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Ritiriamoci dai mondiali

di Massimo Fini - 22/05/2006

 

Ridateci un’Italia più onesta  
 
Io non penso che Marcello Lippi debba dimettersi da Commissario tecnico della Nazionale italiana, come han chiesto "il Manifesto", "il Riformista" e altri giornali. Credo invece che la nostra Nazionale dovrebbe ritirare la propria partecipazione dai prossimi Campionati del mondo. Non perché vi sia in qualche modo obbligata moralmente e nemmeno perché lo scandalo potrebbe influire sul rendimento dei nostri giocatori facendoci fare una brutta figura anche sul campo.
Il contraccolpo psicologico potrebbe essere addirittura positivo, come accadde nel 1982 quando vincemmo grazie alla rabbia agonistica e alla voglia di riscatto del nostro centravanti, Paolo Rossi, che rientrava dopo due anni di squalifica per lo scandalo delle scommesse.

Un ritiro così clamoroso e choccante da quello che è unanimemente considerato il più importante avvenimento sportivo, potrebbe essere un utile "auto da fè" per il popolo italiano, un'occasione per ripensarci, per meditare su che cos'è diventato in questi ultimi decenni, nel suo complesso, e non solo e non tanto nel mondo del calcio che è semplicemente un aspetto e una metafora del nostro attuale costume nazionale. Perché, come ho già scritto, questo Paese è marcio, marcio fino al midollo. E con ciò non mi riferisco solo alla corruzione, che permea di sè ogni ambiente sociale, ma alla perdita, in nome dell'adorazione di un unico Dio, il "Dio Quattrino", di alcune delle qualità che hanno da sempre caratterizzato il popolo italiano: la gentilezza, il garbo, la generosità, l'umanità, che ne compensavano gli altrettanto notori difetti. Siamo diventati un popolo di una volgarità (la volgarità cinico-romanesca che emerge dalle intercettazioni telefoniche di Moggi) e di una grettezza che non ha pari.

L'altro giorno sono arrivato un po' in affanno alla stazione di Bologna. Sul primo binario c'era un Eurostar in partenza. Ma non sapevo se era il mio. Ho visto un uomo sulla quarantina, elegantemente vestito, che stava riponendo nella sua borsa da viaggio di pelle "Il Sole 24 Ore" e "La Repubblica", un tipico rappresentante della upper class, che saliva in vettura e gli ho chiesto: "Mi scusi, è questo il treno che va a Milano?"; "Non sono un ferroviere. Leggo i tabelloni come lei" è stata la risposta. "La ringrazio per la sua gentilezza" ho detto. "Mi pare molto italiana".

All'andata, nella tratta Milano-Firenze, sempre su un Eurostar, in prima classe, era seduta accanto a me una bella ragazza bionda. Era una giovane manager di una ditta di intermediazione fra aziende farmaceutiche. Ha tirato fuori il suo computer portatile e per tre ore, salvo brevissime interruzioni, ha parlato al cellulare, con voce forzatamente molto alta per superare il frastuono del treno. Non che le sia venuto in mente di chiedermi, almeno una volta, se la cosa mi disturbava o di fare un piccolo sorriso, complice, di scusa. Semplicemente io per lei non esistevo.

Viaggiavo in macchina sulla strada che da San Sepolcro, attraverso il Casentino (una zona d'Italia ancora sufficientemente remota per essere rimasta intatta, e splendida) porta a Bagni di Romagna. Accanto a me una giovane rumena, di 27 anni. Laureata in economia e commercio nel suo Paese lo ha lasciato perché, dopo la caduta di Ceausescu e l'avvento del capitalismo, è quasi impossibile trovarvi lavoro.

 
Vive da quattro anni in Italia e fa la domestica. Il suo sogno è diventare infermiera. Era una ragazza simpatica e schietta e le ho chiesto che cosa pensasse degli italiani. Parlava la nostra lingua in modo quasi perfetto e conosceva un po' la storia del nostro Paese, la nostra letteratura, le nostre arti, il nostro cinema. Ha risposto: "Non siete affatto cordiali, affabili, generosi, umani come venite dipinti. Pensate solo ai vostri affari. Al business, al denaro. Italiani, brave gente? Mah... Io credo che voi siate vittima di una falsa immagine che vi siete fatta di voi stessi. Naturalmente sono qui da troppo poco tempo per sapere se in passato eravate diversi, se corrispondevate a questa immagine. Inoltre mi ha colpito la totale mancanza di rispetto delle regole, di rigore, di disciplina, che c'è nel vostro Paese.

"Capisco che detto da una rumena ciò ti possa sembrare strano e anche arrogante, perché dal mio Paese viene anche molta gente disperata che si comporta in modo delinquenziale. Quindi io non mi sento tanto in diritto di giudicare. Ma l'impressione che mi fate è quella che ti ho detto, sgradevole sotto molti punti di vista. Appena potrò andrò a vivere in Austria, dove la gente è forse altrettanto fredda ma c'è almeno il rispetto delle regole".

Sono rimasto in silenzio. Umiliato. Perché non avevo nulla da replicare. Ero sostanzialmente d'accordo con lei.

Siamo diventati un popolo cupo, privo di allegria, di "joie de vivre", di buonumore, di sensibilità, di umanità. Incapace di sorridere. Abbiamo perso la nostra antica bonomia, senza per questo acquisire il rigore protestante. Del nostro antico modo di essere c'è rimasta solo la cialtronaggine. E ogni volta che torno nel mio Paese, dopo qualche soggiorno all'estero, qualsiasi estero, mi colpiscono la nostra inguaribile, inguardabile, volgarità e la nostra maleducazione.

Un Paese corrotto, corrotto fino al midollo. Che si mente continuamente addosso. Che si crede generoso perché partecipa alle maratone volgari di Theleton, ma è incapace, come gli svizzeri, di vera generosità, di una qualsiasi attenzione all'altro.

Non solo la nostra Nazionale dovrebbe essere ritirata dai Campionati del mondo, ma il nostro campionato dovrebbe essere azzerato almeno per un anno. Sarebbe uno choc salutare. Negli Stati Uniti lo si è fatto per il baseball, che da quelle parti ha la stessa importanza che da noi ha il calcio. E il mondo non è crollato. Certo il danno economico sarebbe enorme, se si pensa agli interessi degli sponsor, ai diritti televisivi, ai fantastici e insultanti ingaggi dei giocatori che non sanno nemmeno più come buttar via tanto denaro (il portiere della Nazionale, Buffon, ha perso, per noia, circa tre milioni di euro in scommesse clandestine), a tutto il variegato mondo, giornalisti compresi, che vive sul calcio, soprattutto quello parlato. Ma è proprio questa enfiagione economica che sta uccidendo il calcio, questo meraviglioso gioco, da praticare e da vedere, i cui motivi simbolici, rituali, mitici e identitari sono stati spezzati via in nome del business.

In una canicolare domenica di giugno di tre anni fa gli "ultras", i terribili e sempre denigrati "ultras", in rappresentanza di 78 società di calcio di A, B, C e delle serie minori, fecero a Milano, davanti alla sede della Lega, a Porta Romana ("Porta Romana bella" cantava Giorgio Gaber) una civilissima manifestazione, che non diede luogo ad alcun incidente, al grido di: "Ridateci il calcio di una volta". Io, usando il linguaggio sessantottino, "allargherei il discorso" e direi: ridiamoci l'Italia di una volta. Meno ricca, meno indaffarata, meno competitiva, più modesta, più semplice, più gentile, più in armonia con i suoi panni, più se stessa, più simpatica, più onesta e più umana.