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In Medio Oriente, l’unica politica è quella di Dio

di Anthony Shadid - 08/11/2010



Questo mese, Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha pronunciato una frase che ha attirato ben poco l’attenzione in mezzo alle sue digressioni stentoree, ma che dice molto sulla politica oggi per israeliani, palestinesi, e per il mondo arabo più in generale.

Davanti alle decine di migliaia di sostenitori che si erano riuniti qui per dare il benvenuto al Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, Nasrallah ha dichiarato che la Repubblica islamica dell’Iran “sostiene i NO che gli arabi hanno affermato al tempo dello scomparso Presidente Gamal Abdel Nasser a Khartoum, prima che molti cambiassero idea. L’Iran reitera questi NO al fianco della nazione araba”.
I “NO” in questione si riferiscono a un drammatico vertice arabo tenutosi in Sudan nel 1967, quando, a seguito della schiacciante sconfitta inflitta da Israele agli Stati vicini, i Paesi arabi decisero di dire NO alla pace con Israele, NO ai negoziati con gli israeliani, e NO al riconoscimento dello Stato ebraico. Il presidente egiziano Nasser era il portabandiera di un nazionalismo laico, al cui peso quella guerra aveva messo fine; oggi l’Iran, per scelta o per default, è il discendente di una generazione di politiche di opposizione che solo ora portano un marchio religioso indelebile.

In una regione un tempo sconvolta da un pot-pourrì di ideologie – dai maoisti irriducibili ai millenaristi salafiti – non  è rimasto nessuno se non i movimenti islamici, dai Fratelli musulmani in Egitto ad Hamas nei territori palestinesi, fino a Hezbollah, forse il più straordinario. Che si tratti dell’opposizione a Israele, ai regimi arabi autocratici, o alla pletora di ingiustizie inflitte agli arabi, gli islamici sono gli unici che hanno  un messaggio ampiamente popolare e un seguito fervente, con una o due eccezioni momentanee.

Il loro ascendente  non è cosa nuova: da una generazione hanno eclissato i loro predecessori laici e di sinistra, spesso agendo (e a volte parlando) proprio come loro. Ma il retaggio del monopolio che hanno di fatto sull’opposizione sta diventando sempre più netto. Hanno reinterpretato i conflitti – tra arabi e israeliani, Oriente e Occidente – e hanno evidenziato il livello di cambiamento della stessa idea di identità nel mondo arabo al punto tale che il termine “arabo” potrebbe presto diventare superato per definire quel mondo. E con una politica priva di ideologia oltre la fede, hanno ridotto le possibilità di cambiamento in una regione in cui gli abitanti ne desiderano disperatamente uno.

Questi movimenti spesso trasudano un astuto pragmatismo. In Turchia, Egitto, Libano, e nei territori palestinesi gli islamici hanno tutti raccolto successi elettorali; col tempo potrebbero anche rafforzare una nazione democratica. Ma sui problemi che vanno dalla povertà alla Palestina hanno imposto un paradigma di moralità, etica, e assolutismo occasionale che tende a trascurare i problemi più urgenti della società o a trasformarli in continue litanie.

Questo è un motivo notevole per cui tra i riformatori, provocatori, e critici al di fuori della loro orbita oggi va di moda il pessimismo. “Le politiche religiose o la religioni politicizzata hanno preso il controllo”, dice Fawwaz Traboulsi , storico, editorialista, e attivista di sinistra di vecchia data libanese. Quando gli si chiede se lì ci sia un qualche esempio contrario – oltre le frange idealiste e gli idealisti intransigenti – scuote la testa.

“No”, dice, “non credo che ci sia”.

L’American University di Beirut ospita una collezione di centinaia di poster che risalgono a un’epoca che era violenta e turbolenta ma che per molti nella regione era maggiormente in grado di dare speranze riguardo alla possibilità di  trovare soluzioni ai profondi problemi della regione. Sono eclettici, dall’agit-prop dei gruppi laici palestinesi alle promesse inebrianti dei partner libanesi decisi ad abolire il sistema vagamente feudale del Paese una generazione fa.

Molti sono impregnati dell’iconografia dei movimenti di liberazione del terzo mondo dell’epoca (leggi: numerose immagini di Kalashnikov).  I tagli dei capelli datano le foto, lo stesso vale per i termini (“ Lotta armata” anziché “jihad”, preferito oggi). Ma catturano un idealismo fervente.  Per l’Occidente poteva essere l’epoca del massacro di Monaco, dei dirottamenti, e dell’ascesa  dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat, ma per molti arabi era un periodo pieno di promesse di un cambiamento reale, in cui il movimento palestinese aveva catturato l’immaginazione araba a un livello ineguagliato prima di allora o da allora in poi.

