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La contestazione dello sviluppo

di Gianfranco Bottazzi - 15/11/2010

 

decrescita-gioconda

 

 

 

 

 

La Grande Crisi, come era prevedibile, ha comportato un’attenzione nuova nei confronti di pensieri, pratiche e teorie – anche molto radicali – che criticano il modello di sviluppo economico dominante, fino alle teorie della decrescita.

A chi vuole trovare una via d’uscita alla dittatura malata del PIL e della finanza impazzita offriamo una panoramica molto dettagliata del pensiero che si cimenta con i capisaldi più urgenti dell’Alternativa.

Pubblichiamo qui un corposo capitolo di un manuale scritto dal sociologo ed economista Gianfranco Bottazzi, autore di Sviluppo e sottosviluppo. Idee, teorie, speranze e delusioni (Aisara, 2007).

Buona lettura.

 

 

Quand on aura allégé le plus possible les servitudes inutiles, évité les malheurs non nécessaires, il restera toujours, pour tenir en haleine les vertus héröiques de l’homme, la longue série des maux véritables, la mort, la vieillesse, les maladies non guérissables, l’amour non partagé, l’amitié rejetée ou trahie…

Marguerite Yourcenar, Mémoires d’Hadrien.

1. Dallo «sviluppo alternativo» alla «alternativa allo sviluppo»

La consapevolezza e le preoccupazioni per i limiti ambientali hanno giocato un ruolo assolutamente centrale nel riposizionare le tematiche dello sviluppo sia a livello teorico che pratico.

Questo riposizionamento ha avuto come risultato due grandi opzioni, in linea di principio contrapposte ma con ampi margini di sovrapposizione: quella di un altro sviluppo, di uno sviluppo alternativo che ponga su basi del tutto nuove le pratiche (le politiche) dello sviluppo all’interno di un quadro politico, sociale ed economico che si ritiene modificabile; e quello di un dopo-sviluppo, di un’alternativa allo sviluppo che esca totalmente dalla logica stessa dello sviluppo, del dominio del capitalismo e del mercato come meccanismo di regolazione principale.

Nel primo caso, il problema diventa quello di qualificare il termine “sviluppo” con aggettivi (e con prefissi o suffissi) che garantiscano uno sviluppo “vero” per tutti: il primo aggettivo è indubbiamente “sostenibile”, ma analogamente si avrà uno sviluppo endogeno, equo, solidale, comunitario, umano, di genere, un etnosviluppo, uno sviluppo locale, eccetera.

Nel secondo caso, si considera terminata l’esperienza storica dello sviluppo, così come l’epoca ininterrotta della “crescita” economica, e si cercano teorie, percorsi, pratiche per una “decrescita” che si presenta esattamente come l’opposto dello sviluppo.

Bisogna tuttavia precisare che non siamo in presenza di un chiaro svolgersi di “teorie” più o meno compiute, né è possibile alcuno schema cronologico che mostri l’evolversi da una posizione ad un’altra.

Anche per questo ogni sforzo di classificazione contiene inevitabili forzature e schematismi.

L’avvento di Internet ha soppiantato la letteratura “grigia” del passato, elaborazioni ed esperienze cominciano a circolare prima ancora di essere definite, siti e reti si moltiplicano, e si può certamente affermare che un grande dibattito è in corso “dal basso” – soprattutto e prevalentemente nel Nord del mondo, senza che emergano teorie compiute e onnicomprensive.

Questa frammentazione del dibattito può essere vista come una tipica manifestazione post-moderna di moltiplicazione dei discorsi e delle culture, contrapposta all’universalismo-assolutismo della modernità (Lee, 1994).

Secondo altre interpretazioni si tratta invece di una reazione alla fine delle grandi ideologie e alla conseguente ricerca, attraverso la sperimentazione di nuove pratiche sociali, di un percorso che si opponga al “pensiero unico” del capitalismo globale (Latouche, 1993; Perna, 1998).

Un secondo piano da introdurre nella tassonomia del discorso sullo sviluppo oggi è quello della distinzione tra due aree.

La prima è una corrente dominante di pensiero, una mainstream che persiste e che, seppure appaia talvolta indebolita e in difficoltà, mantiene una sua prevalenza ed esercita una profonda influenza; è quella che si vede operare a livello dei centri accademici più influenti, delle istituzioni internazionali (del Fondo Monetario e della Banca Mondiale in primo luogo), ma anche dei governi e delle politiche economiche.

Qui continuano a prevalere i ragionamenti in termini di PIL, di contabilità nazionale, di sistema monetario, di ragioni di scambio, di modelli di sviluppo, eccetera.

Dall’altra parte troviamo la galassia “alternativa” dell’altro sviluppo o della decrescita. Periodicamente, la mainstream si lascia molto parzialmente contaminare da qualche esperienza che matura nella galassia alternativa, ma la reciproca alterità rimane la caratteristica dominante delle due aree.

