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Sul fiume scorre l’amianto

di Riccardo Bocca - 05/11/2010



Qui non c’è la vergogna dei cassonetti ribaltati per strada. Niente tanfo di immondizia e cumuli di sacchi rotti a marcire sui marciapiedi. L’emergenza napoletana è distante anni luce dal candore friulano di Montereale Valcellina, 4.600 abitanti a una ventina di chilometri da Pordenone. Eppure questa cittadina di campagna, microcosmo pacifico a ridosso delle montagne, nasconde un cancro che non riesce a sconfiggere. Un male che appare all’improvviso costeggiando il torrente Cellina, dove cartelli arrugginiti avvertono: "Zona soggetta a interventi di bonifica: è severamente vietato oltrepassare il limite". Da lì in poi, la scena è sconcertante. Sulle sponde del torrente, tra pile di copertoni, bombolette, plastiche varie, bottiglie sbriciolate, abiti bruciati e quant’altro di rifiuti ordinari, c’è l’amianto. Così: senza protezione o sorveglianza. Anche se basta respirare una sola fibra, di questo minerale killer, per rischiare un futuro di tumori e guai alle vie respiratorie. Anche se nella zona tutti sanno, quello che è successo nel 1982: «Sono stati buttati nell’alveo, sia nel tratto di Montereale che altrove, 16 blocchi di rifiuti della ditta Sivocci», ricorda il sindaco Pieromano Anselmi. «E cosa produceva, quella piccola azienda? Guarnizioni di testa per motori: in amianto, per l’appunto...». Da allora, dice il sindaco, «la situazione è peggiorata anno dopo anno, mentre le autorità locali sono rimaste a lungo immobili. Niente è ancora stato rimosso, infatti. La salute della popolazione è a rischio e la politica non si è rivelata all’altezza, per usare un eufemismo». In primo luogo a livello regionale: «Nel febbraio 2008», spiega un funzionario, «si è preparato un intervento complessivo di recupero dei Cellina da oltre 5 milioni di euro. Ma a bloccare il tutto, pochi mesi dopo, è arrivata la sconfitta elettorale del centrosinistra: si insedia il presidente Renzo Tondo, si spera che le operazioni continuino, ma la bonifica ancora latita». Ogni giorno, da quasi due anni, la popolazione friulana aspetta novità sull’amianto del Cellina. Che non arrivano mai. Il comune di Montereale, da parte sua, ha stanziato 360 mila euro (ottenuti dalla Regione) per ripulire il proprio tratto di fiume, e l’azienda specializzata che ha vinto l’appalto si è attivata. «Ma giusto sulla carta», specificano all’ufficio tecnico municipale: «l’Asl 6 di Pordenone ha bocciato il piano di sicurezza proposto dalla ditta per la rimozione dell’amianto, e tra reciproche accuse non esiste ancora un progetto alternativo». II disastro continua, insomma. Circondato dalla preoccupazione di chi abita dalle parti del Cellina, consapevole che in Friuli gli iscritti al registro degli esposti all’amianto sono 8.400, e che dal 2000 al 2009 l’esposizione da asbesto ha causato in Regione 522 mesoteliomi (cioè tumori della pleura). Ma anche spostandosi altrove, centinaia di chilometri più a sud, e verificando la situazione accanto ad altri corsi d’acqua, il rischio amianto resta impressionante. Lo sa chi in Campania vive accanto al Volturno. O nel cuore della Basilicata, sul Basento. O ancora vicino al grande Po, nel suo segmento lombardo. «Tutti fiumi», denuncia Andrea Agapito del Wwf Italia, «dov’è stato scaricato amianto in modo delinquenziale, o anche semplicemente scriteriato». E non è una sparata ad effetto, ma l’esito di un censimento sul territorio (box a pag. 74) che testimonia come lo scarico di asbesto lungo argini ed alvei sia un’abitudine, una scelta dettata dall’impunità con cui i rifiuti pericolosi vengono gettati: «Le istituzioni devono prendere coscienza del gravissimo problema», chiede il Wwf nel documento inedito "Liberafiumi, il problema dell’amianto abbandonato". E non si tratta di individuare discariche gigantesche, di combattere la solita malavita organizzata che devasta l’ambiente con il business dei rifiuti tossici. Piuttosto, spiega il Wwf, va considerata «la miriade di depositi distribuiti per il Paese», combattendo «la leggerezza e il cinismo delle piccole aziende, ma anche di privati cittadini, che continuano ad abusare dei fiumi italiani». Gli esiti di questo malcostume si chiamano asbestosi, carcinomi polmonari, mesoteliomi bronchiali e della pleura... Patologie gravi, a volte gravissime e non di rado omicide. «Eppure c’è chi le sottovaluta», dice Paolo Fasani, presidente dell’Unione tra i comuni Albaredo Arnaboldi e Campospinoso, 1.100 persone a due passi da Pavia. Mentre parla, e racconta di operai extracomunitari che per pochi euro smantellano l’amianto a martellate, alla faccia dei buon senso e della comune sicurezza, il presidente guida lungo la sterrata che costeggia l’argine del Po: un passaggio in teoria chiuso al traffico, ma in realtà attraversata da camion, automobili e motorini. E non ci vuole troppo tempo, anzi basta un minuto, per incrociare il primo scarico abusivo di amianto. Sul ciglio della strada, davanti a un cespuglio: «Sono le famose onduline in eternit, quelle di cemento amianto un tempo usate per i tetti», spiega Fasani. Un pericolo ingestibile, su una strada dove qualcuno potrebbe anche spostarle a mano. Ma non è questo il problema di Albaredo; o almeno, non soltanto questo. Perché scendendo dall’argine verso il fiume, e calpestando il fitto reticolo della vegetazione, lo scenario peggiora. Dal niente, appena percepibile sotto le suole, spuntano metri di eternit in condizioni pessime, che ogni istante può sprigionare fibre cancerogene. Una distesa di materiale segnalata al comune di Albaredo il 2 marzo 2010, da un agente in perlustrazione. Dopodiché il materiale killer doveva essere tolto, e con la massima urgenza. Invece no. Lo stesso agente, tornato nella zona a maggio, certifica: «A tutt’oggi le lastre non sono ancora state rimosse»; anzi, «sono state quasi completamente ricoperte dall’erba». Per un ostacolo semplice ma, a quanto pare, insormontabile: «Noi dell’Unione», afferma il presidente Fasani, «riteniamo che rimuovere l’asbesto spetti all’Aipo, l’Agenzia interregionale per il Po». E appunto per questo, aggiunge, «il 2 ottobre il sindaco Francesco Preda di Albaredo ha emesso un’ordinanza affinché l’Aipo intervenga entro 45 giorni». Da parte sua, l’Aipo ribatte di avere competenze strettamente idrauliche sul fiume, quindi «tocca al Comune spostare l’amianto». Morale: tutto resta dov’è,per il momento: e pazienza per chi ci capita sopra. «La verità», spiega il Wwf, è che gli italiani scaricano «l’asbesto lungo i fiumi perché smaltirlo come si dovrebbe, contattando ditte specializzate che lo trasportino in discariche attrezzate, costa troppo: 10, 15 euro a metro quadrato, con spese che per ragioni logistiche possono lievitare all’inverosimile». Inoltre queste discariche specifiche, a livello nazionale, sono poche: come in Lombardia, dove si trova un unico impianto nonostante «l’Agenzia regionale per la protezione ambientale abbia conteggiato, sul territorio, 2 milioni 800 mila metri cubi di materiali con fibre velenose». «Sono trascorsi 18 anni da quando l’Italia, con la legge 257, ha bandito l’estrazione, l’importazione e l’utilizzo dell’amianto», sottolinea il vicepresidente di Legambiente Sebastiano Veneri, «ma sull’asbesto non c’è una cultura della salute e della legalità: né a livello industriale, in certi casi, né a livello personale». Parole ribadite dai sanitari, impegnati quotidianamente contro questo scempio. E che tornano alla mente quando, lasciandosi alle spalle Napoli e salendo nella provincia di Caserta, si costeggiano le sponde del Volturno fino a Capua. «Il fiume paga la presenza incombente dei casalesi», dice il coordinatore del Wwf Campania Giovanni La Magna: «Ti addentri nelle strade laterali e vieni fermato da personaggi che domandano chi sei, cosa vuoi e perché non te ne vai». Non conta che la zona sia inclusa in una riserva regionale, dice il Wwf, «e per giunta la protegga il regolamento europeo Sic (Siti di interesse comunitario)». L’amianto scaricato