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Liberi dalla Civiltà

di Enrico Manicardi - 04/01/2011

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Una critica serrata alla civiltà e alla tecnologia, che ha prodotto violenza, sopraffazione e ha distrutto l'ambiente. Abbiamo intervistato Enrico Manicardi, autore del libro Liberi dalla Civiltà

Il processo di civilizzazione si è basato su forme "storiche" di dominio e di sfruttamento. Com'è possibile emanciparsi oggi da queste forme di oppressione? Cosa significa liberarsi dalla civiltà oggi? E soprattutto siamo ancora in tempo?

Viviamo in un mondo sempre più triste, tossico, desertificato (anche nei rapporti umani). Mentre i proclami dell'universo in multimedia ci presentano una tecno-realtà sfolgorante e colorata, sappiamo bene che le cose non stanno così. Nel mondo moderno la violenza imperversa, l’insicurezza è ovunque, l’insoddisfazione e il senso di vuoto interiore dilagano: la vita è sempre più programmata, scandita, dettata dagli impegni; gli obblighi sono sempre più pressanti e i divieti ovunque; lo stress è a livelli ogni giorno più insopportabili. Tutto è un continuo correre sempre più in fretta verso non si sa dove: produrre di più, consumare di più... Nel mondo moderno stiamo male e questo è ormai un dato di fatto. L’uso di psicofarmaci è in costante aumento, le malattie nervose sono in preoccupante espansione, fenomeni come l’alcolismo o il tabagismo sembrano inarrestabili. La portata e la diffusione di malattie degenerative croniche presenta, nella sua forma più tragica, i tratti espressivi di un’esistenza continuamente aggredita nel suo procedere vivo, integro, naturale. D’altronde, nelle società industriali, il picco di suicidi registrato dalle statistiche non è certo casuale. Se pensiamo che negli USA, punta di diamante del cosiddetto “mondo ricco”, ogni anno 300 bambini di età compresa tra i 10 e i 14 anni si uccidono, c’è davvero da essere preoccupati… 

Secondo questa idea la civilizzazione, con il suo carico di domesticazione e straniamento, ci sta togliendo la vita di dosso. Cosa dovremmo fare? 

Credo che la cosa più importante sia cercare di capire cosa stia succedendo. La civiltà è un grande cancro che ci sta divorando. Prima ci accorgeremo di essere malati, prima potremo fare qualcosa per provare a guarire. E per guarire dovremo smettere di guardare ai sintomi della malattia per cominciare a cercarne le cause. Se abbiamo l'emicrania perché siamo soliti dare testate contro il muro non serve prendere l’antidolorifico e continuare a battere la testa. Lo stesso vale per l'ambiente e per il nostro rapporto con gli altri: fin tanto che ci occuperemo di porre limiti all'inquinamento (invece di lottare per un mondo pienamente salubre), l'inquinamento resterà giustificato e non scomparirà; fin tanto che continueremo a credere all'economia (sia pure Green, Slow o Sostenibile), ci ritroveremo vittime dei ricatti dell’economia e dei suoi diktat: utilitarismo nelle relazioni, speculazione su tutti i fronti, concorrenza, competizione, lotta di tutti contro tutti...
Se vogliamo provare a fare qualcosa per cambiare il corso distruttivo avviato dalla civilizzazione, dobbiamo avere il coraggio di andare alle fonti della crisi. La malattia della civiltà è la civiltà e i suoi valori deteriori. Se non cominceremo a guardare alla civilizzazione come all’origine dei nostri guai, continueremo a dare testate contro il muro supplicando l’arrivo di un antidolorifico ogni volta più potente; con tutte le conseguenze del caso: dipendenza sempre più stretta verso chi ci fornirà l’antidolorifico; passiva accettazione di tutti i suoi effetti collaterali; crescente incapacità di riconoscere il problema reale. 
Non so dire se siamo ancora in tempo. Certo è che se non cominceremo subito a fare qualcosa, se non cominceremo subito ad opporci al dilagare di quel decorso devitalizzato che ci sta annientando e non ci rimetteremo immediatamente in contatto con la natura selvatica che vive dentro e fuori di noi (quella dei sentimenti, degli istinti, delle pulsioni naturali, della capacità di immedesimazione negli altri e dello spirito di condivisione su tutto – affetti, esperienze, antichi saperi), le cose si metteranno molto male.

