Sì, siamo tutti spiati
di Steven Rambam - Luca Neri - 20/08/2010
Paghiamo la cena con la card. Passiamo al casello col Telepass. Navighiamo su MySpace. E la nostra vita diventa un libro aperto. Perché con un po’ di capacità e di soldi c’è chi può sapere tutto di noi. E leggi e garanti non servono a tutelarci. Parola di un indagatore professionale della Rete.
Steven Rambam è un cinquantenne alto, atletico e decisamente loquace, tanto fiero di essere ebreo quanto di far parte di una famiglia che risiede a Brooklyn da cinque generazioni. Ama raccontare di aver scoperto il fascino del lavoro d’indagine da giovanissimo (apparentemente negli ambienti dell’estrema destra sionista), facendosi notare per la sua abilità nei ruoli di infiltrazione.
Oggi è il titolare di Pallorium, un’agenzia d’investigazione privata specializzata in grandi frodi finanziarie e nel ritrovamento di persone scomparse. Dal 1996 è anche un ospite fisso di Hope (Hackers On Planet Earth), il raduno dell’underground informatico di New York, dove quest’anno ha condotto un seminario affollatissimo intitolato “La privacy è morta, rassegnatevi”. Ed è proprio su questo tema sensibile e attuale che “L’espresso” lo ha intervistato.
«La privacy è morta, la mia non è una battuta. E almeno per tre ragioni…».
Prego.
«Innanzi tutto, grazie alla crescita continua della potenza dei computer, delle memorie digitali e dei programmi informatici, oggi è possibile raccogliere ogni tipo di dati e archiviarli per sempre. Ci facciamo visitare da un dottore? Paghiamo la cena al ristorante con il Bancomat? Passiamo il casello dell’autostrada con il Telepass? Ognuno di quegli eventi è registrato all’istante in un database e non sarà mai più dimenticato. E le occasioni di memorizzazione digitale dei nostri comportamenti saranno sempre di più in futuro: dalla spesa al supermercato fino ai nostri passaggi accanto alle telecamere di sorveglianza.
La seconda ragione?
«La privacy è morta perché si è suicidata. La stragrande maggioranza dei dati disponibili su ciascuno di noi sono stati divulgati volontariamente. MySpace, Facebook, blog, siti Web personali, Flickr, Twitter, Foursquare, YouTube… La gente pubblica in Rete anche i più minuti dettagli delle sue vite quotidiane: quello che gli piace e non piace, i luoghi che frequenta, i libri che legge, i film che guarda, la musica che ascolta, il suo orientamento sessuale, le sue idee politiche, la sua carriera professionale. Fra chi ha meno di 35 anni – molto semplicemente – il senso della privacy non esiste più».
La terza ragione?
«È la più importante: questi dati, aggregati assieme, valgono miliardi e miliardi di dollari. Che cosa produce Google? All’apparenza nulla. Google è diventato un business multimiliardario senza fare niente di più che succhiare ogni possibile frammento d’informazione da tutti i database del pianeta, aggregare questi dati, capire chi siamo come individui, e cercare quindi di venderci delle merci».
Dovremmo allora smettere di usare Google?
«Non è questo il punto. Google fa il suo lavoro in modo brillante – e a mio parere in maniera molto più trasparente di tanti suoi concorrenti. Ma proprio perché l’informazione è oggi il motore più potente del capitalismo, proprio perché i nostri dati personali sono così preziosi, c’è un incentivo fortissimo a raccoglierli, indicizzarli, analizzarli, incrociarli, sottoporli a forme d’intelligenza artificiale per evidenziare relazioni inattese. Che ci piaccia o no, un’infinità di aziende è alla ricerca di nuovi metodi per scoprire e catalogare ogni segreto delle nostre vite».
Lei stesso ha creato un business, PallTech, che offre a poliziotti e investigatori l’accesso a decine di miliardi di schede su aziende e individui. Cosa ha imparato con quel lavoro di aggregazione? La perdita della privacy sta accelerando?
«Direi che non c’è più nulla da accelerare. Non solo le nostre vite sono ormai un libro aperto, ma menti geniali hanno già perfezionato strumenti raffinatissimi per analizzarle, scoprire correlazioni che evidenziando aspetti della nostra psicologia di cui noi stessi non siamo consapevoli».