Nella figura 1 cerchiamo di rendere la complessità delle posizioni, le sovrapposizioni, gli intrecci.

Figura 1 – Teorie mainstream, altro-sviluppo e dopo-sviluppo

alternatsvil

Proprio per la fluidità e per la mutabilità che caratterizza gli approcci pratici e teorici dell’altro-sviluppo (e del dopo-sviluppo) non è semplice una descrizione esaustiva. Si può tuttavia cominciare da un tratto che era stato messo in evidenza dall’approccio della self-reliance e che appare largamente comune a tutta la filosofia – possibilista o antagonista – di contestazione dello sviluppo: quello della partecipazione dal basso e del coinvolgimento attivo delle persone, della popolazione, nei processi che vogliano essere effettivamente di sviluppo.

C’è una storia lunga, che viene da lontano e che periodicamente sembra riaffiorare con rinnovata presa, dell’idea di partecipazione e di comunità. Per quanto perdenti nell’evoluzione delle idee politiche, il socialismo utopistico o romantico dell’Ottocento (da Owen a Fourier, da Proudhon a Carlyle), il pensiero anarchico e libertario (da Kropotkin a Bakunin a Malatesta) e, se si vuole andare ancora più indietro nel tempo, i vari movimenti cristiani millenaristici o riformatori, più o meno eretici, rappresentano piante mai del tutto seccate che ogni tanto riprendono a dare frutti.

Nel dopoguerra, Gandhi e la sua idea di un cambiamento del mondo che deve iniziare dall’individuo e dalle sue scelte e comportamenti ha avuto risonanza anche fuori dall’India. E nello stesso solco vanno considerati i lavori di Paulo Freire, Ivan Illich, Albert Tevoedjiré, tra gli altri[1].

Ma, nell’epoca dei grandi progetti infrastrutturali e delle politiche macroeconomiche, le organizzazioni internazionali per lo sviluppo e gli economisti che ne orientavano l’azione guardavano alla partecipazione e alla comunità con un marcato scetticismo (cosa che per gran parte degli economisti perdura tuttora), anche per l’influenza di quegli autori, come Olson e Hardin, ad esempio, che spiegavano come l’individuo razionale non fosse portato alla cooperazione (all’azione collettiva) se non costretto in qualche modo[2].

Tuttavia, man mano che cresceva la consapevolezza che i grandi progetti (nel campo della scuola, della salute, dell’irrigazione, eccetera), condotti su larga scala dai governi o da agenzie centrali governative, davano risultati insoddisfacenti, molto inferiori alle attese e alle risorse investite, e che le risorse collettive – soprattutto quelle ambientali – si degradavano rapidamente, la gestione locale delle risorse e delle decisioni e il coinvolgimento degli attori riprese progressivamente interesse.

Nel quadro delle critiche ai modelli di intervento per lo sviluppo sino ad allora seguiti, lo sviluppo “partecipato” diventa un vero e proprio movimento (Chambers, 1983; Cernea, 1985) e si moltiplicano le ricerche che richiamano l’attenzione sui casi di successo di progetti condotti a scala locale (Khrisna, Uphoff e Esman, 1997), soprattutto in ambito rurale. Secondo questo movimento di opinione, lo sviluppo “dall’alto” (top-down) appariva inefficace perché deresponsabilizzante mentre, dall’altro lato, i progetti di sviluppo su piccola scala, comunitaria, con ampia partecipazione (bottom-up), sembravano permettere ai più poveri di essere protagonisti informati dello sviluppo.

L’esperienza di ricerca condotta sul campo dagli antropologi già prima della seconda guerra mondiale, basata soprattutto sulla osservazione partecipata (nella quale il ricercatore cercava di “immergersi” totalmente nella comunità che studiava per osservarla “dal di dentro”), costituirà il modello per una pluralità di metodi e tecniche di intervento “partecipato” messi a punto a partire dall’agricoltura. L’IISD (International Institute for Sustainable Development), una organizzazione non governativa canadese, è oggi una delle principali sedi di teorizzazione di queste tecniche partecipatorie.

E distingue tra diverse di queste tecniche, a seconda dell’obiettivo e dell’ampiezza dell’intervento[3].

La più nota e diffusa è il PRA (Participatory Rural Appraisal), i cui concetti principali, che richiamiamo a titolo di esempio, sono:

"- Enpowerment: la conoscenza è potere. La conoscenza nasce dal processo e dai risultati della ricerca che, attraverso la partecipazione, giunge ad essere condivisa e padroneggiata dalla popolazione locale. Così si rompe il monopolio professionale dell’informazione. Si genera o si rinforza una nuova fiducia locale sulla validità della loro conoscenza. La conoscenza “esterna” può essere localmente assimilata.