Qual è il ruolo della tecnologia, o più propriamente della tecnica oggi? Non credi possa essere utile per affrontare e superare i problemi dell'oggi?

No di certo. La tecnologia è il complesso delle forme di sfruttamento e di contaminazione necessarie al funzionamento della Megamacchina, ossia di quel grande meccanismo che ci sovrasta, che si nutre di noi, che ci consuma tutta la vita per poi sputarci come scarti di lavorazione non appena smettiamo di essere efficienti. La tecnologia, insomma, è il filo conduttore del mondo tetro (e tossico) in cui siamo confinati: è l’espressione concreta di quel principio del dominio (sugli Umani e sulla Natura) su cui regge l’ideologia della civiltà. Pensare che la tecnica possa aiutarci nel liberarci dai condizionamenti che essa stessa impone, mi sembra paradossale. Sarebbe come pensare di combattere la guerra sviluppando una cultura del conflitto armato, o contrastare l'inquinamento inventando nuove forme di contaminazione ecologica. Finché continueremo a credere che la tecnologia sia neutrale o passibile di essere usata per salvare un mondo invaso dalla meccanizzazione della vita, sarà la meccanizzazione della vita a prevalere.

E’ quasi un luogo comune pensare che la tecnologia sia neutrale; che essa, cioè, non sia né buona né cattiva e tutto dipenda dall’uso che se ne fa. Perché secondo te non è così?

L’idea che la tecnologia sia un fenomeno neutro, non è un’idea diffusa a caso: serve a convincere. Ci spinge cioè a sottovalutare il potere pervasivo della tecnologia e a credere non sia un problema ma un’opportunità. La tecnologia, invece, è un problema: un grosso problema! Essa, infatti, è tutt’altro che neutrale. Per spiegare la cosa in poche parole, si potrebbe dire, come diceva Ellul, che la tecnologia non è neutrale perché è una forma che forgia. In effetti, tutto quello che viene a contatto con la tecnica vi ci si adatta irrimediabilmente e ne assume l’impronta. È per questo, ad esempio, che esistono le scarpe n. 44 o le T-shirt taglia XL. Perché sono i nostri piedi e nostri corpi a doversi adattare ai prodotti industriali. Charlie Chaplin, in Tempi moderni, ce lo ha spiegato già 75 anni fa: di fronte alla macchina (in quel caso il nastro di una catena di montaggio) è sempre l’essere umano a doversi adattare ai tempi, ai ritmi e ai processi della macchina, mai il contrario. Lo stesso vale per la nostra intelligenza: usando il computer impariamo a vedere il mondo come fosse un grande terminale, e la nostra intelligenza si fa sempre più lineare, razionale, calcolatrice; un’intelligenza insomma sempre più operativa e sempre meno riflessiva, ossia sempre meno abituata alla divagazione, al dubbio, alla messa in gioco dei dati di partenza. Inoltre, il computer, come ogni altra macchina, impone una relazione di comando/obbedienza tra chi lo usa e se stesso: quando lo si accende, esso deve funzionare; non può non averne voglia, non se ne può discutere. Se non funziona lo si sostituisce. La tecnologia ha dunque anche questo subliminale potere: ci abitua a relazioni di comando/obbedienza. Essa, cioè, incarna una visione militare della vita, e spinge chiunque se ne appropri a sviluppare una mentalità che tende a modellarsi sui princìpi del comando indiscutibile e dell’obbedienza cieca (ordine di accensione e dovere di funzionamento). Non a caso l'immagine che abbiamo di un mondo robotizzato è quella di un mondo popolato da “automi”; e l'automa è proprio l'emblema dell'intelligenza che non riflette, esegue. Più il mondo diventerà tecnologico, più noi stessi ci trasformeremo in macchine operative destinate a funzionare (non a pensare, non a immaginare, non a dissentire). E più ci trasformeremo in macchine, più ci allontaneremo dal mondo dei sensi, degli affetti, dei profumi, dei tatti e dei contatti. In pratica, tanto più si espanderà la dimensione artificiale dell’esistere (quella portata appunto dalla tecnologia), tanto più la Natura ci apparirà insignificante e sempre più logicamente rimpiazzabile da dispositivi tecnici. In un simile contesto arriveremo ad avere sempre più paura della Natura (che appunto conosceremo sempre meno). Non è forse vero che già oggi siamo indotti a considerare i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le piogge battenti come delle forme di “aggressione” della Natura al mondo degli umani? Eppure, se ci pensiamo bene, non sono i terremoti ad uccidere le persone, ma i detriti: sono cioè i crolli delle case in cemento che abbiamo costruito radendo al suolo la Natura; sono il fatto che viviamo pericolosamente inscatolati gli uni sugli altri; sono il fatto, soprattutto, che stiamo via via perdendo la capacità di comprendere la Natura e di ascoltarne i segnali che ci manda, anche prima di un terremoto. La tecnologia, infatti, ci insegna a dominare la Natura, non a comprenderla. E più pretenderemo di dominare tutto (distanziandoci progressivamente dal nostro mondo vivente per diventare parte di quello artificiale che lo sta rimpiazzando), più ci troveremo confinati uno spazio popolato da sempre nuove paure. Altro che neutralità!

