IRAQ: La guerra (non) è finita!
di Romolo Gobbi - 20/08/2010
Il 2 agosto, durante la Convention nazionale dei veterani USA, Obama ha dichiarato che la guerra in Iraq "è vicina alla fine, come era stato previsto e nei tempi previsti". Obama ha sottolineato che si è trattato di un "successo", anche se ha dovuto ammettere che "la cruda realtà è che non abbiamo smesso di assistere al sacrificio degli americani in Iraq". Infatti, nel solo mese di luglio di quest'anno sono continuati gli attentati e "il numero delle vittime è tornato a sorpresa ai livelli di oltre due anni fa". Obama non dice quanti sono stati i soldati americani uccisi nei recenti attentati, ma non dovrebbe essere mutata la percentuale dei morti delle forze alleate in confronto a quella degli iracheni, 1 a 20: circa centomila morti iracheni contro 5000 militari alleati, la maggior parte dei quali americani. Più o meno è la stessa percentuale dei morti americani in Vietnam rispetto ai morti vietnamiti: circa 60 mila americani contro oltre un milione di vietnamiti. Quella guerra non fu vinta e gli americani dovettero andarsene, così come ora l'evacuazione del contingente americano continua: 90 mila se ne sono già andati e ne rimarranno solo 50 mila, asserragliati in decine di basi fortificate. Questa volta però la ritirata viene annunciata come una vittoria, come la realizzazione di un programma: "Da candidato alle presidenziali ho giurato che avrei messo fine alla guerra in Iraq in maniera responsabile. Dopo il mio insediamento ho annunciato la nuova strategia per l'Iraq". La strategia "vincente" di Obama consisteva nel ritirare le truppe dall'Iraq per trasferirle in Afghanistan, nell'altra guerra scatenata da Bush per combattere il terrorismo globale. L'unico modo per pensare che la strategia americana contro il terrore sia vincente è quello che "la guerra per liberare l'America dalla paura del terrorismo ha innescato un meccanismo semi-automatico che alimenta la paura come condizione dell'emergenza patriottica. Così, proteggendo Bush dalle critiche interne, favorendo le industrie variamente connesse alla difesa e allargando il differenziale di potenza tecnologico e militare tra Stati Uniti e resto del mondo". Da tutti gli altri punti di vista, la strategia di Obama non è che la registrazione di una sconfitta, a cominciare dal trasferimento delle truppe in Afghanistan, dovuto soprattutto al fatto che l'esercito americano non ce la fa più a sostenere due guerre contemporaneamente, anche dopo aver "cominciato ad arruolare senza rispettare i criteri di base (nè riguardo la salute, nè riguardo la fedina penale) ed entro il luglio 2007 il numero dei soldati con la fedina sporca era più che triplicato rispetto agli anni precedenti".
La scarsità di "carne da cannone" è dovuta anche al fatto che gli alleati, nell'una e nell'altra guerra hanno cominciato a ritirare i propri contingenti. Non sono bastati neanche i mercenari, reclutati da tutto il mondo: "gi USA impiegano duecentoquarantamila contractors sui teatri di guerra in Iraq e Afghanistan, un esercito provato che supera di decine di migliaia quello regolare. Dal 2004 fino al settembre 2007 il Dipartimento di Stato ha pagato alla Blackwater 833.673.316 dollari e al Dipartimento della Difesa 101.219.261 dollari". Secondo il Los Angeles Times "i costi della guerra in vite umane e in dollari per l'assistenza sono enormi, finora gli USA hanno speso mille miliardi di dollari in operazioni di guerra, ma molte di più saranno le spese future (forse circa duemila miliardi) per il debito di guerra, i rifornimenti di armamenti e le cure per i veterani che tornano a casa".
Nella strategia di Obama ci sono in più le spese per la ricostruzione dell'Iraq: "ma ora non possiamo compiere più errori, il nostro impegno nel Paese è cambiato, dallo sforzo militare condotto con le nostre truppe dobbiamo passare a quello civile, grazie alla nostra diplomazia". Non si sa quanto verrà a costare la ricostruzione di un Paese semi-distrutto e che dovrà pagarne il prezzo; per ora "il Pentagono non è in grado di spiegare come ha impiegato il 96% dei 9,1 miliardi di dollari del greggio iracheno venduto per ricostruire il Paese". Anche la guerra del petrolio è stata persa; infatti le grandi compagnie americane si sono dovute accontentare solo di una parte delle concessioni per lo sfruttamento dei campi petroliferi iracheni, visto che il giacimento di Rumalia è stato assegnato ad un "consorzio formato dalla British Petroleum e dalla cinese CNPC. Attualmente il giacimento produce un milione di barili al giorno, quasi la metà della produzione irachena". Invece l'ENI è a capo di un consorzio per lo sfruttamento del giacimento di Zubair, "un controllo che comprende anche la statunitense Occidental Petroleum Corporation e la sudcoreana Kogas".
Quanto alla guerra per portare la democrazie in Iraq, bisogna dire che in qualche modo si sono svolte delle elezioni, più o meno democratiche, nel mese di marzo di quest'anno, ma "sono passati quasi cinque mesi dal voto del 7 marzo e l'Iraq non ha ancora un governo (...), mosse tattiche dei partiti si stanno aggrovigliando in un labirinto senza via d'uscita". Soprattutto non si riesce a capire come si possano conciliare le contrapposizioni tra le varie parti del Paese, divise da questioni radicali di tipo etnico (curdi) o religioso (sciiti e sunniti). Invece, un risultato di realizzazione democratica è dato dalle manifestazioni e dagli scioperi che si svolgono in tutto il Paese: "le condizioni di vita delle masse popolari, in gran parte sciite, non migliorano, tanto che in quaranta città sono in corso manifestazioni e scioperi contro il razionamento dell'elettricità". La questione della sicurezza, poi, è stata risolta in maniera radicale, circondando i centri direzionali del Paese con alti muri di cemento, la cosiddetta "zona verde". Altrettanto "sicura" è l'ambasciata americana: "è la rappresentanza diplomatica statunitense più grande nel mondo, più estesa del Vaticano e sei volte più ampia del compound delle Nazioni Unite a New York. Più di un'ambasciata, si tratta di una fortezza, costata settecento milioni di dollari, che ospiterà mille impiegati protetti da forze mercenarie. Non da certo l'impressione di essere l'ambasciata di chi si appresta a ritirarsi (militarmente) dall'Iraq"...