senza scrupoli, senza alcun controllo, si trova con facilità imbarazzante lungo le rive: per esempio nel comune di Cancello Arnone, dove accanto a un argine bruciato giacciono blocchi di asbesto tra televisori sfasciati, materassi lerci e teste di bufalo sgozzate. «Naturalmente», sottolinea La Magna, «nessuno denuncia: un po’ per paura, e un po’ perché nel clima di illegalità diffusa è normale smaltire il proprio amianto contaminando il fiume». Tutto diventa lecito, in altre parole, quando comanda la camorra. E i comuni, troppo spesso, stanno a guardare. Perché se è vero che a Cancello Arpone, dove le onduline d’amianto sono ammucchiate anche sotto al cartello che vieta lo scarico, il Comune giura che «al più presto sistemerà tutto, dopo le segnalazioni ricevute dai forestali », basta spostarsi nella vicina Grazzanise e lo spettacolo si ripropone simile, con il sentiero accanto al fiume costellato da lastre di amianto e immondizia putrefatta. «Uno scandalo che non scandalizza nessuno», lamentano gli ambientalisti. Una vergogna, va aggiunto, che riguarda parecchi angoli della Penisola. Prima dell’estate è toccato a Cassino, in provincia di Frosinone, fare i conti con decine di lastre in eternit affondate nel torrente Rapido. Poi è stata la volta del fiume Chiascio, in Umbria, dove le guardie ambientali hanno scoperto barre di cemento amianto. E ancora, di peggio in peggio, in Emilia Romagna le autorità segnalano i ripetuti abbandoni di amianto lungo il fiume Savio, mentre il tenente colonnello della forestale Giuseppe Vargiu, dal comune di Coriano (in provincia di Rimini) indica «l’ammasso di amianto trovato sul fiume Marano il 3 settembre». Specificando che, mentre le autorità locali venivano allertate, le piogge trascinavano parte del materiale sott’acqua». Le conseguenze di tale stillicidio, spiegano i medici, si scopriranno tra 20, 30 o anche 40 anni, perché questa è la latenza media per le malattie dell’amianto. Ma nel frattempo, mentre le morti per asbesto si susseguono nel disinteresse nazionale, è il caso di riferire ciò che sta succedendo a Ferrandina, sul fiume Basento che attraversa la Basilicata, dove l’ex fabbrica Materit produceva negli anni Ottanta lastre e canne fumarie in cemento amianto. E dove, a sentire gli operai, parte degli scarti di lavorazione erano smaltiti nelle canaline che portavano al fiume. «In quel periodo», dice il presidente dell’Aiea (Associazione italiana esposti amianto) Mario Murgia, «il sindaco di turno sosteneva che era meglio morire di cancro che di fame. Senonché i lavoratori hanno davvero iniziato ad ammalarsi, e a morire, e così pure i loro familiari». Oggi Alberico Gentile, commissario straordinario di Ferrandina, informa che «è in atto la bonifica», che in effetti «dentro la Materit ci sono ancora centinaia di sacchi pieni di amianto», e assicura che «con una spesa totale di 350 mila euro la costruzione è stata anche sigillata». Senonché, verificando sul posto, sequestrato da tempo, si trova una verità diversa: «Altro che sigillatura...», protesta il radicale Maurizio Bolognetti indicando una finestra rotta. Qualche decina di metri in là, accanto a un cartello con il teschio e la scritta "Materiale tossico, presenza di amianto", il muro di cinta è sbrecciato, abbastanza per entrare senza problemi. E anche fuori, tra il perimetro della Materit e il fiume, spuntano nel verde lastroni di asbesto abbandonati lì, a contatto con tutto e tutti: anche con le pecore che pascolano, e dribblano i piezometri che dovrebbero misurare il tasso dell’inquinamento sotterraneo, e invece sono coperti di ruggine, senza i lucchetti di sicurezza sui coperchi, paradossalmente appetibili per chi volesse sversare sostanze tossiche. «L’avvelenamento ambientale», rimarca il deputato radicale Elisabetta Zamparutti, eletto nel Pd e membro della Commissione ambiente, «è frutto di quello politico». E la prova è nei fatti, aggiunge: «Sul caso Materit ho presentato decine di interrogazioni parlamentari, e nessuno mi ha mai risposto...».