceva parte della Croazia che era inglobata, all’epoca, nel Regno d’Ungheria e quindi era al di fuori sia dei possedimenti di Venezia, Patriarcato e Gorizia, sia del Ducato di Carniola che, come la Contea di Cilli, i ducati di Stiria e di Carinzia e la Contea del Tirolo, facevano parte dell’Austria e quindi del Sacro Romano Impero.La città di Fiume era stata fondata dai Veneziani presso il luogo dell’antica Tharsatica, alla foce di un piccolo fiume (Rjecina, appunto, ossia fiumicello, in croato) chiamato Eneo, che oggi separa il centro cittadino dal quartiere orientale di Susak, ai piedi di un anfiteatro rocioso del Carso.  Poi, gradualmente, era cresciuta in prosperità e potenza, fino a divenire una temibile rivale commerciale di Venezia nell'Adriatico orientale, inizialmente sotto il dominio dei sovrani di Croazia, poi alle dipendenze dei vescovi di Pola. Dal 1139 fino al 1400 circa, la sovranità su Fiume fu esercitata dai conti di Duino, potenti signori feudali di cui torneremo a parlare tra breve; ma si trattò in effetti di una sovranità in gran parte nominale, tanto che Fiume potè di fatto reggersi a Comune semi-indipendente sino a quando, tra il 1466 e il 1471, sarebbe finita sotto il dominio degli Asburgo. (45)
Tuttavia, poiché le “epoche nazionalistiche” cui parla il Di Salvo alludono chiaramente al periodo della cosiddetta “Questione di Fiume”, tra il 1918 (fine della prima guerra mondiale e crollo della monarchia asburgica) e il 1924 (spartizione dello Stato Libero di Fiume tra Italia e Regno Serbo-Croato-Sloveno e annessione all’Italia del centro cittadino, abitato in larghissima maggioranza da italiani), non sarà male spendere ancora qualche parola su questo punto. In primo luogo va ricordato che “i fiumani avevano sempre mantenuto nei secoli lingua e costumi di vita italiani, così come sempre difeso le particolari autonomie comunali, conservate anche passando la città di Fiume sotto gli Asburgo in qualità di bene personale dell’Imperatore.” (46) Ciò è confermato, tra l’altro,dal fatto che il governop ungherese continuò sempre a rivolgersi alle autorità del Comune autonomo di Fiume, anche nell’ultimo periodo storico del suo dominio, dal 1867 al 1918, in lingua italiana: riconoscimento esplicito del fallimento di ogni tentativo di snazionalizzazione. (47)
Il nome dell’Alighieri divenne anche per gli Italiani di Fiume, come per quelli di Trento e Trieste, tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, un simbolo e un auspicio di riunificazione alla madrepatria, tanto che nel 1908 e nel 1911 i soci della società culturale (in realtà patriottica) “Giovine Fiume” parteciparono alle celebrazioni dantesche in Ravenna, attirandosi la persecuzione della polizia austriaca. È vero, inoltre,
che il ricordo di Dante e la citazione del verso citato”presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna” verranno utilizzati copiosamente nell’oratoria e nella pubblicistica dannunziana, all’epoca dell’impresa di Fiume e della cosiddetta “Reggenza del Carnaro”.Ne facciamo due esempi.
