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Il complotto targato FBI

di Michele Paris - 08/12/2010



Nella tarda serata di venerdì 26 novembre, circa dieci mila abitanti di Portland si sono ritrovati nella Pioneer Courthouse Square, il salotto della tranquilla cittadina dell’Oregon, per assistere all’annuale cerimonia di accensione dell’albero di Natale. Nel corso dell’evento, secondo un annuncio sensazionalistico del FBI, è stata condotta un’operazione di anti-terrorismo che ha portato all’arresto di un teenager locale di origine somala, accusato di aver piazzato dell’esplosivo in un minivan parcheggiato nei pressi della piazza per compiere una vera e propria strage.

Il giorno successivo, il 19enne Mohamed Osman Mohamud, nato a Mogadiscio ma naturalizzato americano, è finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. A ben vedere, tuttavia, a condurre ogni fase dell’operazione sono stati gli stessi agenti del FBI coinvolti nel caso, impegnati nell’ennesima montatura costruita ad arte per instillare la consueta dose di paura nell’opinione pubblica americana e mondiale.

La vittima designata dell’ultima fatica dell’agenzia investigativa federale statunitense è uno studente come tanti altri, figlio di immigrati dal Corno d’Africa installatisi nella periferia di Portland. Mohamud si era diplomato alla Westview High School di Beaverton, in Oregon, per poi intraprendere presso la Oregon State di Corvallis una carriera universitaria prematuramente interrotta lo scorso ottobre, con ogni probabilità a causa delle nuove frequentazioni con gli agenti dell’FBI sotto copertura.

Proprio questi ultimi - come accade puntualmente nel corso delle cosiddette “sting operations” - si sono spacciati per militanti islamici alla ricerca di nuovi adepti per portare a termine attentati terroristici sul suolo americano. A Portland si sono così imbattuti in un improbabile candidato, un normalissimo adolescente cui, secondo le descrizioni degli amici, piaceva bere, fumare, ascoltare musica hip-hop e giocare alla play station.

Ad attirare l’attenzione dell’FBI sono stati i presunti contatti di Mohamud con ambienti legati alla jihad in Pakistan. In particolare sarebbero state intercettate alcune sue e-mail scambiate con un uomo non meglio identificato, che agiva da reclutatore e che aveva operato in Yemen e nello stesso Pakistan prima di trasferirsi in Oregon. Le prove del primo contatto con il giovane somalo-americano - ovviamente fondamentali per giustificare la montatura dell’FBI - risultano però misteriosamente mancanti dagli archivi federali, ufficialmente a causa di un malfunzionamento dei dispositivi utilizzati per registrare le conversazioni avvenute.

Per quanto, in definitiva, non ci fosse praticamente alcuna prova concreta di un contatto diretto con terroristi islamici, Mohamud è stato piazzato su una sorta di lista nera e approcciato fin dallo scorso mese di giugno dagli agenti sotto copertura. Istigato da questi ultimi, il potenziale terrorista sembra avesse mostrato un atteggiamento sempre più aggressivo ed un crescente desiderio di creare un piano per fare quante più vittime possibili. Ad agosto, poi, l’obiettivo è stato individuato nella piazza principale di Portland. Da quel momento, l’FBI si è occupata interamente dei dettagli logistici dell’operazione, così come del reperimento dell’esplosivo e dell’autoveicolo in cui piazzarlo.

Tutto ciò che Mohamud doveva fare era digitare un numero su un cellulare che, per quanto gli era stato riferito, sarebbe servito ad innescare l’esplosione. Gli agenti dell’FBI, secondo i documenti ufficiali, gli avrebbero anche chiesto più volte se preferisse esprimere la propria rabbia verso l’America con azioni pacifiche, ma il 19enne dell’Oregon sarebbe stato irremovibile. A conferma delle sue intenzioni, sempre secondo i federali, avrebbe anche definito “grandiosi” gli attentati dell’11 settembre. La sera del finto attentato, infine, dopo aver digitato inutilmente il numero per attivare l’esplosione, Mohamud è stato arrestato con l’accusa di terrorismo, per la quale rischia ora fino all’ergastolo.

