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Forti ruggiti al di la' del Bosforo

di Roberto Zavaglia - 13/11/2010

La visita a Roma di martedì scorso del ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha confermato che i rapporti italo-turchi attraversano un’ottima fase. L’Italia è il quarto partner economico del Paese anatolico (800 nostre aziende vi operano) anche se nel corso dello scorso anno si è verificato un calo dell’interscambio. E’ forse a causa del clima di cordialità dell’incontro che il ministro degli esteri Franco Frattini si è spinto a dichiarare al suo interlocutore che “il processo di adesione della Turchia all’Unione Europea è irreversibile”.  Pur se in linea con la posizione del nostro governo, questa affermazione è una “cortese bugia”. I negoziati si trovano in una situazione di stallo e, in Europa, non sono in molti a battersi per l’entrata di Ankara nel club europeo.

  Pure in Turchia la classe dirigente non si fa, ormai da qualche anno, soverchie illusioni e, in qualche modo, ha fatto di necessità virtù. Il cambiamento della politica estera del Paese è stato determinato anche dalla consapevolezza che l’ingresso nella Ue, se mai avverrà, non è cosa del domani né del prossimo futuro. Proprio Davutoglu, l’uomo forse di maggior peso del governo di Recep Erdogan, da studioso di relazioni internazionali qual è, aveva indicato, nel suo libro “Profondità strategica” del 2001, le linee della nuova politica estera “post-kemalista”. Partendo dalla considerazione che il ruolo della Turchia, oggi, non può più essere limitato a bastione dell’Occidente in partibus infidelium, il libro selezionava otto aree di interesse strategico, in funzione di un’azione politica e diplomatica semiglobale.  Sintetizzando, è verso due macroregioni che la Turchia ha diretto la propria attenzione negli ultimi anni: i nuovi Stati turcofoni nati dalla dissoluzione dell’Urss e il Medio Oriente.

  In Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan, e Khirghizistan la popolazione è in maggioranza di etnia turca ed è naturale che Ankara abbia pensato di praticarvi una sorta di egemonia. Questo obiettivo è almeno in parte fallito già nel 1992, quando è venuto meno il progetto di una parziale integrazione politica, anche a causa dell’ostilità dei capi di quegli  Stati che spesso sono despoti avidi e imprevedibili. L’area del Mar Caspio e dell’Asia centrale, così ricca di idrocarburi, è un boccone troppo grande perché la Turchia possa fare prevalere la propria influenza a dispetto dei tentativi di “avanzata” degli Usa, rintuzzati poi da Putin che ha ripreso in mano le sorti di gran parte dell’ “estero vicino” della Russia. La Turchia rimane comunque uno dei protagonisti della partita anche perché il suo territorio è cruciale per il trasporto del gas e del petrolio estratti in quella regione.

  E’ però in Medio Oriente che si sono prodotte le novità più sorprendenti. Da unico Paese islamico alleato, anche militarmente, di Israele, la Turchia si è trasformata in uno dei suoi più decisi avversari. Ciò è avvenuto in seguito ad alcuni accadimenti che hanno accelerato le decisioni strategiche di Ankara. Si ricorderà come nel gennaio del 2009, in un convegno a Davos, Erdogan avesse reso manifesto in modo clamoroso il malcontento del suo Paese per la sanguinosa invasione di Gaza. L’assalto alla Navi Marmara da parte dei soldati israeliani, in cui morirono nove cittadini turchi, ha poi causato uno shock che non sarà presto dimenticato. Agli occhi di molti palestinesi Erdogan è diventato il più credibile paladino della loro causa e il primo ministro non fa nulla per smentire questa tesi.

  Il sostegno alla causa palestinese rientra anche nella strategia di seduzione del Medio Oriente, in un’ottica neo-ottomana rivolta a rafforzare i rapporti con i Paesi della regione. Non sentendosi più vincolata all’obbedienza occidentalista, Ankara dialoga e fa affari anche con Stati, come Siria ed Iran, osteggiati da Washington e dai suoi alleati più fedeli.  Un certo clamore ha suscitato il tentativo, condotto insieme al Brasile, di mediare sulla questione del nucleare iraniano che ha provocato non pochi malumori oltre Atlantico. Con Teheran, come del resto con la Russia, i legami sono stati intensificati senza però costituire un’alleanza organica, essendovi anche motivi di rivalità politica. Di stabile c’è la volontà di esercitare il proprio influsso soprattutto nei Paesi un tempo sotto la sovranità della Sublime Porta.   

  I governi guidati da Erdogan, in carica dal 2002, hanno aperto il Paese agli investimenti della finanza islamica e ai capitali provenienti dal Golfo Persico.  E’ anche in questo modo che si spiega il miracolo economico turco. Nel primo trimestre di quest’anno l’economia del Paese è cresciuta dell’11%, superata solo da quella cinese; dal 2000 al 2008 il pil è triplicato. Rispetto all’Europa, quella turca è la settima economia ed è la sedicesima nel mondo. Secondo alcune previsioni, per quel che valgono questi calcoli azzardati, la Turchia arriverà, nel 2050, ad occupare, rispettivamente, la terza e la nona posizione. E’ ovvio che senza questi risultati, Ankara non potrebbe pensare in grande in politica estera. Va comunque dato atto a Erdogan di avere saputo conciliare le tendenza islamica del suo partito Akp con la modernizzazione e la crescita.

  Il Paese, però, appare polarizzato dallo scontro politico tra il partito religioso (moderato) e i suoi oppositori, appartenenti soprattutto alla borghesia media e grande, che accusano il governo di procedere a una islamizzazione mascherata della politica e della società. Un punto importante a favore di Erdogan è stato la vittoria nel referendum costituzionale del 12 settembre con cui sono state sancite alcune norme, per la magistratura e le forze armate, che sarebbero ovvie in qualsiasi Paese europeo. In Turchia, però, i “progressisti”, fedeli alla lezione di Kemal Ataturk, sono dalla parte dell’esercito che è più volte intervenuto con le armi nella vita politica e, anche recentemente, è stato accusato di tramare contro il governo. La lotta tra due poli è ancora aspra, ma le prospettive per le elezioni del prossimo maggio sono decisamente positive per l’Akp.

  A Washington la domanda che ci si ripete è: abbiamo perso la Turchia? Ankara rimane nella Nato, ma si è permessa, nel 2003, di negare il passaggio sul suo territorio alle truppe Usa che stavano per invadere l’Iraq. Erdogan e i suoi non sembrano coltivare alcun disegno pregiudizialmente anti-occidentale, ma capiscono che è arrivato il momento delle mani libere. Il parziale declino degli Usa di questi ultimi anni, dopo la dissoluzione dell’Urss, ha reso non solo inutile ma anche dannosa la funzione di gendarme occidentale nella regione. La contrapposizione con Israele potrebbe causare un inasprimento dei rapporti tra Ankara e Washington: le lobby Usa favorevoli allo Stato ebraico  già lavorano a questo fine. Perché la situazione non precipiti, Obama o il suo eventuale successore dovranno avere chiaro che le potenze emergenti come la Turchia non accettano più diktat.