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Austerità e cambiamento

di Claudio Risé - 21/07/2010


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L’incertezza è il tempo del malessere. I comportamenti anomali, i disagi psicologici più insidiosi, individuali e collettivi, si sviluppano quando non riusciamo a capire se siamo nell’abbondanza o nella povertà, nello sviluppo o nel declino. Da questo punto di vista, la recente dichiarazione del ministro dell’Economia Giulio Tremonti: «L’austerità è una necessità e una responsabilità per tutti», apre per gli italiani un quadro psicologico preciso, in cui collocare le proprie esperienze.
Il ministro ha voluto «volare basso», dicendo di non sapere se l’austerità sia un’ideologia. Forse potrebbe essere anche interpretata così (e ciò sarebbe pericoloso), ma quel che è certo è che si tratta invece di una condizione, una situazione concreta, cui non ci si può sottrarre e che può quindi aiutare ognuno di noi a misurare le proprie forze e verificare il proprio stile di vita. Non è piacevole, tuttavia sapere quale fosse la situazione del Paese e di tutti era assolutamente necessario; impopolare ma opportuno.
Solo adesso che l’inquietante parola, austerità, è stata ufficialmente pronunciata, si potranno davvero mettere in moto nuove energie, comportamenti diversi, un nuovo modo di esistenza.
La psiche individuale, da cui poi nascono i comportamenti collettivi, è fatta così: ha bisogno di sapere. È ciò che gli psicologi chiamano «presa di coscienza», indispensabile appunto per assumersi quella «responsabilità» di cui ha parlato anche il ministro, indispensabile per costruire comportamenti virtuosi.
Non ci si può prendere delle responsabilità per ciò che non si sa, che non è chiaro. La psiche ha bisogno di scenari ben definiti per muoversi, organizzare le forze, fare piani per il futuro. Per questo, tra l’altro, qualità indispensabile nel buon maestro è quella di «costruire scenari», possibilmente appassionanti, piuttosto che tediare gli studenti con noiosi «moduli» di apprendimento.
Nel primo dopoguerra, con le città mezze distrutte, i risparmi bruciati, una rivoluzione industriale in atto, era chiaro cosa si dovesse fare: ricostruire, produrre, concorrere sui mercati internazionali. Quello che al mondo apparve come il «miracolo italiano» nacque così: come risposta ad uno scenario ben definito di povertà, bisogno, ed insieme enormi opportunità. Che vennero prontamente colte, attraverso un grande sforzo collettivo.
Oggi pesa sull’Italia un’ambiguità di fondo: siamo ricchi, o siamo poveri? Dobbiamo indebitarci e spendere, o lavorare duramente e risparmiare? Quest’incertezza è tra le ragioni (tra l’altro) di uno dei dati più drammatici dell’Italia di oggi: l’enorme percentuale di popolazione giovanile che non studia e non lavora, trascinando stancamente studi che non completa, senza darsi nessuna seria competenza lavorativa o professionale. Condotte come questa, avallate dalle famiglie, e, quando i genitori reagiscono chiudendo la borsa, confermate spesso da una magistratura che impone di riaprirla, nascono da una situazione personale e collettiva caratterizzata dalla depressione; originata anche, però, da una rappresentazione sociale opaca, poco nitida e sincera sulla situazione reale.
Le resistenze dell’Italia ad accettare uno scenario di austerità non sono strane. La ricchezza e il benessere italiano sono troppo recenti per lasciar spazio senza difficoltà a una visione più austera. D’altronde il mondo intero stenta ad accettare che questa crisi chiuda davvero l’epoca della ricchezza costruita sui debiti, per costruirne una più solida e più giusta.
Ora, però, anche da noi lo scenario è tracciato, e lo sforzo di cambiamento può cominciare.