In un celebre discorso, pubblicato poi sul numero del 25 ottobre 1919 del Bollettino Ufficiale fiumano, Gabriele D’Annunzio aveva, tra l’altro, affermato: “Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie [allusione al Passo di Vrata, 879 metri s.l.m., che segna il limite orientale delle Alpi], è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, si serbò italiano il Carnaro di Dante…”. (48) La seconda citazione dantesca, che è una semplice rielaborazione della prima, compare sulla Carta del Carnaro, la carta costituzionale elaborata durante la Reggenza dannunziana, nel marzo 1920, e redatta in gran parte da Alceste De Ambris (ma il brano in questione è del poeta di Pescara): “Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie, è l’estrema rocca della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco. Per lei, di secolo in secolo, di vicenda in vicenda, di lotta in lotta, di passione in passione, si serbò italiano il Carnaro di Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti dell’italianità per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana, da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad Arbe. E questo è il suo diritto storico…” (49)
Ebbene, non ci sembra che si possa né far colpa a Dante di essere stato utilizzato a questo modo da coloro che volevano l’unione di Fiume all’Italia, né a costoro di aver fatto appello al sommo poeta che nei versi della Divina Commedia aveva suggellato il Quarnaro come confine orientale italiano, in accordo con la geografia e con la storia. Certo, Dante non specifica quale sponda del Quarnaro consideri la frontiera dell’Italia; a voler essere pignoli, si potrebbe arguire che, visto il riferimento alla città di Pola (che non è presso il Quarnaro, ma sulla costa occidentale istriana), avesse in mente – e qui possiamo dar ragione al Di Salvo – l’antica divisione amministrativa romana imperiale. La X regio dell’Italia augustea, denominata Venetia et Histria, non comprendeva, infatti, tutta quest’ultima penisola, poiché il suo confine orientale (con la Pannonia Superior e con la Dalmatia) era delimitato dal fiume Arsa, che sfocia in un fiordo, o vallone, profondamente inciso, presso Castelnuovo d’Arsa. (50) E tale rimase, dopo la restaurazione imperiale di Carlo Magno, quando intorno al Mille l’antica regio augustea fu ricalcata dalla Marca di Verona e Aquileia, comprendente l’Istria, ma solo fino all’Arsa (mentre il litorale occidentale era già in mano ai Veneziani). Né il lembo più orientale della penisola istriana, dunque, né tanto meno Fiume ne facevano parte. (51) Ciò non toglie che i Croati, giunti buoni ultimi non prima del VI-VII secolo (dopo Illiri, Romani, Ostrogoti, Ávari, Bizantini) non arrivarono mai a interrompere la continuità fra gli Italiani dell’Istria occidentale e quelli di Fiume e delle isole di Cherso e Lussino (ove a tutt’oggi le persone anziane parlano un dialetto veneziano); e anche questo è un fatto (52).
Tanto andava detto per onorare la completezza e la verità storica; ma poiché avevamo negato legittimità ai tentativi di strumentalizzare i versi di Dante in chiave di polemica nazionalistica, qui facciamo punto e passiamo alla questione che ci eravamo posta, quella cioè della eventuale presenza fisica del sommo poeta nelle terre della Venezia Giulia.
Fin da subito dobbiamo chiarire, per non dare adito all’accusa di anacronismo, che al tempo di Dante , e ancora per molti secoli, l’espressione “Venezia Giulia” non esisteva affatto. Essa venne coniata dal linguista Graziadio Isaia Ascoli (nato a Gorizia nel 1829 e morto a Milano nel 1907), nel 1863, per indicare le terre “irredente” poste tra il Friuli orientale e il Quarnaro, terre che rimasero all’Austria anche dopo la terza guerra d’indipendenza (1866) e che passarono all’Italia solo dopo la prima guerra mondiale.(53)  Formalmente, ciò avvenne con il trattato di S. Germain en Laye (10 settembre 1919) con la Repubblica austriaca e, poi, con il trattato di Rapallo (12 novembre 1920) con la Jugoslavia, che lasciavano aperto il problema di Fiume ma definivano la controversia sulla Dalmazia (con l’annessione all’Italia della città di Zara, del suo retroterra e dell’isola di Pelagosa, oltre a Cherso e Lussino). Questi fatti portarono alla costituzione di una nuova regione amministrativa, (chiamata, nel linguaggio giuridico di allora, compartimento), la Venezia Giulia, con capoluogo Trieste, formata dalle province di Trieste, Gorizia (molto più estese delle attuali), Pola e, più tardi (nel 1924), Fiume. Oltre che assai recente e determinato, in parte, da ragioni di carattere irredentistico (Ascoli era nato cittadino austriaco e si era poi trasferito a Milano, anche per ragioni politiche), il termine “Venezia Giulia” pecca di una certa indeterminatezza, poiché non è chiarissimo se con esso si intenda compresa anche l’Istria, o se quest’ultima sia considerata un’entità a parte. (54) Ascoli era un glottologo e il suo pensiero, nel coniare la nuova espressione, muoveva essenzialmente da presupposti di natura linguistica, oltre che geografica: abbiamo visto che il Passo di Vrata (col Monte Nevoso) e il golfo del Quarnaro sono sempre stati considerati il limite orientale geografico e, al tempo stesso, culturale dell’Italia. Aggiungendo ai motivi geografici quelli della storia recente, noi per comodità useremo il termine “Venezia Giulia” per indicare  il nuovo compartimento creato  nel 1919 e che andava da Tarvisio, a nord (già nell’area culturale tedesca, oltre che al di là dello spartiacque naturale delle Alpi), giù giù lungo la valle dell’Isonzo e il Carso, sino  a Fiume, l’Istria, Cherso, Lussino (ma non Zara) verso sud, e comprendendovi Gorizia, Gradisca, Grado, Monfalcone, Trieste e Muggia, tutte località che erano rimaste austriache (o ungheresi, nel caso di Fiume) sino al novembre 1918. (55)
Eccoci dunque al punto: Dante Alighieri visitò di persona queste terre?
