Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Un’oasi di verde, di pace e di cultura: l’Orto Botanico di Padova

Un’oasi di verde, di pace e di cultura: l’Orto Botanico di Padova

di Francesco Lamendola - 12/01/2011




In ogni luogo e città d’Italia che abbiamo avuto l’occasione di vedere, la visita d’onore è sempre stata riservata a quei luoghi semplicemente meravigliosi, pieni di pace e di bellezza, che sono i giardini o gli orti botanici.
L’estrema varietà climatica del nostro Paese li rende unici al mondo per varietà e ricchezza di specie, concentrate in un unico luogo come in una sorta di Paradiso terrestre: da quelle proprie del clima alpino, a quelle del clima continentale, a quelle del clima mediterraneo e subtropicale, senza dimenticare le specie caratteristiche delle zone umide e quelle che, essendo specifiche della flora del Terziario, costituiscono una affascinante sopravvivenza di remote epoche geologiche, quasi come altrettanti fossili viventi.
Stupenda, ad esempio, è la Villa Carlotta, sul Lago di Como, ove la sagoma snella del Pino strobo si alterna a quella esotica delle Felci arborescenti; per non parlare della innumerevole varietà di fiori che, all’inizio della primavera, rendono questo luogo colorato di mille sfumature ed olezzante d’infiniti profumi. Non meno suggestiva è una visita al Giardino botanico di Napoli, incredibile angolo lussureggiante e fascinoso, che ingentilisce una città immersa nel traffico e piuttosto avara di verde, di ombra e di silenzio.
Fra tutti, però, dobbiamo esprimere una preferenza per il meraviglioso Orto Botanico della Università di Padova, ritenuto il più antico del mondo: la sua fondazione risale, infatti, al 1545, allorché il medico e naturalista Francesco Bonafede lo realizzò, su decreto del Senato della Repubblica di Venezia, sviluppando le esigenze di quella Cattedra dei Semplici - oggi si direbbe, di Botanica - che già da un paio d’anni teneva nello Studio patavino.
Si trova in una zona centralissima, vicino al Prato della Valle e a pochi metri, in linea d’aria, dalla Basilica di Sant’Antonio, uno dei luoghi religiosi più frequentati al mondo; eppure si tratta di un angolo di natura incomparabile, oltre che un gioiello di rigore architettonico scientifico. Nei suoi viali ombrosi generazioni di studenti hanno passeggiato, sostato, studiato e meditato; le più celebri personalità artistiche e scientifiche d’Europa e del mondo lo hanno visitato e ne hanno ritratto un’impressione unica, incancellabile.
Vi crescono alcune piante secolari, che erano già adulte quando Galilei insegnava in quella Università e già vecchie allorché il sommo Goethe, nel corso del suo viaggio in Italia, si recò a visitare anche questo luogo ameno e, nello stesso tempo, eccezionalmente significativo per gli amanti della natura e della scienza.
Era il 1786 e il poeta tedesco, che aveva viaggiato su un “burchiello” lungo ilo Brenta, osservava nel suo diario: «Il viaggio sul Brenta, su una nave a servizio pubblico in compagnia di persone davvero a modo, è risultato comodo e piacevole: fra di loro gli Italiani sono cortesi e pieni di riguardi. Le rive del fiume sono costellate di giardini e ville;  si vedono piccoli villaggi che sorgono quasi sul corso d’acqua, che per lunghi tratti è rasentato da una strada molto animata». È un quadro fresco e vivo, che potrebbe essere stato tracciato anche ai nostri giorni.
Fra le altre, si segnalano una Palma di San Pietro («Chamaerops humilis»), piantata nel 1585, che attrasse particolarmente l’attenzione di Goethe, tanto da ispirargli alcuni scritti ed opere di carattere botanico; un Ginkgo («Ginkgo biloba») che fu messa a dimora nel 1750; ed una Magnolia («Magnolia grandiflora») che, quivi introdotta dall’America Settentrionale verso il 1786, è, molto probabilmente, la più antica del continente europeo.
Inoltre, nell’Arborteum realizzato nella seconda metà del XVIII secolo ad opera di Giovanni Marsili e Roberto de Visiani, e comprendente una collina artificiale denominata Belvedere, si possono ammirare un enorme Platano orientale («Platanus orientalis»), risalente al 1680 e notevole per l’immensa cavità del fusto, ed un Cedro dell’Himalaya («Cedrus deodara») il quale, pur essendo molto più giovane, poiché venne piantato “solo” nel 1828 (vale a dire quasi due secoli or sono!), fu il primo della sua specie ad essere introdotto in Italia.
Per gli amanti della paleobotanica, vi è anche una raccolta di piante del Terziario: l’Albero di Giuda («Cercis»), «Magnolia yulan», «Liriodendron», «Rhododendron maximum», «Metasequoia», «Prunus laurocerasus», «Paeonia». Una vera e propria “chicca”, se così ci possiamo esprimere, è rappresentata dalla presenza di due esemplari di «Metasequoia glyptostroboides» - una specie che, fino al 1942, era conosciuta solo allo stato fossile e poi trovata, invece, allo stato vivente -, qui trapiantati mezzo secolo fa, nel 1961.
Il valore culturale dell’Orto Botanico di Padova è così grande che, nel 1997, questo luogo è stato dichiarato dall’U.N.E.S.C.O. patrimonio dell’umanità.
Recentemente, l’Università patavina ha deciso di gestire un ampliamento delle sue strutture, affidando il progetto all’architetto Giorgio Strappazzon, per potenziare ulteriormente, a mezzo di avveniristiche tecnologie - e questo è l’aspetto che ci lascia perplessi -, la varietà degli ambienti naturali e delle rispettive specie di piante, in modo da ottenere una rappresentazione completa dell’intera flora terrestre.
Quando, nel giro di due anni, il progetto sarà stato portato a termine, si potrà considerare l’Orto Botanico di Padova come una sorta di atlante vivente della biodiversità e quindi, in un certo senso, un monito perenne contro il pericolo rappresentato alla sua graduale, ma apparentemente inarrestabile riduzione (cfr. su questo argomento il nostro precedente articolo: «Difendere le ultime foreste per salvare il bene inestimabile della biodiversità», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 16/04/2009).
Riportiamo uno stralcio dal numero 31 della rivista «Architetti» (citato in «Biolcalenda», Battaglia Terme, Padova, gennaio 2011, pp. 39-40):

