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USA: il ritorno dei realisti

di Stefano Vernole - 12/05/2006

 

 

Se qualcuno si chiedesse il motivo dell’improvvisa alzata di scudi effettuata da importanti settori dell’apparato militare statunitense unitamente alla verve polemica di alcuni organi d’informazione che sono giunti a chiedere le dimissioni di Cheney e Rumsfeld a causa del disastro iracheno la risposta sarebbe una sola: si tratta del disperato tentativo operato da alcuni apparati dell’establishment a stelle e strisce di correggere in senso “realista” la politica di Washington in Medio Oriente.

Sembra ormai passato un secolo da quei giorni, data l’improvvisa accelerazione assunta dagli avvenimenti mondiali negli ultimi 5 anni, ma è sufficiente riportare la memoria indietro per capire quale svolta abbiano determinato gli attentati dell’11 settembre 2001.

Insediatosi con una sorta di golpe elettorale, l’attuale presidente Bush jr. aveva seguito fino a quel momento una politica quasi isolazionista(1), basata sul realismo geopolitico (cioè sul semplice interesse nazionale e sulla cd. “balance of power”) e sulla possibilità della nascita di uno Stato palestinese, alfine di consolidare la tradizionale amicizia della lobby petrolifera texana con il mondo arabo “moderato”.

Contrariamente a quanto molti ritengono, Israele almeno dalla fine degli anni Ottanta rappresenta più un ostacolo che un aiuto alle politiche mediorientali degli Stati Uniti, tuttavia in un modo o nell’altro Tel Aviv è sempre riuscita fino ad oggi a mantenere la sua centralità quale principale alleato dell’Occidente in un’area strategica per le sorti del Pianeta(2).

Dopo il crollo delle Twin Towers e l’aereo (o più probabilmente bomba) contro il Pentagono tutto è cambiato, l’Amministrazione Bush ha lanciato la cd. “guerra al terrorismo” con l’obiettivo di “esportare la democrazia” in Medio Oriente e destabilizzare tutti i governi di quell’”area”.

La manovra ha avuto successo nell’abbattimento del regime dei Talibani in Afghanistan, favorita dal consenso pressoché unanime della “comunità internazionale” (con l’eccezione, peraltro parziale, del Pakistan) , molto meno nell’invasione dell’Iraq, dove gli interessi geoeconomici divergevano profondamente.

Sostanzialmente, tutta la visione “neoconservatrice” ispirata dai vari Perle, Wolfowitz, Kagan … si basa su un assunto fondamentale: i vecchi alleati di Washington al Cairo, Ryad … e i regimi non amici ma comunque “laici”, a Baghdad, Damasco … non servono più, in quanto incapaci di tenere a freno le velleità dei vari gruppi “fondamentalisti”, perciò possono pure essere spazzati via, democraticamente o meno.

La fine del tradizionale e fragile equilibrio raggiunto in decenni di contrappesi geopolitici non può ovviamente che favorire i cd. “integralisti islamici” e rilanciare la contrapposizione bellica tra le due parti, una situazione particolarmente gradita ad Israele, che oltre a vedere eliminati Paesi ostili torna ad essere bastione indispensabile della strategia nordamericana in Medio Oriente.

Questa è la logica dei continui attentati terroristici contro l’Egitto e l’Arabia Saudita e delle minacce continue a Siria e Iran, come è già stato segnalato da un’attenta pubblicistica e dalla stessa cinematografia statunitense(3).

Una folle corsa alla guerra infinita, in spregio a tutte le convenzioni internazionali e al tradizionale equilibrio fra gli Stati, che aldilà della convergenza con gli interessi sionisti(4) ha però un fine strategico chiarissimo: l’occupazione delle zone chiave del Pianeta per il possesso delle principali risorse economiche mondiali, prima della crescita non più controllabile delle potenze emergenti, Cina in primis, ma anche India, Russia e Brasile.

Un disegno rischiosissimo per due motivi: perché ha scoperchiato un “vaso di pandora” nel mondo islamico, portando al potere Hamas in Palestina e Ahmadinejead in Iran e forse presto i “Fratelli Mussulmani” in Egitto, perché ha comunque costretto alla convergenza tutte le piccole e medie potenze interessate a porre un freno all’unilateralismo statunitense.

Nonostante il richiamo continuo a marciare sotto la guida di Washington per fronteggiare “la comune minaccia terroristica”, l’alleanza russo-cinese è destinata alla lunga ad avere un potenziale di attrazione fortissimo per India ed Unione Europea, l’America Latina già oggi cerca lungo l’asse Castro-Chavez-Kirchner-Morales di sganciarsi dal controllo della Casa Bianca, mentre Lula aspetta solo l’occasione propizia per accodarsi a loro.

Il punto senza ritorno di questa situazione sarebbe l’attacco all’Iran, previsto per la fine del 2006, che comporterebbe quasi sicuramente l’eventualità di un bombardamento nucleare su Teheran e inasprirebbe le contraddizioni fra la triade USA-GB-Israele e il resto del mondo, senza contare le sue ricadute in termini di rappresaglie.

Ecco che allora la più nota fra le lobbies mondiali, la Trilateral Commission(5), sta cercando di porre riparo a quello che appare un disegno destinato a condurre la politica dettata dai “neocons” in un vicolo cieco e all’isolamento più totale.

L’ ultima riunione del gruppo (un resoconto si trova su www.corriere.it) ha messo in guardia dai rischi che l’intera economia globale potrebbe correre in caso di attacco militare all’Iran, in termini di aumento del prezzo del petrolio ma anche a causa delle difficoltà che l’impresa bellica inevitabilmente incontrerebbe.

