Non volere è potere?
di Alain de Benoist - 18/08/2010
Non crediamo di andare troppo lontani dalla verità se affermiamo che il p(i)attume televisivo, con il suo qualunquismo/populismo sistematico, sia uno strumento di ammorbamento di massa che contribuisce a sopire spiriti creativi. Tuttavia è frequente sentir dire che la TV trasmetta semplicemente ciò che la gente vuole; questo pare un ennesimo ribaltamento tra vittima e carnefice con l'imputazione in capo ai teleascoltatori della volontà di guardare solo TV spazzatura. Crede sia possibile un'educazione alla complessità con la proposta di programmi televisivi che non premano solo sulle tendenze voyeuristiche?
Il sociologo Jean Baudrillard diceva che non siamo noi a guardare la televisione, ma è la televisione a guardare noi. Questa espressione era utile per sottolineare il carattere passivo del telespettatore. Recentemente, tuttavia, si è vista apparire in televisione l’interattività, così come interviene già su Internet, nei videogiochi ecc. Il problema non si riduce dunque unicamente a una questione di passività. La cosa più preoccupante è la straordinaria omogeneità dei programmi. Ormai si possono prendere centinaia di canali televisivi, ma vi si trovano sempre più o meno le stesse cose. La pluralità, dunque, non comporta necessariamente la diversità. In fondo, il messaggio sottostante a tutti questi programmi è che noi viviamo nella migliore (o nella meno peggiore) delle società possibili. Non è mai stata suggerita la minima alternativa globale. D’altra parte, è evidente che le trasmissioni servono solo a fare da cornice ai messaggi pubblicitari, che sono la vera ragion d’essere di tutte le emittenti private. Anche la pubblicità ci impone un messaggio unico, all’occorrenza che la felicità risiede solo nel consumo, cioè nell’acquisto sempre più frenetico di una maggiore quantità di merci. Questo non significa, ovviamente, che non possa esistere alcuna emittente interessante. Possono essercene, di interessanti, e si possono anche vedere dei film di qualità, in televisione, ma questo uso selettivo della televisione implica uno spirito critico, che il suo uso intensivo tende a fare sparire nella maggior parte delle persone. Per questo il voyeurismo e l’esibizionismo prendono così spesso il sopravvento.
Sul numero 295 di Diorama letterario, Giuseppe Giaccio, citando Khalid Koser, scrive che in tema di immigrazione clandestina i governi «non hanno la volontà politica di affrontare la questione», questo perché risulterebbe scomodo per troppa gente che si trova nei posti “giusti”. Questo discorso lo si può fare per molti altri problemi irrisolti (la lotta alla malavita organizzata per esempio). Possiamo affermare che la mancata volontà politica sia un modo per mantenere lo status quo? L'ennesimo rimedio ex-ante per reprimere alternative, anche a costo di mantenere inalterate situazioni palesemente ingiuste?
Io non credo che la mancanza di volontà sia una scelta deliberata, questo sarebbe almeno paradossale. Non vi si può, dunque, vedere un mezzo strategico per “mantenere lo status quo”. Questa mancanza di volontà, che si può constatare effettivamente in molti ambiti, deriva più genericamente dallo spirito generale del tempo. La volontà esige che si abbia una chiara coscienza degli scopi che si vogliono raggiungere e nel contempo la risolutezza necessaria per realizzarli. Ora, la “nuova classe” non si pone altri obiettivi che quello di riprodurre indefinitamente il suo stato, con i privilegi che da esso derivano. Voi citate la questione dell’immigrazione. La mancanza di volontà dei governi è chiara, ma bisogna ancora identificarne le cause: l’ideologia dei diritti dell’uomo, che funziona come fattore paralizzante o inibitorio, e la convinzione che tutti gli uomini sono fondamentalmente gli stessi, al di là delle appartenenze culturali che sono alla base della loro umanità. Si può fare la stessa constatazione riguardo alla costruzione europea: coloro che ci si dedicano da più di trent’anni non hanno mai voluto precisare i motivi per cui questa costruzione è necessaria, cioè non hanno mai voluto spiegare le finalità dell’impresa. Non l’hanno mai fatto, perché in merito a questo argomento non vi è accordo tra i governi: gli uni parteggiano per una Europa-potenza, gli altri (i più numerosi) per una Europa-mercato. Lì ancora non si constata alcuna volontà politica, che potrebbe permettere all’Europa di affermarsi in quanto tale. Semplicemente, la volontà non fa parte delle qualità ricercate, presso gli uomini d’oggi. Si può immaginare che essa riapparirà quando le circostanze, divenute più drammatiche, lo esigeranno.
Alla luce della recente crisi economica in Grecia, come giudica l'immediato e tempestivo ausilio offerto degli stati europei (Germania e Spagna su tutti) alle finanze greche in difficoltà? È in qualche modo rintracciabile nel tam tam mediatico che ha accompagnato la vicenda, l'intenzione di dipingere gli interventi in aiuto alla Grecia come il dovere per tutti, omettendo di offrire una panoramica generale sull'argomento? Siamo di fronte ad un ordine irrevocabile, ad un "serrate le fila", che vada ad incidere su un processo di ragionamento serio e profondo sulla situazione economica in generale?
Nella questione greca, gli Stati innanzi tutto si sono preoccupati di salvare le banche. Questo lo si era già visto all’indomani della crisi finanziaria dell’autunno del 2008, di cui continuiamo a subire gli effetti. All’epoca di questa prima crisi, che era scoppiata negli Stati Uniti, i problemi erano venuti dall’inflazione del debito privato (case e imprese). Oggi i problemi derivano dall’inflazione del debito pubblico, ma fondamentalmente lo schema è il medesimo. Invece di agire sulle cause, i governi si limitano ad agire sulle conseguenze. È così che la Francia, per esempio, prenderà del denaro in prestito dalle banche per darlo alla Grecia, in modo da permettere ai Greci di pagare il debito che hanno con le banche! C’è in questo qualcosa di surreale. In sovrappiù, gli Europei, per la prima volta, hanno accettato che un organismo internazionale esterno all’Europa, all’occorrenza il Fondo Monetario Internazionale (FMI), si intrometta nei loro affari interni. Ne risulta che la “governance economica” dell’Europa passerà progressivamente sotto il controllo del FMI, mentre, nei Paesi in difficoltà, saranno i lavoratori, le classi popolari e la classe media a pagare il prezzo del “rigore” e della “austerità”. Tutto ciò non può che contribuire al degrado della situazione politica e sociale. Diversi economisti pensano anche che il sistema dell’euro sia fin d’ora già condannato. In Paesi che hanno disparità economiche troppo forti, non può essere usata contemporaneamente una stessa moneta. L’euro potrebbe sopravvivere come moneta comune, per gli scambi extraeuropei, ma sparirebbe negli anni futuri come moneta unica. Questa “uscita dall’Euro” può svilupparsi dal basso (su iniziativa della Grecia, della Spagna, del Portogallo ecc.) o dall’alto (su iniziativa della Germania). In tutti i casi, noi non siamo usciti dalla crisi!
[traduzione per opifice.it di Jeanne Cogolli]