«Da questo patrimonio parte il progetto de nuovo orto per realizzare cinque serre in una galleria di vetro e acciaio - 110 metri di lunghezza per 18 di altezza e 30 di profondità - che riproducono le cinque zone climatiche (biomi) del globo.
Grandi vasche per le piante acquatiche, un modernissimo visitor center, realizzato nella parte storica dell’orto, con spazi funzionali, sezioni espositive e un n uovo sistema di percorsi dentro il tema della biodiversità. Seguendo un tracciato ideale lungo un meridiano terrestre in direzione nord-sud, il visitatore si troverà ad attraversare gli ecosistemi del nostro pianeta dalle regioni tropicali a quelle subartiche. L’estensione d ogni zona climatica e quindi di ogni serra corrispondente racconta come cambiano i livelli di temperatura, luce e acqua attraverso le zone bioclimatiche, fino a giungere alla piccola superficie dedicata al clima sub-artico, in cui la biodiversità raggiunge livelli minimi.
Il percorso si conclude con le nuove frontiere della scienza botanica: la pianta nello spazio. Un ambiente che si propone di illustrare come sia possibile esportare la vita oltre la superficie terrestre, ricreando le condizioni per l’innesto della fotosintesi.
I visitatori potranno immergersi in un ambiente dove sono riprodotte le diverse situazioni che gli enti aerospaziali stanno studiando, una navicella, una colonia lunare e una marziana, e verificare le condizioni di vita extraterrestre.
“Dal punto di vista compositivo, nella suddivisione degli spazi abbiamo recuperato la memoria del luogo, dimensioni e proporzioni del nuovo intervento architettonico richiamano la struttura storica e il reticolato agrario urbano di impronta rinascimentale”, afferma Strappazzon. Il suo progetto infatti, vincitore nel 2005 del concorso internazionale bandito dall’Università di Padova, guarda al passato per scommettere sul futuro della botanica.
La completa riqualificazione della cinta muraria e il restauro delle serre ottocentesche si accompagnano all’ampliamento appena partito nell’area adiacente il nucleo storico, 15.000 mq. Acquistati inizialmente con funzione di protezione della parte antica. A fare da ponte tra passato e presente l’ultracentenaria Palma di San Pietro, conosciuta come Palma di Goethe, a cui il poeta tedesco si ispirò nella sua “Teoria sulla metamorfosi delle piante”. Oggi protetta da una serra ottagonale, sarà interamente rinnovata.
L’intervento propone una fusione armonica tra natura e spazio architettonico. Il percorso attraverso la biodiversità terrestre si snoda senza soluzione di continuità tra spazi aperti e chiusi, sempre filtrati da elementi trasparenti come il vetro e l’acqua, garantendo una totale immersione nella flora del pianeta attraverso gli spazi espositivi e i percorsi didattici collegati.
I progettisti hanno interpretato con grande coerenza il tema della relazione tra natura e architettura, orientando le scelte con decisione verso la sostenibilità. Impianti di climatizzazione, aerazione, ventilazione, condizionamento e irrigazione sono tutte questioni risolte scegliendo materiali e soluzioni impiantistiche e costruttive altamente innovativi. Il tetto è ricoperto in ETFE, una sorta di nylon leggero e trasparente che lascia penetrare i raggi solari, composto inoltre da cuscinetti pieni d’aria che fungono da isolamento termico.»
Infine è stato progettato un sistema che attraverso un pozzo estrae acqua calda di origine termale a 300 metri di profondità. Tutto questo permette di abbassare notevolmente i costi di gestione degli impianti. I lavori di costruzione, appena partiti, sono stati aggiudicati alla trevigiana Carron srl, che in poco meno di due anni dovrà consegnare la nuova opera alla città.»