Per spiegare una vicenda che appare a tratti assurda, subito dopo l’arresto i portavoce dell’FBI hanno rilasciato dichiarazioni schizofreniche. Mentre è stato detto che la minaccia era reale, vista l’intenzione di Mohamud di portare a termine un attentato (ideato interamente dall’FBI) con l’impiego di un’arma di distruzione di massa (ugualmente fornita dall’FBI), allo stesso tempo la popolazione di Portland è stata rassicurata, poiché lo stesso 19enne non avrebbe avuto nessuna possibilità concreta di portare a termine il progetto terroristico. La gran parte dei media americani si è poi data da fare per descrivere Mohamud come un giovane radicalizzato, come ad esempio il New York Times, che con dovizia di particolari ha raccontato come durante l’arresto scalciasse e urlasse a squarciagola “Allahu akbar” (Dio è grande).

Un’analisi equilibrata dei fatti in questione dimostra che in realtà nello scorso fine settimana non c’è stata nessuna minaccia terroristica a Portland. I fatti rientrano in una ben consolidata strategia dell’FBI, secondo la quale scelti insospettabili cittadini musulmani, di solito giovani, poveri o emarginati, che vengono spacciati per estremisti islamici. Senza il coordinamento e l’appoggio degli agenti federali in incognito, questi individui non sarebbero mai stati coinvolti in azioni terroristiche. Puntualmente, alla vigilia degli attacchi studiati minuziosamente, l’FBI conduce poi arresti a cui viene dato un eccezionale rilievo mediatico.

Queste operazioni nulla hanno a che vedere con il mantenimento della sicurezza negli Stati Uniti, bensì appaiono chiaramente come operazioni studiate a tavolino per tenere in un perenne stato di paura la popolazione americana e, di conseguenza, giustificare il prolungamento delle guerre all’estero e l’adozione di misure domestiche sempre più restrittive delle libertà personali. Forse non a caso, la trama che ha portato in carcere Mohamed Osman Mohamud è giunta solo pochi giorni dopo le proteste di milioni di viaggiatori americani, costretti a passare attraverso controlli di sicurezza sempre più invasivi negli aeroporti d’oltreoceano.

Di fronte ad un tribunale federale, i legali di Mohamud hanno dichiarato il proprio assistito non colpevole e, giustamente, hanno accusato l’FBI di aver incastrato deliberatamente un giovane vulnerabile. “Le informazioni rese pubbliche dal governo sollevano seri dubbi circa la messinscena del crimine”, ha sostenuto un avvocato della difesa. “Le dichiarazioni giurate rivelano come gli agenti federali abbiano suggerito a questo ragazzo le azioni da intraprendere, abbiano speso migliaia di dollari per l’acquisto di esplosivo, lo abbiano addestrato e, in definitiva, abbiano avuto un ruolo fondamentale negli eventi di venerdì scorso”.

Per gli inquirenti e il Ministro della Giustizia americano, Eric H. Holder, tuttavia, qualsiasi ipotesi di “entrapment” appare totalmente ingiustificata. Secondo Holder, infatti, Mohamud avrebbe avuto numerose occasioni per rinunciare all’attentato, ma alla fine ha scelto di continuare su questa strada. L’isteria provocata da queste dichiarazioni e dall’intero caso ha alzato notevolmente il rischio di violenze ai danni dei musulmani negli USA. Due giorni dopo l’arresto, il centro islamico dell’Oregon dove Mohamud si recava per la preghiera è stato infatti incendiato ad opera di ignoti.

In molte occasioni, nonostante tutto, i tribunali federali che hanno ascoltato casi di “entrapment” legati a finti attentati terroristici dopo l’11 settembre hanno dato ragione alle forze di sicurezza. Tutto ciò, malgrado le stesse regole stabilite dall’FBI sulle operazioni sotto copertura definiscano “legalmente discutibile” da parte di agenti del governo indurre gruppi religiosi o politici a commettere “attività criminali che altrimenti non avrebbero avuto luogo”. Ma, come si sa, nell’America di Bush e Obama il rispetto della legge e dei diritti civili troppo spesso continua ad essere sacrificato in nome della guerra al terrore.