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Il territorio come bene comune

di Alberto Magnaghi - 27/10/2010

Fonte: nuovomunicipio




Per inquadrare il potenziale ruolo innovativo degli usi civici nella riqualificazione dei territori
rurali, introduco una definizione generale di “territorio” come il bene comune per eccellenza.
Il territorio è il prodotto di lunga durata di processi di civilizzazione e di domesticazione della
natura che si sono susseguiti nel tempo trasformando il medesimo ambiente fisico in un evento
culturale (il paesaggio urbano e rurale) attraverso relazioni coevolutive fra insediamento
antropico e ambiente. Quando si parla di sostenibilità come insieme di risorse da trasmettere
alle generazioni future, parliamo innanzitutto del patrimonio territoriale che ereditiamo da
millenni di processi di territorializzazione. In Toscana l’impianto infrastrutturale che utilizziamo
è principalmente etrusco e romano, il paesaggio che viviamo è quello del fitto reticolo
di città medio-piccole medievali e rinascimentali, il paesaggio agrario storico che ammiriamo
è quello mediceo-lorenese. Questa immensa opera d’arte vivente (prodotta e mantenuta nel
tempo dalle “genti vive”, come le ha nominate Lucio Gambi), il territorio appunto, deve essere
considerato bene comune in quanto esso costituisce l’ambiente essenziale alla riproduzione
materiale della vita umana e al realizzarsi delle relazioni socio-culturali e della vita pubblica.
Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale
e culturale) costruito nel lungo periodo, un valore aggiunto collettivo che troppo spesso
viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo
spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo, finalizzato alla competizione sul mercato
globale.
Mettere al centro delle politiche pubbliche il bene comune “territorio” consente di perseguire
la dimensione qualitativa, non solo quantitativa, dei singoli beni che lo compongono: acqua,
suolo, città, infrastrutture, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici e cosi via. La soluzione
delle più importanti crisi ecologiche – ecosistemi, energia, salute, clima, alimentazione,
relazioni città-campagna, impronta ecologica – passa attraverso la difesa e la valorizzazione
dei caratteri peculiari di ogni luogo, nelle sue componenti urbane, naturali e agroforestali,
perché è nella specifica modalità di interrelazione di queste tre componenti che si fonda in
ogni luogo la forma puntuale della riproduzione della vita umana materiale e sociale.
L'insieme dei beni comuni che connotano ogni luogo e la sua specifica identità, dovrebbe
costituire il nucleo fondativo, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” di ciascun luogo e
dei diritti dei cittadini rispetto ai singoli beni che lo costituiscono.
I piani che regolano le trasformazioni del territorio, a tutte le scale, dovrebbero pertanto essere
preceduti e coerenti con un corpus statutario socialmente condiviso che definisce, con riferimento
a un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i caratteri identitari dei luoghi, i
loro valori patrimoniali, i beni comuni non negoziabili, le regole di trasformazione che consentano
la riproduzione e la valorizzazione durevole dei patrimoni ambientali, territoriali e
paesistici.
Ma quali elementi del territorio possono iniziare un percorso di reidentificazione collettiva
come beni comuni, non privatizzabili e non alienabili? Molti sono gli elementi in via di privatizzazione
e sottrazione alla fruizione e alla gestione collettiva: le riviere marine, lacustri e
fluviali, molti paesaggi agroforestali recintati, molti spazi pubblici urbani (sostituiti da supermercati
e mall), gli spazi aperti interclusi della città diffusa, delle villettopoli e della disseminazione
dei capannoni industriali, le gated communities e le città blindate, i paesaggi degradati
e anomici delle periferie urbane, la ricca rete della viabilità storica (sostituita dai paesaggi
semplificati delle autostrade e superstrade) e cosi via.