Dobbiamo premettere con molta onestà, dopo aver fatto accurate ricerche, che l’itinerario degli spostamenti di Dante durante il lungo esilio da Firenze, tra il 1302 e gli ultimi due anni a Ravenna, nel 1320-21, presenta molte lacune, molte zone d’ombra, molte pagine bianche e punti interrogativi che forse non verranno mai del tutto chiariti (56). Per esempio, si è mai spinto più in giù di Roma, lui che passa in rassegna tutti i dialetti della Penisola, e afferma di averla girata quasi interamente? (57) Alcuni, tra cui Carlo Salinari, danno per probabile un soggiorno a Napoli (58); ma la cosa è alquanto controversa, e la maggior parte degli studiosi la negano o la destituiscono di ogni riscontro positivo. Inoltre, per non essere accusati di ingenuità, dobbiamo essere consapevoli che un certo qual senso di orgoglio municipale ha creato, in molti luoghi della Penisola (e talvolta anche fuori), in una specie di congiura inconsapevole con la credulità e il puntiglio dei suoi antichi studiosi e ammiratori, decisi a colmare le lacune dei suoi viaggi o a perfezionarne l’immagine (vedi il soggiorno a Parigi per frequentare la Sorbona, e perfino in Inghilterra per studiare a Oxford) (59) una serie di leggende locali, secondo le quali Dante sarebbe stato in numerosissimi luoghi, talvolta i più impensati. In genere, per le località “minori” (non potendo vantare il prestigio di istituzioni culturali o la presenza di altri intellettuali di valore) sono le bellezze del paesaggio naturale che lo avrebbero attirato, colpito e ispirato per la descrizione dei luoghi del suo poema, in questo o quel passo, generalmente della prima e seconda cantica (ma non solo).
Così, tanto per fare un esempio, e per voler rimanere nell’ambito di quel Patriarcato di Aquileia in cui alcuni vogliono che sia stato, lo scrittore friulano Carlo Sgorlon riporta la leggenda del passaggio di Dante attraverso la Val Cellina, nelle Prealpi Carniche, le cui gole spettacolari ben avrebbero potuto suggerirgli i luoghi aspri e dirupati della prima cantica, dalla sublime grandiosità che trascolora nell’orrido e nel pauroso. (60) Diciamo pure che sono legione i paesi o le vallate, specialmente dell’Italia nord-orientale, che coltivano glorie vere o supposte di questo genere, ed è una fatica di Sisifo quella di cercar di separare quelle da queste, quantunque non sia cosa priva d’interesse.
Ricapitoliamo, a grandi linee, le tappe praticamente certe dei viaggi di Dante durante l’esilio:
1301-1302, a Roma (prima della condanna da parte dei vittoriosi guelfi Neri),
1302-1303: a Forlì, presso Scarpetta degli Ordelaffi;
1303-1304: a Verona, presso Bartolomeo Della Scala,
1304-1306: a Treviso, presso Gherardo Da Camino (forse anche a Padova e a Reggio Emilia, presso Guido da Castello);
1306-1307: a Sarzana, in Lunigiana, presso i Malaspina;
1308-1311: peregrinazioni frequenti ma per lo più non rintracciabili; forse a Lucca, forse a Parigi, e dimora certa  nel Casentino, al momento della discesa di Arrigo VII di Lussemburgo;
1312: a Pisa (nel marzo-aprile);
1313-1318: secondo soggiorno a Verona, ospite di Cangrande Della Scala;
1320: ancora a Verona (in gennaio), per pronunziare la dissertazione De Aqua et Terra.