“Attraverso la rivoluzione si arriva alla liberazione delle donne”, recita uno dei poster. “La Palestina è per le persone… qualunque sia la loro religione”, recita un altro.  Altri slogan pubblicizzano l’OLP come “l’unico rappresentante legittimo del popolo palestinese”, un malinconico artefatto date le divisioni di oggi tra Hamas, veementemente religioso, e  una superstite Autorità Nazionale Palestinese, teoricamente laica, che è impegnata in modo discontinuo in trattative  poco promettenti con Israele.  Un poster libanese cita la promessa di un leader del passato: “ La nuova leadership che è in grado di costruire un vero Libano non è né una leadership islamica né cristiana ma piuttosto  una leadership nazionale”.

Gli slogan sono più che nostalgia: illustrano in maniera commovente quello di cui in effetti non si discute più – i diritti delle donne, la cittadinanza laica che superi le identità più primordiali di oggi (musulmani sunniti, musulmani sciiti, cristiani, e così via), e l’enorme divario tra ricchi e poveri. Per molti movimenti islamici, lo Stato sociale è un problema di beneficenza e di magnanimità, non riguarda la ristrutturazione della società.

“Radicale” è una parola che i giornalisti spesso mettono in campo. Lo stesso vale per “militante”. Sono termini convenzionali, e, come tali, fanno ben poco per descrivere quello che rappresenta davvero oggi l’opposizione islamica.

“Sono radicali solo nel senso che rifiutano l’egemonia israeliana nella regione”, dice Karim Makdisi, professore all’American University di Beirut. In effetti, Hezbollah ha messo da parte molto tempo fa l’imposizione del conservatorismo sociale in Libano per unificare il suo elettorato non omogeneo. Mentre 25 anni fa chiedeva uno Stato islamico sul modello dell’Iran, ora è parte salda dell’ordine confessionale prevalente. Così come i Fratelli Musulmani in Egitto e il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo  in Turchia, Hezbollah contribuisce a rappresentare una classe media in ascesa. “ Non sono assolutamente contro lo Stato”, dice Elias Khoury, scrittore e critico libanese. “L’unica cosa è che vogliono dominarlo a modo loro”.

Il loro maggiore retaggio potrebbe essere sul conflitto israelo-palestinese, in cui sia Israele che i suoi oppositori islamici si sono inesorabilmente allontanati da una lotta tra nazionalismi in competizione verso uno scontro tra religioni storico – più messianico, più basato sulle identità quali musulmani ed ebrei, e , in questo, più pericoloso. L’aver portato il sacro all’interno del dibattito  rende il compromesso completamente più difficile. Fondamentalismo ebraico contro fondamentalismo islamico, lo chiama Khoury: “É il segnale di una catastrofe, e questa è la situazione in cui ci troviamo ora”.

A Shatila, un campo profughi palestinese in Libano dove miliziani cristiani massacrarono centinaia e forse anche di più dopo che i combattenti palestinesi si erano ritirati nel 1982, c’è ancora l’iconografia di un’epoca passata. Ma i poster di Arafat e le massime del suo movimento, Fatah, sono sbiaditi. Persino le immagini sembrano obsolete; le montature degli occhiali sono spesse e fuori moda. “La nazione di Maometto”, recitano adesso gli slogan.

Si snodano lungo la stradina, oltre i bambini palestinesi che giocano nelle discariche privi di quasi ogni speranza di tornare nella terra dei loro antenati, oltre i fili elettrici intricati che formano una ragnatela e che in quanto a malfunzionamento fanno a gara con quelli di Baghdad, oltre il tanfo rivelatore dei liquami. “Il martirio è vita”, recita un poster. “Jihad fino alla vittoria o martirio”, aggiunge un altro.

Nella sua drogheria, Ghassan Abdel-Hadi, padre di quattro figli, siede con alcuni parenti pochi giorni dopo la visita di Ahmadinejad. In fondo alla via c’è stata una denuncia dell’Autorità Palestinese, accusata di essere dei “lacchè americani”. Un commerciante elogia Hezbollah per aver pagato l’operazione di suo padre. Lo stesso Abdel-Hadi non è un ideologo . Nutre garbatamente delle speranze anche se, in modo pragmatico, teme il peggio.

“Quando nessuno ti sostiene, devi fare affidamento su Dio”, dice il negoziante. “Riponi la tua fiducia in lui e vai avanti per affrontare quello che ti aspetta”.

(Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq)

The New York Times