In questo quadro di processi di deterritorializzazione, va sottolineato il potenziale ruolo innovativo
che possono assumere gli spazi aperti agroforestali nella produzione di beni e servizi
pubblici per la riqualificazione della qualità dell’abitare il territorio e la città. Ruolo che può
richiamare, con forme e attori sociali nuovi, le complesse e integrate funzioni storiche di governo
pubblico dei beni comuni (nella classificazione estensiva richiamata da Giovanna Ricoveri1),
dei beni demaniali e di uso civico come classificati più specificamente, ad esempio
da Pietro Nervi2: Inoltre diviene fondamentale il ruolo degli spazi agroforestali nella rideterminazione
di equilibri sinergici fra città e territorio, e nell’elevamento del benessere delle città
(l’agricoltura periurbana, i parchi agricoli multifunzionali, ecc.).
Molte di queste funzioni di produzione di beni e servizi pubblici si fondano potenzialmente
su microimprese a valenza etica (in campo ambientale, agricolo e sociale), in grado di riappropriarsi
di saperi produttivi, artigiani, ambientali, artistici per la cura del territorio.
E’compito dei municipi, delle province e delle regioni3, favorire l’insediamento di questi attori
negli spazi agroforestali agevolandone le attività produttive, le forme associative, (contro
il dominio esogeno della grande industria agroalimentare), promuovendo forme sperimentali
di ripopolamento rurale nelle quali le attività di produzione di “ beni comuni” siano riconosciute
per agevolare il ritorno dei giovani (incentivi per il recupero e la riqualificazione
dell’edilizia rurale, dei piccoli centri urbani e delle infrastrutture storiche come i terrazzamenti,
le piantate, i fossi, i canali; remunerazione delle attività di cura ambientale e del paesaggio;
servizi tecnici alle aziende; agenzie locali di sviluppo; promozione di forme associative e cooperative;
promozione del microcredito, tutela degli interessi dei titolari dei diritti di uso civico,
ecc.).
In queste linee di rinnovamento delle politiche municipali sugli spazi agroforestali, i beni
demaniali e gli usi civici residui, invertendo la deriva in atto dell’alienazione e della privatizzazione4,
potrebbero essere valorizzati, in questo contesto più generale, come laboratori spe-
1 “Una prima categoria include l’acqua, la terra , l’aria, le foreste e la pesca e cioè i beni di sussistenza da cui
dipende la vita….saperi locali, spazi pubblici, biodoversità;…spazi di autorganizzazione delle comunità locali;
una seconda categoria comprende i beni comuni globali come l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare,
la pace… su cui non esistono diritti comunitari territoriali; una terza categoria è quella dei servizi pubblici:
acqua, scuola, sanità, trasporti…” - G. Ricoveri, “Il passato che non passa” in: G. Ricoveri, Beni comuni
fra tradizione e futuro,EMI, Bologna 2005.
2 a) Produzione di beni: forestali legnosi e non legnosi, pascoli, frutti, selvaggina, prodotti dl sottobosco, qualità
e tipicità alimentare, risorse del sottosuolo; reti corte di produzione e consumo, produzione energetica locale; b)
produzione di servizi naturali finali: salvaguardia idrogeologica e valorizzazione dei sistemi fluviali, produzione
di equilibri ambientali, conservazione della biodiversità, fruizione escursionistica, caccia e pesca, funzioni culturali
(informazioni ecomuseali), funzioni estetico-paesaggistiche ; c) base territoriale di risorse naturali e antropiche
trasmissibile alle generazioni future: il carattere intergenerazionale del demanio e degli usi civici ne determinano
il carattere “costituzionale” di autosostenibilità nella riproduzione temporale delle risorse. In: Pietro
Nervi, “La gestione patrimoniale dei demani civici fra tradizione e modernità” in G. Soccio (a cura di), Terre
collettive ed usi civici, Edizioni del Parco del Gargano, Foggia 2003.