1319-21: a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta (e a Venezia, presso il governo della Serenissima, in missione diplomatica per conto dello stesso). (61)
Balza all’occhio, da una scorsa anche sommaria a questo elenco, che gli anni più misteriosi della vita di Dante sono quelli che vanno dal 1308 al 1313; cinque anni talmente nebulosi che qualcuno ha pensato di collocarvi un viaggio a piedi fino a Parigi, e magari anche in Inghilterra, a costo di lavorare un po’ di fantasia. ”Boccaccio riferisce la notizia del viaggio in Inghilterra in un carme latino col quale avrebbe accompagnato il dono di una copia della Commedia al Petrarca. Se ne sarebbe avuta un’eco, un secolo dopo Dante, in un commento alla Commedia del vescovo di Fermo, Giovanni da Serravalle.”(62)
 La critica dantesca “ufficiale”, cioè quella accademica, ha sempre ritenuto di seguire la via opposta, quella di non credere – come san Tommaso – a niente che non potesse, per così dire, vedere e toccare con mano. Risultato: l’agenda degli spostamenti di Dante, e non solo nel lustro anzidetto, torna ad apparire quasi tutta di pagine bianche; perfino il soggiorno a Treviso viene revocato in dubbio, figuriamoci quello a Padova;  pare che niente o quasi niente si possa più affermare con sicurezza, su ogni notizia incombono esigentissime e minacciose le forbici di una critica implacabile, demolitrice. (63) È accaduto un po’ (il paragone non sembri irriguardoso) quel che si è visto per gli “anni nascosti” di Cristo, che alcuni studiosi han voluto ipotizzare impegnato in viaggi lunghissimi, non solo in Egitto, ma fino in Persia, in India, nel Kashmir e in Tibet. (64) Questo perché la biografia dei grandi uomini stimola la nostra curiosità; non ci bastano le loro opere, le loro parole, le avare testimonianze sopravvissute all’oltraggio dei secoli: vorremmo sapere di più. E la stessa cosa è accaduta a Virgilio, che nel Medioevo è stato trasformato dalla credenza popolare in un mago, un negromante e un taumaturgo, oltre che nel  depositario di una scienza sovrumana e segreta. (65)
Ora noi passeremo in rassegna quei luoghi della Venezia Giulia che vantano qualche documento più o meno ambiguo, o semplicemente qualche tradizione popolare più o meno remota, tendenti ad affermare il passaggio di Dante durante l’esilio, in genere nel periodo 1308-1313. Non potremo approfondire dettagliatamente, uno per uno, questi casi: ci limiteremo a fornire le notizie essenziali, rimandando chi lo desiderasse a una specifica bibliografia. Una cosa apparirà subito chiara: sono molte le città e i paesi di questa regione che vantano una presenza di Dante: occorrerà mantenere un atteggiamento critico equilibrato nei confronti di tali tradizioni, lontano sia dalla credulità a buon mercato, magari per ragioni puramente campanilistiche, sia dalla negazione preconcetta; poiché è noto che le leggende non necessariamente nascono dalla pura e semplice fantasia e, quanto ai documenti scritti, quelli del Medioevo sono spesso, e non solo in questo caso, un po’ ambigui e reticenti.

UDINE.-
“Se è vero che negli ultimi anni Dante diventò politicamente più morbido e possibilista, avvicinandosi ai guelfi, non pare da escludere una sua visita ad Udine, presso il patriarca Pagano della Torre. Ma brancoliamo tra i se.” (66) Abbiamo visto, però, che Pagano della Torre venne in Friuli nel 1319, dunque, se ospitò Dante a Udine, il viaggio del poeta in quei luoghi si collocherebbe negli ultimi due anni della sua vita: dopo aver lasciato Verona (ma vi ritornò, fugacemente, all'inizio del 1320) e prima di passare a Ravenna. Sia cronologicamente che geograficamente, la cosa è possibile. C’è tuttavia un elemento di natura politica, che la rende un po’ indaginosa e che richiede una spiegazione non brevissima, facendo riferimento ai complessi rapporti diplomatici che esistevano allora fra la Curia di Avignone e le due casate milanesi rivali dei Visconti e dei Torriani, alla quale ultima apparteneva il patriarca di Aquileia.
