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L’aliquota di Obama

di Michele Paris - 08/10/2010



Senza alcun intervento del Congresso americano, il 31 dicembre prossimo cesseranno i generosi tagli alle tasse voluti dall’amministrazione Bush nove anni fa. In campagna elettorale il presidente Obama aveva promesso di prolungare i benefici fiscali per la cosiddetta classe media statunitense, ma di eliminare i tagli per i contribuenti più ricchi. A meno di un mese dalle elezioni di medio termine, tuttavia, la maggioranza democratica non ha avuto il coraggio di affrontare un tema così avvelenato come quello delle tasse, rimandando ogni decisione a dopo il voto, quando un rinvigorito Partito Repubblicano con ogni probabilità sarà in grado di ottenere condizioni favorevoli per i redditi più alti.

I provvedimenti adottati in materia fiscale dalla precedente amministrazione tra il 2001 e il 2003, pur non avendo contribuito al progresso economico degli Stati Uniti, hanno determinato un ulteriore allargamento della forbice tra i redditi più alti e quelli più bassi. Soprattutto, i tagli alle tasse tuttora in vigore hanno prodotto un deficit enorme. Il costo complessivo per le casse pubbliche è stato finora di almeno mille miliardi di dollari, mentre per il prossimo decennio, nel caso i tagli venissero resi permanenti, il costo stimato è di qualcosa come tremila miliardi di dollari.

In un clima politico come quello di Washington nel quale da qualche mese a questa parte la preoccupazione più diffusa è precisamente quella dell’insostenibile deficit, è singolare come né i democratici né i presunti falchi in materia fiscale - i repubblicani - abbiano saputo trovare un compromesso per eliminare la principale causa del rosso di bilancio (assieme alle guerre in Iraq e Afghanistan). Nelle intenzioni di George W. Bush al momento della stesura della legge che stabiliva i “temporanei” tagli alle tasse, vi era probabilmente la speranza che nove anni più tardi i membri del Congresso non avrebbero permesso un ritorno alle aliquote precedenti per non essere accusati di aumentare il carico fiscale. Una previsione che si sta appunto materializzando in queste settimane.

Secondo l’attuale regime, lo scaglione fiscale nel quale rientrano i redditi più elevati gode di una aliquota del 35 per cento, mentre i redditi più bassi del 10 per cento. Nel caso venissero eliminati i tagli alle tasse, l’aliquota massima e quella minima tornerebbero rispettivamente al 39,6 e al 15 per cento, con quelle intermedie aggiustate verso l’alto di conseguenza.

Il voto previsto un paio di settimane fa al Senato è stato rimandato a dopo le elezioni del 2 novembre che rinnoveranno gran parte del Congresso americano. L’intenzione dei democratici era teoricamente di far approvare una misura simile a quella sostenuta da Obama, cioè allungare la durata dei tagli fiscali per i redditi al di sotto dei 200 mila dollari per un contribuente singolo, e di 250 mila dollari per una famiglia, e porre fine invece ai benefici per i redditi superiori.

Buona parte degli stessi senatori democratici, ovviamente con redditi ben al di sopra dei 200 o 250 mila dollari, ha visto però apparire lo spettro di essere accusati di voler alzare le tasse nel pieno di una gravissima crisi economica. Con una campagna elettorale in molti casi ancora tutta da decidere, agire in questo modo, dal loro punto di vista, avrebbe servito un clamoroso assist ai repubblicani. Nella realtà dei fatti, metter fine ai tagli alle tasse per i più ricchi incontra il favore della maggioranza degli americani. Per questo, l’inerzia democratica non farà altro che scoraggiare altri elettori da qui ai primi di novembre.

L’incapacità di passare un provvedimento che cerca di fare pagare, sia pure modestamente, una parte del costo della crisi ai redditi più alti è poi la dimostrazione di quanto si siano ormai spostati a destra i termini del dibattito politico negli Stati Uniti. Tanto più che il mancato voto sui tagli alle tasse non è dovuto all’ostruzionismo repubblicano, bensì alla contrarietà di svariati senatori democratici, palesemente a favore del prolungamento degli stessi tagli per quella minima parte dei contribuenti che accumula enormi fortune.

Oltre a quanti si sono dichiarati contrari allo stop dei tagli alle tasse per i più ricchi, c’è poi un gruppo di senatori che preferirebbe prolungarli complessivamente per un anno o due, in attesa di tempi migliori. Ogni rinvio, tuttavia, non farà che assegnare un maggiore potere decisionale al Partito Repubblicano, nettamente in testa nei sondaggi per le elezioni di medio termine.

Un qualche voto da parte del Congresso entro la fine dell’anno ci sarà comunque, in caso contrario tutti i tagli voluti da Bush termineranno al 31 dicembre. Ad occuparsene sarà così quella che viene definita una “lame duck session” del Congresso, verosimilmente sotto le pressioni dei repubblicani freschi di successo alle urne, cioè un Parlamento che si riunisce quando è già stato eletto il suo successore, anche se il mandato di quest’ultimo non ha ancora avuto inizio.

Nel tentativo di dare seguito alla sua promessa, il presidente Obama negli ultimi giorni sta tardivamente insistendo sulla necessità di riportare le tasse ai livelli antecedenti al 2001 per i redditi superiori ai 250 mila dollari, che rappresentano appena il 2.5 per cento dei contribuenti americani. Visto l’umore all’interno del suo stesso partito, tuttavia, le possibilità che il Congresso possa muovere in questa direzione sono praticamente nulle.

Rinunciando ad un confronto con l’opposizione sul tema delle tasse, il Partito Democratico ha così offerto un altro successo alla retorica repubblicana. Allo stesso tempo, la vicenda rappresenta una nuova mortificazione della base elettorale democratica che si appresta a voltare le spalle ad un presidente e ad una maggioranza sempre più lontani dai bisogni dei lavoratori e di quella classe media che continuano a pretendere di voler rappresentare.