3 “In questo spirito, invitiamo gli Enti Locali (Comuni, Province e Regioni) a salvaguardare e difendere gli usi
civici presenti nel loro territorio, garantendone in primo luogo l’inalienabilità e la proprietà collettiva, contro il
moltiplicarsi degli abusi e delle usurpazioni di interesse esclusivamente privato che oggi vi allignano e, d’intesa
con i legittimi proprietari e le comunità locali, a favorire e promuovere forme innovative di gestione associata e
cooperativa di questo patrimonio ai fini della salvaguardia e valorizzazione ambientale ed ecologica del
territorio” (appello contro la privatizzazione degli usi civici promosso dall’associazione Ecologia Politica,
1995).
4 “La Regione Toscana ha proceduto alla messa in vendita del patrimonio agricolo e forestale, attraverso la legge
9 del 29 gennaio 1997. Dopo avere reso disponibile ciò che fino a qualche anno prima faceva parte del demanio
pubblico, gli enti locali hanno fatto un inventario dei loro beni individuando quelli suscettibili di vendita. La
cultura della privatizzazione risulta ben evidente dal titolo stesso della legge dove si parla di “valorizzazione ed
alienazione”: non può esistere valorizzazione senza appropriazione da parte di soggetti privati. Con questo orizzonte
culturale, la legge ha permesso la vendita, in due successivi bandi, di circa 345 beni, comprati in parte dai
rimentali per forme collettive di ripopolamento rurale; il tema della proprietà collettiva degli
usi civici si potrebbe trasferire in forme associate e pattizie fra enti pubblici e produttori/
abitanti per la gestione delle terre.
L’azione di ripopolamento con queste caratteristiche di uso sperimentale degli usi civici e dei
beni demaniali potrebbe avere l’obiettivo di ricostrurire comunità locali consapevoli dei beni
comuni e forme comunitarie per la loro cura e gestione, attivando sinergicamente funzioni
produttive, energetiche, paesistiche, economiche, e di elevamento di qualità della vita delle
città, rivalutando il ruolo degli agricoltori quali fornitori di beni e servizi pubblici.
In questa prospettiva che, a partire dai laboratori sperimentali dei territori gravati da usi civici,
dovrebbe riconsiderare il ruolo generale degli spazi agroforestali, non è più sufficiente
considerare il territorio non edificato come bene pubblico (che lo stato, le regioni e gli enti
locali possono vendere per far cassa, come sta avvenendo per molti beni demaniali); occorre
che sia considerato come un bene comune, che non può essere venduto né essere usucapito,
alla stregua delle terre civiche storiche. Occorre pertanto ricostruire la geografia delle terre
civiche e di quelle comunitarie, da usare come laboratorio di un modello di sviluppo locale
alternativo, ecologicamente sostenibile.
Attivando queste politiche è possibile superare la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del
territorio e dei suoi beni patrimoniali, reintroducendo il concetto “terzo” di uso comune di
molte componenti territoriali: innanzitutto riconoscendone il valore di bene (o fondo) comune
dotato di autonomia rispetto ai beni privati e pubblici; e individuando forme di gestione attraverso
processi partecipativi di cittadinanza attiva che consentano di riprendere il senso (non
necessariamente la forma storica5) degli usi civici: la finalità non di profitto ma di produzione
di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e, più in generale, beni e servizi di utilità
pubblica generale; la comunità costituita da una pluralità di abitanti/produttori di una collettività
territoriale, che in qualche modo si associano per esercitare un uso collettivo dei beni patrimoniali
della società locale; questo uso, essendo collettivo, conforma le attività di ogni attore
allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio, la salvaguardia e
valorizzazione ambientale, paesistica, economica del patrimonio stesso in forme durevoli e
sostenibili (autoriproducibilità della risorsa), sviluppando forme di autogoverno responsabile
delle comunità locali.
Il problema principale di questa prospettata inversione di tendenza è infatti che non si può dare
una gestione del territorio come bene comune se esso è gestito da una sommatoria di interessi
individuali in una società individualistica di consumatori6. E’ necessario dunque che esistano
forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un
luogo, ovvero che sia agevolato un cambiamento politico-culturale (che ho denominato coconcessionari
(40%) e da soggetti stranieri (5%)”. Riccardo Bocci, La privatizzazione delle terre pubbliche in
Toscana , Relazione al Seminario:”Terra e usi civici in Italia”, Ecologiapolitica. Ricerche per l’Alternativa, in
collaborazione con la Rete del Nuovo Municipio, Terra Futura, Firenze l’8 aprile 2005.