Dante condivideva pienamente l’avversione  di  Matteo Visconti e di suo figlio Galeazzo per il papa francese Giovanni XXII (al secolo Jacques Duèse o D’Euse), il nermico dei fraticelli che vennero da lui condannati come ribelli nel 1318 (Ubertino da Casale, Angelo Clareno, Michele da Cesena).Ne fa menzione in due passi della Divina Commedia, e ne parla male.(67) Abbiamo già detto, anzi, che Dante venne implicato in qualche modo nel processo di Bartolomeo Cagnolati per il tentativo di assassinio magico del papa, commissionato dai Visconti. Ora, questi ultimi erano nemici mortali dei Della Torre, che nel 1302 li avevano sconfitti ed esiliati, per poi subire a loro volta lo stesso destino, nel 1311. Il 3 settembre del 1320 Giovanni XXII aveva reso pubblica la scomunica di Matteo Visconti (che aveva costretto alle dimissioni l’arcivescovo milanese Cassonno della Torre e lo aveva sostituito con il proprio figlio Giovanni Visconti). Tale gravissimo provvedimento era dovuto alle seguenti imputazioni, più o meno artatamente gonfiate; appropriazione dei beni della Chiesa milanese; eresia, e precisamente catarismo; aver dato aiuto a fra’ Dolcino nella crociata bandita contro di lui da Clemente V, nel 1306; pratica della magia nera , nella fattispecie convocando Dante Alighieri come negromante, evocando i dèmoni e tenendone due al suo servizio, uno in un buco e l’altro alla fonte di S. Calocero, detta “fonte di Orisia”.(68) Matteo non si era presentato a discolparsi ed era venuto a morte  nel 1322, mentre il legato pontificio Bertrando del Poggetto (nipote del papa) aveva iniziato una campagna di guerra contro Galeazzo Visconti in Lombardia, alla quale partecipò anche, personalmente, Pagano della Torre con le sue milizie friulane.(69)
Difficile, dunque, pensare che Matteo e Galeazzo Visconti avessero mandato a chiamare, o pensato di mandare a chiamare (la cosa non è chiara) Dante, più o meno all’epoca in cui questi si trovava presso un loro acerrimo nemico quale Pagano della Torre – sebbene, all’epoca del processo, la guerra non fosse ancora incominciata. Certo, nella caotica situazione politica dell’Italia ai primi del 1300, tutto era possibile; e Dante, come esule, doveva un po’ barcamenarsi fra i suoi litigiosi protettori, senza guardar troppo per il sottile.(70)
Fino ad alcuni anni fa esisteva una tradizione, peraltro assai dubbia, secondo la quale fu a Udine che il poeta compose una parte della Divina Commedia, ma essa è stata definitivamente abbandonata.(71) Forse la sua nascita si spiega con l’esistenza, in Friuli, di ben cinque codici del poema dantesco: il Bartoliniano, il Fontaniniano, il Florio, il Torriano e il Claricini. Il primo di questi codici, così chiamato perché conservato attualmente nella Biblioteca Bartoliniana del Seminario Arcivescovile di Udine, nel 1823 venne pesantemente manipolato dall’editore Quirico Viviani. Il testo venne alterato e fu premessa al primo Canto una illustrazione che tendeva ad avvalorare la presenza di Dante in Friuli, ospite del conte goriziano Enrico II, poiché rappresentava il sommo poeta nella grotta di Tolmino, che era, come si è visto, sotto la giurisdizione del conte. Inoltre il Viviani suggeriva che il codice fosse autografo di Dante o, quanto meno, dettato da lui personalmente. Il codice venne datato dal Witte alla metà del XIV secolo: dunque si tratta di un documento preziosissimo, uno dei più antichi codici danteschi esistenti al mondo. E’ questo, forse, che ha alimentato la credenza che Udine sia stata la patria del poema.