Ecco che allora si è deciso di dare vita a una sorta di “Piano B”, che consisterebbe in un dialogo diretto tra Teheran e Washington volto a convincere gli iraniani a congelare le loro ricerche nucleari in cambio di un analogo impegno da parte di Tel Aviv; Israele, a sua volta, otterrebbe una garanzia internazionale di sicurezza analoga a quella prevista dall’articolo 5 della NATO (in pratica riceverebbe la stessa copertura militare destinata ai membri dell’Alleanza Atlantica pur non facendone formalmente parte).

La Russia di Putin, aldilà della diffidenza che la stessa Trilateral mantiene nei confronti della politica di difesa dell’interesse nazionale praticata dall’attuale guida del Cremino, dovrebbe essere la mediatrice dell’accordo, in virtù anche dell’occasione rappresentata dal prossimo vertice del G8 a San Pietroburgo.

Ovvio che questo complesso gioco di scambi rivela difficoltà non facilmente superabili.

Innanzitutto i tempi previsti da Kissinger per la sua attuazione, 15-18 mesi, che contrastano con i decisi segnali provenienti dall’establishment statunitense e dal suo alleato sionista, decisi a chiudere la partita iraniana entro la fine dell’anno.

Poi la delega che Israele dovrebbe concedere ad altri partners relativamente alla propria sicurezza, ma soprattutto l’evidente cambio di strategia da parte dell’Amministrazione Bush.

Quest’ultima, in particolare, appare l’ipotesi più improbabile, in quanto la dottrina della “guerra infinita” appare un’opzione ormai irreversibile, stante i disastrosi parametri economici degli Stati Uniti: partita quando il debito estero era di 6.000 miliardi di dollari, il deficit si aggira oggi sugli 8.000 miliardi, ai quali va aggiunto il terribile passivo della bilancia federale dei pagamenti (gli USA sono inoltre la nazione maggiormente debitrice nei confronti delle Nazioni Unite che proprio nel timore di non riscuotere i loro crediti assistono spesso supine alla politica imperialista della Casa Bianca).

Trovare infine un interlocutore a Teheran non sarà facile; nonostante l’apparente collaborazionismo iraniano in Iraq, volto a consolidare le proprie posizioni in un paese dove gli sciiti sono la netta maggioranza e le truppe dell’Alleanza Atlantica sono in netta difficoltà, Ahmadinejead sta conducendo una partita dalla doppia valenza, interna ed esterna, necessaria a rafforzare la propria autorità.

Insofferente del pragmatismo spesso interessato della “vecchia guardia”, il nuovo presidente iraniano ha compiuto tutta una serie di passi idonei a liberarsi dalla tutela di alcuni centri di potere economici eredità dei passati governi e senza concedere nulla alle richieste “occidentali” ha comunque dimostrato di sapersi accattivare le simpatie delle nuove generazioni.

Il suo obiettivo è quello di rendere l’Iran la maggiore potenza regionale dell’area del Golfo Persico e può contare ora oltre che sui tradizionali alleati siriani e libanesi (Hizbollah) anche sul nuovo governo palestinese di Hamas.

I prossimi mesi saranno decisivi nel verificare i possibili cambiamenti di questa complessa partita a scacchi ma difficilmente assisteremo a clamorosi ribaltoni in quello che appare un dualismo ormai consolidato, tra i sostenitori dell’avventurismo bellico degli Stati Uniti, Gran Bretagna ed Israele essenzialmente, e quelli del mondo multipolare, capitanati da Russia e Cina.

L’incognita maggiore ricade ancora una volta sulla posizione dell’Europa e perciò tanta più rilevanza potrebbe assumere nel nostro continente un atteggiamento italiano diverso da quella tenuto dal governo Berlusconi fino ad oggi, con un auspicabile passaggio dell’esecutivo di Roma dal campo dei paesi dell’atlantismo ad oltranza a quello dei partigiani di un’Unione Europea autonoma dalla volontà statunitense.

 

 

 

Note

 

1) Per le varie anime della politica estera statunitense si veda il mio “Le opzioni USA” su www.disinformazione.it

2) Riguardo i progetti della Trilateral Commission su Israele rimando a: Stefano Vernole, “Palestina una diplomazia tra speranze ed illusioni”, su “Eurasia” Rivista di Studi Geopolitici n. 1/2005.

3) Sulla complessa partita che si sta giocando in e sull’Arabia Saudita segnalo: Maurizio Blondet, “Osama Bin Mossad”, Effedieffe e il recente film “Syriana” con George Clooney.

4) Molti della cd. lobby “neoconservatrice” sono ebrei o simpatizzanti sionisti. Tra di essi i più noti sono Richard Perle, Paul Wolfowitz, Douglas Feith, Michael Leeden e Paddy Ashdown.

5) La Trilateral Commission, della quale fanno parte circa 300 “privati cittadini” provenienti da Europa, USA e Giappone e il cui Presidente onorario è David Rockfeller, è in pratica una sorta di tentativo dell’alta finanza di creare un governo mondiale ombra a carattere massonico. In questo disegno l’imperialismo statunitense è sempre stato uno strumento indispensabile, a patto che sapesse agire in una logica internazionalista; a causa di questo grave difetto l’Amministrazione Bush ha subito ad esempio le critiche dei vari Soros o dei protagonisti di Hoolywood, tutti legati alle logiche “progressiste” degli Stati Uniti quale guida morale del mondo, tanto care anche alla “sinistra” nostrana.