Ci vuole fare un esempio?
«È stato provato che se lei ama il burro di noccioline a pezzi grossi, e possiede un gatto, sarà tre volte più propenso all’acquisto di un Maggiolino Volkswagen!».
Tutto questo però succede in America, dove la privacy non ha protezione legale. Lei crede davvero che vietare la raccolta di certi dati, o imporne la cancellazione dopo un certo periodo, non faccia nessuna differenza?
«Io lavoro fuori dagli Usa oltre la metà del mio tempo. Ho condotto indagini in tutta l’Europa. Non posso ricordare un solo caso in cui non sia riuscito ad avere accesso a tutte le informazioni di cui avevo bisogno. Le leggi sulla protezione dei dati personali sono una barzelletta, i garanti della privacy sono tigri senza denti. Le aziende europee sono solo più furbe nell’offrire un’illusione di controllo ai consumatori. Chiunque voglia navigare in Rete è di fatto costretto a offrire il suo permesso a essere spiato».
Sta parlando del cosiddetto “consenso al trattamento dei dati personali”?
«Esatto. Lei crede che anche una persona su mille si prenda la briga di leggere le condizioni di erogazione dei servizi digitali che usa? Ovvio che no. Clicchiamo su una casellina e tiriamo avanti, senza nemmeno pensare che abbiamo appena accettato di spalancare una finestra sui segreti più profondi della nostra anima. L’unica differenza fra gli Usa e l’Europa è che i vostri governi sono assai più meticolosi nel collezionare informazioni sui loro cittadini. Così, quando quei dati sono incrociati con quelli raccolti dai privati, si ricavano dei dossier più accurati».
David Brin, l’autore di “La societa’ trasparente”, è arrivato a concludere che, se la privacy dei cittadini non esiste più, dovremmo esigere un livello di trasparenza simile dai nostri governanti e dalle aziende private. Lei che ne pensa?
«Questa è una questione chiave. Sempre più spesso, tanto negli Usa quanto in Europa, gli stessi governi che continuano ad accumulare profili sempre più dettagliati sui loro cittadini, vogliono secretare il loro operato. Questo trend è pericolosissimo, perché l’informazione oggi è potere, è più importante dei soldi e dei fucili, è cio che determina la nostra percezione della realtà».
Bruce Schneier, il celebre esperto di sicurezza digitale, dice che la mancanza di privacy crea uno squilibrio intollerabile fra i potenti, che hanno sempre l’opzione di nascondersi dietro società anonime e segreti di Stato, e i cittadini comuni.
«Ho immensa stima per Schneier, ma non sono d’accordo. Internet ha livellato il campo di gioco. Oggi chiunque può controllare se l’autista del pulmino scolastico è stato condannato per guida in stato di ubriachezza, quanto valgono le case nel suo quartiere, o se un dottore è in realtà un macellaio. Proprio perché questi dati sono accessibili a tutti, oggi abbiamo più opportunità di gestire le nostre vite in modo positivo che in qualsiasi altro momento storico. Strillando che la privacy è in pericolo si corre invece il rischio di offrire la scusa perfetta a chi vorrebbe limitare l’accesso all’informazione ai ricchi, ai potenti e ai professionisti come me».
Allora ha ragione Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, quando sostiene che incentivando la massima trasparenza lui renderà il mondo migliore?
«L’idea che Mark Zuckerberg possa essere preso sul serio come paladino della trasparenza in Rete è ridicola. Zuckerberg vuole solo far soldi rivendendo i segreti degli utenti del suo sito. Facebook controlla il suo pezzo di cyberspazio con zelo fanatico. E’ un sistema chiuso che non ammette interazioni dall’esterno. Google, nonostante sia un mostro terribile sul fronte privacy, almeno ci offre interfacce di accesso ai suoi dati, ci regala ottimi sistemi operativi, può essere navigato in modo anonimo. Non lo fa certo per beneficenza. Ma perlomeno è intelligente e gentile nel suo modo di operare. Al confronto, Facebook e Apple si sentono in diritto di prenderci a randellate, senza neppure far finta di essere dispiaciuti».