GORIZIA.-
 Esiste anche una tradizione che vuole Dante ospite, a Gorizia, del conte Enrico II, che abbiamo già ricordato come capitano generale a vita del patriarca Ottobono Rovari, nel 1314. Non ci sono peraltro elementi positivi a sostegno di questo soggiorno, se non, a parere di Cesarer Marchi, l’amicizia che legava il conte goriziano a Cangrande Della Scala, alto patrono di Dante nel lustro che va dal 1313 al 1318.(72)
Noi, però, non possiamo consentire a tale affermazione, senza meglio precisarla. Enrico II era anche vicario imperiale per l’Italia, dopo che Matteo Visconti, che aveva ricevuto quella carica da Arrigo VII di Lussemburgo, aveva dovuto rinunziarvi definitivamente in seguito a una bolla di Giovanni XXII (marzo 1317) che vietava di portarlo a chi lo avesse ricevuto da quell’imperatore. Forte del prestigio del vicariato imperiale, Enrico di Gorizia, dopo avere lungamente tormentato il suo teorico signore, il patriarca aquileiese, aveva incominciato a stendere la sua longa manus in direzione della Marca Trevigiana, ove sperava di accrescere la sua potenza con l’aiuto di Guecello Da Camino.(73) Dapprima aveva cercato ambiguamente di inserirsi nella partita fra i trevigiani e Cangrande Dellla Scala, che mirava a impadronirsi della città sulle rive del Sile. Poi, dopo che i cittadini di Treviso avevano respinto vittoriosamente l’assalto scaligero (ottobre-novembre 1318) e successivamente richiesto l’aiuto del duca d’Austria Federico il Bello (re di Germania dal 1314 al 1322), all’inizio del 1319 vi era entrato per reggerla a nome di questi. (74) Difficile, dunque, parlare di amicizia fra Cangrande ed Enrico, specialmente se il soggiorno di Dante a Gorizia si deve collocare circa alla stessa epoca di quello udinese (a parte il fatto che un’ipotesi non può sorreggere validamente un’altra ipotesi, ed entrambi i soggiorni sono ipotetici), cioè non prima del 1319. Perché a quell’epoca i rapporti tra i due signori dovevano essere già arrivati al punto di rottura, dopo che Cangrande, ferito e furioso, aveva dovuto ritirarsi da Treviso ed Enrico, poco dopo, vi era entrato accolto come un salvatore.(75)
D’altra parte rimane aperta la possibilità di un soggiorno di Dante presso Enrico in anni precedenti. Ancora nell’ottobre del 1316, quest’ultimo si era recato a Verona, in visita solenne presso Cangrande, e aveva svolto il ruolo d’intermediario nel matrimonio politico tra il figlio di Guecello Da Camino e una nipote dello Scaligero. Il viaggio di Dante nel Friuli orientale potè avvenire a quell’epoca, cioè durante il suo secondo soggiorno veronese, accompagnando Enrico, per esempio, al ritorno di lui nei propri dominii. Forse allora Dante potè visitare Gorizia, la tedesca Görz, o forse, come pensa il Bassermann (lo vedremo tra poco) fu ospite del conte presso uno dei suoi maggiori castelli, ad Adelsberg (la slovena Postojna e l’italiana Postumia), che aveva sottratto al patriarca di Aquileia e che si rifiutava ostinatamente di restituirgli, nonostante le numerose convenzioni in proposito, forse col pretesto della probabile sospensione di un accordo del 1313 col quale le entrate patriarcali avrebbero dovuto passare, sic et simpliciter, al conte. (76)
Un episodio avvenuto alla fine dell’Ottocento rende bene l’idea di come la discussione sulla presenza di Dante a Gorizia tendesse a esasperarsi in termini di scontro politico, nel clima arroventato degli opposti nazionalismi. “Cento anni fa a Gorizia alcuni irredentisti volevano dipingere sul sipario del teatro motivi alludenti alla tradizione del soggiorno del poeta. Intervenne il governo austriaco, il quale, ergendosi a paladino del rigore scientifico, si oppose protestando che era ‘una falsità storica’. La pittura non si fece:” (77) Povero Alfred Bassermann, chissà cosa ne avrà pensato e quali antipatie si sarà attirato dai suoi fratelli di lingua, i tedeschi dell’Impero austriaco!