5 “…Le comunità titolari dei diritti civici non esistono più, talora fisicamente – perché i vecchi contadini sono
morti o sono emigrati lontano, in città – talora culturalmente – perché non sanno e non sono interessati a sapere
dei diritti che pur potrebbero esercitare. La proposta che Ecologiapolitica avanza in proposito è quella di mantenere
ferma la destinazione d’uso e il vincolo di incommerciabilità dei demani civici e insieme di iniziare a ricostituire
le comunità proprietarie, associando in tutte le forme possibili i soggetti che vi hanno titolo – affidando
per esempio la coltivazione delle terre e la manutenzione dei boschi a cooperative concessionarie, garantendo
loro tutti i finanziamenti reperibili ed i servizi minimali: la casa, mediante l'acquisizione e il restauro degli abitati
abbandonati; le strade, che vanno di regola risistemate e non solo per le gite domenicali; le scuole, che vanno
riattivate, ecc., in modo che su queste terre si possa condurre una vita civile, traendone reddito ed assicurando
nel contempo una gestione conservativa dell'ambiente”. In: G. Ricoveri, relazione al seminario Terra e usi civici
in Italia, seminario Terra Futura cit.
6 “Fondamentali sarebbero, ove venisse attuato il ruolo della pianificazione paesistica, la tutela e la valorizzazione
della proprietà collettiva….sono proprio le terre collettive a evidenziare che nessun funzionamento, normativa,
azione di controllo, riuscirebbero a gestire correttamente l’uso sociale del territorio in assenza di consapevolezza
da parte dei residenti e quindi di impegno da parte delle amministrazioni comunali” Pietro Federico,
“Usi civici e ambiente” in Serafina Bueti (a cura di ) Usi civici, Grosseto, 1995.
scienza di luogo7) attraverso processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni
al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali , solidali e comunitarie8.
La coscienza di luogo si sviluppa anche come attivazione (e riattivazione) di saperi per la cura
del luogo: conoscenza densa e profonda dei valori patrimoniali dal punto di vista ambientale,
estetico, culturale, economico; capacità di distinguere le trasformazioni coerenti con la loro
tutela e valorizzazione da quelle distruttive; capacità di attivare saperi e tecniche per la loro
trasformazione (riappropriazione di saperi ambientali, territoriali, produttivi, artistici, comunicativi,
relazionali).
L’introduzione di questo terzo attore comunitario (attraverso la proprietà collettiva di beni
comuni) nella gestione e governo del territorio, favorirebbe una trasformazione politica generale,
nel senso di contenere i processi di privatizzazione e mercificazione di beni comuni e di
riattribuire all’ente pubblico territoriale il ruolo di salvaguardia dei beni stessi e della valorizzazione
del patrimonio civico; favorirebbe inoltre la ricostituzione di momenti comunitari di
gestione delle risorse favorendo la crescita di economie solidali nel campo alimentare, ambientale,
paesistico, turistico, artigianale, culturale, formativo e comunicativo.
7 Vedasi il mio: Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
8 Il processo partecipativo deve consentire di avviare processi di trasformazione di produttori alienati e atomizzati,
consumatori passivi, appendici della democrazia televisiva, in cittadinanza attiva in grado di associarsi per
la gestione e la produzione dei beni comuni, di decidere sul futuro delle città, di ricomporre le figure di produttore,
abitante e consumatore ricostruendo identità comunitarie e relazioni sociali capaci di autogoverno e di pensare
collettivamente futuro e di praticarlo.
L’homo civicus si dà in una società civile che si associa e si occupa, attraverso un patto fra individui, gruppi,
rappresentanze di interessi, della cosa pubblica.