Effettivamente, viviamo in un'epoca dominata dalla paura del domani, dalla paura dell'altro e da mille altre paure. Forse c'è anche una paura verso sé stessi e le proprie capacità? 

Certamente! Abbiamo sempre più paura di noi stessi, di stare da soli con noi stessi, di fare affidamento sulle nostre innate capacità. E questo è logico se si considera il processo di espropriazione di abilità che la tecnologia persegue. Facendo le cose per noi la tecnologia ci toglie la capacità di saperle fare; e, soprattutto, ci toglie il bisogno di imparare a farle da soli e il senso di farle in piena autonomia. In pratica la tecnologia ci rende sempre più dipendenti dalla tecnologia, e quindi sempre meno autosufficienti, sempre meno autonomi e liberi. Considerata nei suoi singoli prodotti finali la tecnologia può sembrare utile (e tante volte lo è), ma considerata complessivamente essa è ciò che ci sta rendendo dei “disabili”: incapaci di fare le cose con le nostre mani e posti in balìa dei suoi rimedi. Oggi la nostra vita non dipende più dalle capacità che abbiamo come singoli esseri umani: dipende da una presa elettrica che si stacca; dipende dalla quantità di inquinanti che qualcuno ha legalmente messo nel nostro cibo; dipende dagli standard di sicurezza della centrale (elettrica, a carbone, nucleare) che è stata democraticamente installata vicino a casa nostra. Non sappiamo più fare niente con le nostre mani e dipendiamo da tutto ciò che non siamo più in grado di determinare. In un contesto del genere (politicamente pianificato) è logico vivere nella paura.

Secondo te esistono modelli praticabili di organizzazione democratica? L'uomo è o non è un animale politico?