- Rispetto: il processo di Pra trasforma i ricercatori in apprendisti e ascoltatori, rispettando le potenzialità intellettuali e analitiche locali. I ricercatori devono apprendere un nuovo “stile”. I ricercatori devono evitare a ogni costo un atteggiamento di condiscendente sorpresa quando gli abitanti del luogo sono così bravi da fare le ordinazioni al bar! La scuola PRA del «ooh-aah» lavora contro gli stessi principi dell’empowerment e indica una ingenuità di facciata da parte dei ricercatori. Una buona regola pratica è che quando puoi veramente capire le barzellette locali, le poesie e le canzoni, allora puoi pensare che stai cominciando a capire la cultura locale.

- Localizzazione: l’uso estensivo e creativo delle rappresentazioni e dei materiali locali incoraggia la condivisione visiva e evita l’imposizione di convenzioni rappresentative esterne.

- Piacevolezza: il Pra ben fatto è, e dovrebbe essere, gioia. L’enfasi non è tanto sul “rapidamente”, ma sul processo.

- Inclusività: maggiore sensibilità, con l’attenzione al processo; include gruppi marginali e vulnerabili, donne, bambini, anziani e esclusi di ogni genere."[4]

Lo sviluppo “partecipato” diventa così il leitmotiv dell’assistenza allo sviluppo anche per le organizzazioni internazionali, a partire dalla Banca Mondiale.

Lo “sviluppo basato sulla comunità” (community-based development) e la sua variante ancora più “partecipata”, ossia lo “sviluppo guidato dalla comunità” (community-driven development)[5] sono sempre più gli strumenti scelti per pilotare l’assistenza allo sviluppo. Secondo Mansouri e Rao (2004), calcoli per difetto confermano che l’impegno della Banca Mondiale per progetti condotti con queste metodologie di intervento è cresciuto dai 325 milioni di dollari del 1996 ai 2 miliardi del 2003 (e dai 3 miliardi del 1996 ai 7 miliardi del 2003 se si considerano anche progetti di miglioramento dell’ambiente).

Nella strategia di riduzione della povertà della Banca Mondiale lo “sviluppo guidato dalla comunità è un meccanismo per accrescere la sostenibilità, migliorare l’efficienza e l’efficacia, permettere agli sforzi per ridurre la povertà di avere successo, rendere lo sviluppo più inclusivo, dare potere ai più poveri, costruire capitale sociale, rafforzare la governance, fare da complemento alle attività private e pubbliche”.

Dallo “sviluppo basato sulla comunità” ci si aspetta molto: ha l’esplicito obiettivo di rovesciare le relazioni di potere in modo da “dare voce ai poveri, permettendo loro di avere più controllo sulla assistenza allo sviluppo”. La destinazione dei fondi ai vari progetti di sviluppo dovrebbe così meglio rispondere alle necessità dei poveri; dovrebbe “migliorare i risultati dei programmi per la povertà, rendere i governi locali più reattivi, migliorare la fornitura di beni e servizi pubblici, e rafforzare le capacità dei cittadini di intraprendere attività di sviluppo auto-avviate” (Mansouri e Rao, 2004).

Una variante del modello dello “sviluppo basato sulla comunità” è il cosiddetto “etnosviluppo”, anch’esso assunto dalla Banca Mondiale tra le strategie per il nuovo millennio. Rodolfo Stavenhagen (1990) è stato lo studioso più citato per aver attirato l’attenzione alle questioni etniche nei processi di sviluppo. Secondo questo autore, la questione etnica è stata trascurata poiché, nell’espansione coloniale dell’Europa, la componente razzista è stata fortemente presente e perdurante anche dopo la fine del colonialismo, per cui culture e gruppi etnici, con propri valori e specifiche istituzioni sociali, sono considerati solamente nell’ottica di quanto siano più o meno adatti, più o meno disposti e capaci di realizzare il “compito del secolo”, ossia la crescita economica.

Per quanto i concetti di nazione, etnia, Stato-nazione siano di difficile precisazione, continua Stavenhagen, sono pur sempre di grande importanza poiché sono stati una delle grandi forze ideologiche della storia. In molti paesi del Terzo Mondo, lo sviluppo è, prima di tutto, una questione di integrazione nazionale, ma se il nazionalismo può essere una forza rivoluzionaria per lo sviluppo (come per le lotte di liberazione nazionale), esso può anche essere una forza distruttiva nei confronti dei gruppi etnici minoritari sparsi per il mondo. Infatti, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, il nuovo Stato costruito con l’indipendenza è plurietnico, i conflitti e le lacerazioni su base etnica sono una costante e spesso le linee dell’esclusione e della povertà passano proprio attraverso le discriminazioni etniche.