TOLMINO.-
 Per quanto possa apparire strano, un eventuale soggiorno di Dante a Tolmino è fra quelli che hanno le maggiori probabilità di verosimiglianza, nell’area dell’attuale Venezia Giulia. Alfred Bassermann, uno dei massimi esperti di tali questioni, dopo aver studiato la documentazione esistente e dopo aver visitato accuratamente i luoghi, era fermamente convinto che l’Alighieri vi fosse stato. Ricordiamo che sia Tolmino, sull’alto Isonzo, sia Postumia, sull’altopiano della Ciceria, rientravano nei domini del patriarca di Aquileia e che entrambe le cittadine, proprio all’inizio del 1300, furono conquistate dal conte di Gorizia e inglobate nel suo dominio.
A pochi chilometri da Tolmino si aprono le suggestive gole della Tolminka e, attraverso di esse, si giunge all’apertura della Dantovna Jama, la Grotta di Dante. In questo luogo “i contadini parlano ancora del poeta, avvolto in un mantello rosso, seduto in atteggiamento pensoso all’ingresso d’una grotta, lunga oltre cento metri.” (78) Fin qui, naturalmente, la leggenda popolare; ma esistono anche riscontri più puntuali.
Il Bassermann (79), che visitò il luogo al principio del Novecento, così lo descrive: “Una tal via io non aveva ancora percorso in vita mia. Figurati, o mio lettore, di essere inghiottito da una balena, la quale, prima che tu sia giunto nel ventricolo, siasi mutata in un fossile, e immagina di dovere attraverso ai visceri irrigiditi cercare il tuo cammino, e in tal guisa tu avrai a un di presso un concetto della mia condizione. (...) La questione che mi occupava era questa: in quale relazione si può porre Dante con questa spelonca? E già mentre mi arrampicavo avevo trovato la risposta: la relazione esiste in quella descrizione dell'ultimo canto dell’Inferno, ove Dante e Virgilio s’aggrappano, discendendo, alle coste di Lucifero:
tra il folto pelo e le gelate croste,
e dove più oltre si dice:
quando noi fummo là dove la coscia
si volge appunto in sul grosso dell’anche,
lo duca con fatica e con angoscia
volse la testa ov’egli avea le zanche,
ed aggrappossi al pel come uom che sale,
sì che in inferno io credea tornar anche.
[ Inf. XXXIV, 75 ]
“Era questa, la medesima situazione in cui io venni a trovarmi, descritta come non si potrebbe più fedelmente. Anzi la struttura della roccia, che quasi ovunque mostra delle superifci incurvate con sottili e lisci incrostamenti squamosi, induceva a pensare a qualcosa di organico, appunto alla coscia di Lucifero, lungo la quale conveniva scivolare. Qui poteva trovarsi il modello della cavità in cui Lucifero nella sua caduta dal cielo precipitò fermandosi al centro della terra. Con questa ricognizione, lo scopo della mia discesa alla caverna era raggiunto.”(80)
Certo, qui lo studioso tedesco, per  eccesso di entusiasmo, finisce per porre come acquisito ciò che resta da dimostrare, anticipando quel che potremmo dire “il metodo Heyerdahl” (l’archeologo norvegese che navigò su delle barche di giunchi attraverso l’Atlantico e il Pacifico per dimostrare che gli Egizi giunsero alle Antille e gli Incas alle isole dell’Oceania): confondere la dimostrazione di una possibilità con quella di una certezza.Tuttavia, non è ancora finita. Esiste anche una tradizione scritta che parla di Dante a Tolmino, che Jacopo da Valvasone  (prima metà del XVII secolo) riferisce come cosa di antica data. La notizia dello storico sola non avrebbe certo avuto la vigoria – in ispecie in tempi e in regioni di tanto analfabetismo – di dare a un determinato luogo un nome così stabile come appare nel caso della caverna di Dante.” (81)
Adolfo Cecilia, invece, nell’Enciclopedia dantesca si mostra alquanto scettico sulla questione e afferma che la presenza di Dante a Tolmino e negli altri dominii del conte di Gorizia è stata ipotizzata “senza fondamento valido.” (82)

POSTUMIA.-
 Per Postuma (la tedesca Adelsberg) si può fare un discorso analogo a quello di Tolmino, solo che qui i riferimenti topografici e letterari sono due: il la