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Il "diritto" alla felicitá

di Luciano Fuschini - 27/09/2010







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Nientemeno che il Financial Times ha riservato una delle sue preziose pagine a una inchiesta sulla felicità, mobilitando intervistatori e ricercatori. Ovvio che in clima di mercificazione totalitaria anche un concetto come “la felicità” sia espresso in termini monetari. Così apprendiamo che la buona salute vale 1 milione e 300.000 sterline, il matrimonio 200.000, parlare ai propri vicini 129.000, andare in pensione 114.000. Il sentimento contrario, quello di pena, in termini psicologici costa 8.000 sterline in caso di morte di un amico, 126.000 se muore un figlio, 296.000 quando si divorzia (più della morte di un figlio?), 312.000 se muore il partner.
A parte queste bizzarrìe, troviamo alcune conferme di un sano buonsenso. Il denaro può comprare solo “piccole felicità”. Vincere a una lotteria non è garanzia di vita felice e gioiosa. Gli amici sono più importanti del denaro. Perdere il lavoro è un evento traumatico ma il dispiacere è attenuato quando tanti condividono la stessa disavventura (mal comune mezzo gaudio?). È più felice chi si sottrae alla competizione. Nel divorzio il periodo peggiore è quello che precede la decisione di separarsi (apprendiamo che la maggior parte dei divorzi avviene per iniziativa della moglie, un segno ben eloquente di quanto grande sia stato il cambiamento del costume). Infine, se un amico migliora di molto la sua condizione, anche noi ci sentiamo meglio, nella misura del 25% (quantificare sempre, altrimenti non siamo ricercatori seri!).
Dal Financial Times non ci si poteva attendere altro che roba come questa, da cui tuttavia si deduce la conferma dell’unico contenuto convincente che si può dare a un termine così sfuggente: la felicità è uno stato di soddisfazione dovuto alla propria situazione nel mondo.
Nelle culture tradizionali probabilmente nessuno si poneva il problema della felicità. Per l’individuo si trattava di essere in armonia con i ritmi delle stagioni e con la comunità, condividendone le attività e i riti, nell’accettazione della propria condizione e della propria morte. Nel mondo greco-romano i valori supremi per i ceti dominanti erano l’onore e la gloria, non la ricerca della felicità. Per i servi la felicità era la sopravvivenza quotidiana, le donne si sentivano realizzate quando di loro si poteva dire che erano brave madri. Il tema dell’eudaimonìa, della felicità, era riservato ai filosofi, che non quantificavano in percentuali e in sterline come il Financial Times. Per Talete felice è colui che ha un corpo sano, buona fortuna e un’anima ben educata. Per Democrito è felice chi si tiene lontano da ogni eccesso, suggerimento che dovrebbero avere sempre presente i cultori dello sballo. Per Platone la felicità è in rapporto con la virtù: è felice chi possiede bontà e bellezza. Anche per Aristotele felicità e virtù vanno insieme. Pochi e minori sono i filosofi antichi che collegano la felicità al provare piaceri. Per lo stesso Epicuro non si tratta di un banale “godersi la vita” ma di conseguire uno stato d’animo saggio e distaccato.
Con l’avvento delle religioni monoteiste, la vita terrena diventa soltanto dolore, una serie di prove che dobbiamo affrontare in vista di una perfetta felicità futura, quando ritornerà il Messia a portarci “nuovi cieli e una nuova terra”, prima del paradiso eterno. La fiduciosa attesa dei primi cristiani è testimoniata dai mosaici di Ravenna: tenero verde di prati, schiere vestite di candidi lini, sguardi sorpresi di animali miti in un mondo di sorgenti, di estasi azzurre, una terra da cui ogni scoria è sparita e innocente è ogni vita. Una terra riscattata da un Cristo imberbe e trionfatore. Nel Medioevo la troppa lunga attesa del nuovo mondo trasformerà quelle immagini in un Gesù di membra piagate e contorte, mentre ogni desolazione di madre è Maria ai piedi del figlio coperto di sangue.
Con l’avvento della Modernità, l’Occidente, dichiarata la morte di Dio, si avventura nella pretesa di realizzare “i nuovi cieli e la nuova terra” con le sole forze umane, confidando nella ragione scientifica e nella tecnica. Una sociologia concepita come scienza ci guiderà verso una società emendata dalle brutture delle epoche oscurantiste, la scienza economica garantirà abbondanza di beni, l’eugenetica forgerà un’umanità migliore. Nella Modernità diventa centrale il tema della felicità. Per Leibniz la felicità è “ un piacere durevole, ciò che non potrebbe accadere senza un progresso continuo verso nuovi piaceri”. Parole da meditare perché vi è già implicito tutto ciò che siamo nel nostro Occidente che ha invaso il globo. Perfino nella costituzione degli USA sta scritto, fra i princìpi fondamentali, il diritto di ogni cittadino alla ricerca della propria felicità. Il richiamo di Kant all’impossibilità della felicità nel mondo naturale e voci come quelle dei Romantici, di Leopardi, di Schopenhauer, degli esistenzialisti, nulla possono contro le tendenze profonde che sconvolgono il quadro antico e irrompono sulla scena del mondo, fino all’esito che le ultime generazioni stanno sperimentando. Non è vero che tutte le ideologie sono tramontate. C’è un’ideologia unica che imperversa e che condiziona la vita di tutti, dalla culla alla bara. Una concezione del mondo che ci sussurra e ci grida quotidianamente: “siamo su questa terra per essere felici; la felicità consiste nell’essere competitivi; in un corpo sano, giovane e bello; nella rimozione del pensiero della morte; nel possedere oggetti mercificati e nel provare sensazioni sempre più forti”. Questo messaggio martellante è fonte di tutti i deliri di un’esistenza folle. La civiltà che proclama il diritto di tutti alla felicità intesa come possesso di beni materiali è quella che produce più suicidi, più malessere, più disperazione.
Non siamo al mondo per essere felici. Un essere che è tutto centrato sul proprio io ma ha la coscienza che i suoi ricordi e i suoi progetti saranno annientati dalla morte, un essere bisognoso di socialità ma nel contempo proteso all’affermazione di sé, mosso da istinti aggressivi e travagliato dai rimorsi, ha una natura fondamentalmente tragica. Non siamo al mondo per essere felici. Siamo al mondo per crescere dentro, attraverso il percorso accidentato della vita, per elevarci spiritualmente; siamo al mondo per fare il nostro dovere assumendo consapevolmente tutte le responsabilità del ruolo che le nostre capacità, le circostanze in cui siamo cresciuti e la sorte ci hanno assegnato. Acquisire questa consapevolezza e sentire che niente è per caso, dal momento che ognuno di noi recita la propria  parte in un grande Progetto che ci trascende, è la via per conquistare la serenità e l’equilibrio interiore: il vero fine da proporsi. Ma questa è saggezza antica, l’antitesi della mentalità dominante.