Occorre certamente puntare al rispetto delle identità culturali ma questo non può essere solo un diritto passivo. È necessario un diritto “attivo”, ossia la garanzia di un processo che garantisca anche la pacifica evoluzione di ogni etnia, un “etnosviluppo” appunto, che è il contrario di etnocidio e di etnocrazia.

La Banca Mondiale ha introdotto l’etnicità tra i fattori che possono essere considerati come fattori causali o come componenti della povertà (Van den Berg, 2003). Il problema si è posto, all’origine, quando la Banca Mondiale ha finanziato progetti per la protezione delle foreste pluviali (Amazzonia, Africa centrale e Australia). Questi progetti avevano evidenti effetti sui popoli indigeni, peraltro piccoli e isolati, che le popolavano e dunque fu introdotta la preoccupazione di salvaguardare le identità etniche e gli stili di vita economici. In seguito il concetto di etnia si allarga notevolmente, senza comunque mai perdere la sostanziale indeterminatezza quanto a ciò che possa definirsi un “gruppo etnico”.

Ma l’etnicità, per la Banca Mondiale, non è stata inserita nei suoi programmi solo perché, appunto, spesso collegata a situazioni di povertà o di esclusione, ma perché essa è vista come “una fonte localmente disponibile di capitale sociale”. Come si vedrà, il “capitale sociale” è il nuovo mainstream delle politiche di sviluppo e, su questo, la Banca Mondiale è diventata uno dei principali luoghi di elaborazione del concetto. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, l’etnosviluppo è una mera componente di progetti di sviluppo che hanno anche altri “aggettivi” (ambientale, umano, sociale, eccetera).

Al successo della “partecipazione” come strategia di azione concorrono anche contributi teorici di rilievo, come quello di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, che – in ideale collegamento con quei “pionieri” eterodossi, come Perroux, Hirschman[6], e molti degli studiosi dei “bisogni essenziali” e della self-reliance, da Seers a Galtung, eccetera – sposta l’asse dello sviluppo dal benessere materiale a una più larga nozione di “possibilità di fare” (capability), per la quale l’azione collettiva, la partecipazione nella/alla comunità e il maggior “potere” che ne deriva è fondamentale. Empowerment, “la possibilità di avere maggior controllo-potere sulla propria vita”[7], diventa uno dei termini più usati per tutte le strategie di sviluppo e per tutti i programmi di azione nel Terzo Mondo, che si tratti di progetti di irrigazione, di costruzione di scuole e ospedali; o, in Occidente, di programmi per le fasce deboli del mercato del lavoro o per recuperare tossicodipendenti e ex-carcerati, eccetera.

D’altra parte, gli anni Ottanta vedono anche nei paesi sviluppati dell’Occidente un crescente interesse per la dimensione locale, per quello che sarà l’approccio delle politiche per lo “sviluppo locale”, nel quale la partecipazione, il “partenariato”, è una delle condizioni che normalmente vengono prioritariamente evocate [8].

Enpowerment diventa così un concetto e un obiettivo assunto centralmente anche nei programmi ufficiali di azione della Banca Mondiale. Nel World Development Report del 2001, dal significativo sottotitolo Attacking Poverty, lo sviluppo partecipato, l’empowerment, la promozione della partecipazione attraverso istituzioni che organizzino i poveri “per costruire le loro capabilities per agire collettivamente nei loro propri interessi”, diventano gli assi sui quali si articola la strategia della Banca Mondiale, per i programmi di assistenza su vasta scala, nei fondi di investimento sociale e nelle altre forme di intervento.

Ciò che richiama l’attenzione è, come osservano Mansouri e Rao (2004), che un movimento che si era originato su basi ci contrapposizione (con obiettivi rivoluzionari, anticoloniali e antimodernizzazione) alle pratiche dello sviluppo messe a punto dalle teorie e dalle strategie politiche dominanti ha finito per essere assorbito da questa stessa mainstream e canonizzato come strategia “ortodossa”.

Questo fatto dà luogo a una delle peraltro numerose critiche che vengono mosse alle varie tecniche di sviluppo partecipato[9]: nel momento in cui la partecipazione viene formalizzata in un modello di intervento, “proceduralizzata” nei passaggi e nei tempi, si trasforma in una gabbia che può rendere l’empowerment e la capability, la “voce” degli attori locali, solo apparenti. Inoltre, il “mito della comunità”[10], tende a trascurare l’esistenza di conflitti all’interno del contesto locale oggetto dell’intervento, mentre l’analogo “mito” della democrazia diretta e della prevalenza del locale su ogni altra dimensione rischia di delegittimare e indebolire le spesso già poco credibili e deboli istituzioni politiche e statuali dei paesi del Terzo Mondo.