Più che un animale politico l’essere umano è un animale sociale. Diventa politico in un contesto permeato dalla politica. Ma tutti sappiamo che anche la politica è qualcosa di costruito (è la “Tecnica Regia”, diceva Platone). La politica nasce infatti nell’antica Grecia come strumento di dominio, come mezzo per conservare una coesione sociale forzata tra soggetti che la civilizzazione aveva già distanziato gli uni dagli altri e posto su fronti contrapposti: sovrani e sudditi; liberi e schiavi; poveri e ricchi; uomini e donne… Infranta quell’unione intima con la Natura che ci aveva consentito di vivere un’esistenza egualitaria per tutto il Paleolitico (circa due milioni di anni), con l’avvento della civiltà (Neolitico) abbiamo cominciato a trasformare il vivente in cosa: la terra, prima di tutto (agricoltura), e poi gli animali (allevamento), e poi le donne (società patriarcale) e poi gli uomini, i bambini e tutti gli altri (schiavitù, lavoro dipendente, sfruttamento generalizzato, burocratizzazione della vita). In un contesto così compromesso la politica, ossia la bella oratoria, la parlantina, la demagogia, funzionò come sistema per preservare una finta unità all’interno della polis nonostante appunto la presenza di gruppi di persone (oggi diremmo classi sociali) posti gli uni contro gli altri in una competizione a tutto campo per il (pre)dominio. Il potere, che sia di un soggetto solo sugli altri (monarchia), che sia di pochi singoli (oligarchia), che sia del popolo (democrazia) o del proletariato (comunismo), resta sempre “potere”: ossia volontà di dominazione e di soggezione. Dopo diecimila anni di civiltà, il potenziale distruttivo che è insito in qualsiasi prospettiva di dominazione e soggezione (anche sugli animali, sulle piante, sui minerali, sulle energie della Terra) dovrebbe esserci chiaro. Come sintetizzava perfettamente Vaneigem «Il problema […] non è più di prendere il potere, ma di mettervi fine definitivamente».

Esiste una possibilità di salvare la vita sul pianeta e conservare gli ecosistemi? Quale?

Liberarsi dalla civiltà. Attraverso le sue categorie, i suoi valori, le sue logiche di potere che condizionano la vita di tutti, la civiltà ci insegna a considerare la Natura come un nostro suddito: come un “qualcosa” di passivo destinato a servire le esigenze del suo padrone umano. È per questo che noi continuiamo ad usare la Natura, a sfruttarla, a sottometterla alle nostre tecniche e a comprometterne gli equilibri. In realtà, noi non siamo i padroni della Terra. E la Terra non è una “cosa” posta al nostro servizio. Dobbiamo allora abbandonare questo nostro antropocentrismo. Dobbiamo liberarci di quella mentalità “egocentrica” che ci sta trascinando verso la distruzione di tutto e riaffermare una prospettiva “ecocentrica”: una prospettiva cioè che rimetta il vivente al centro del nostro pensiero, dei nostri sentimenti, delle nostre azioni; il Vivente, dunque, non l’Economia, non lo Sviluppo, non la Tecnologia, non la Politica o il Potere. Oggi sappiamo bene che è possibile stabilire un rapporto vivo e paritario anche con la terra. Metodo Fukuoka, Orto Sinergico, Giardini Foresta, Permacultura: tutte pratiche di cosiddetta agricoltura antiautoritaria che si oppongono allo sfruttamento umano dei suoli favorendo il recupero di un naturale equilibrio biologico tra pianta, terreno e ambiente; tutte forme rispettose di relazione con la Terra che mirano a ristabilire un contesto simbiotico naturale rifiutando le tipiche forme di aggressione portate dall’agricoltura tradizionale: aratura, sarchiatura, potatura, innaffio, concimazione…
Insomma, se vogliamo davvero fare qualcosa per salvare la vita sul pianeta, dobbiamo liberare la vita dalla funzione strumentale che le abbiamo assegnato: dobbiamo ridare alla Natura il significato di “soggetto”, non di “oggetto”, non di “capitale”, non di “risorsa” da sfruttare. È un vero cambio di paradigma quello che siamo chiamati a porre in essere. Ma non ci sono alternative: o saremo in grado di ridiventare parte integrante della Natura o noi tutti (che siamo Natura) soccomberemo prima o poi ai colpi mortali della civilizzazione.

Titolo: LIBERI DALLA CIVILTA'
Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia.

Editore: Mimesis Edizioni

Autore: Enrico Manicardi

Prefazione: John Zerzan

Prezzo: €. 18;00=



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