Parlavamo di una certa perplessità che desta in noi l’impiego massiccio di tecnologie ultramoderne, anche se, ameno nelle intenzioni, rispettose del contesto ambientale e culturale (e ci mancherebbe altro) di un luogo così carico di storia.
Tale stato d’animo non è motivato da puro e semplice passatismo, ma dalla radicata convinzione che interventi ultratecnologici all’interno di complessi architettonici tradizionali - e un orto botanico è un particolare caso di ambiente architettonico - finiscono quasi inevitabilmente, per la logica stessa delle cose, con lo stravolgerne le caratteristiche.
Valga per tutti il caso della piazza antistante il Museo del Louvre a Parigi, con la discussa e discutibile piramide-lucernario progettata da Jeoh Ming Pei e inaugurata nel 1989, alta 21 metri, con una base di 30 metri e un peso di 180 tonnellate, che stride platealmente - checché ne dicano i fautori del nuovo ad ogni costo - con la facciata barocca del grandioso edificio.
Non si tratta, lo ripetiamo, di nostalgia dell’antico fine a se stessa: il fatto è che i luoghi possiedono un’anima; e, se li amiamo, dobbiamo averne il massimo rispetto, per non farla fuggire. Ciò non significa che degli interventi di ristrutturazione non si rendano, di tempo in tempo, utili e  necessari, e talvolta perfino indispensabili; ma bisogna fare molta attenzione affinché essi rispettino lo spirito originario di quei luoghi, specialmente se essi rivestono un particolare e riconosciuto valore storico, artistico e culturale.
Il fatto è che la modernità ci ha abituati alla filosofia del progresso illimitato, che è in se se stessa contraddittoria; e, pertanto, a giudicare indispensabili degli interventi continui sul patrimonio artistico e culturale, anche quando essi non sono, in realtà, così urgenti e necessari come si vorrebbe far credere, o anche quando sarebbe sufficiente una ristrutturazione che si limiti a restituire piena funzionalità alle strutture originarie, senza stravolgerle.
Si dirà, ad esempio, che la copertura in ETFE, in luogo delle “normali” serre, si rende indispensabile per consentire la messa a dimora di specie tropicali che non sopporterebbero i rigori dell’inverno e, quindi, per rendere possibile la creazione del progettato atlante della biodiversità mondiale. Questo, però, ci sembra il classico caso in cui si pretende di giustificare un intervento di per sé discutibile, con delle ragioni di principio che sono tutte da dimostrare.
Certo, realizzare un catalogo vivente della biodiversità terrestre è un progetto didattico di altissimo valore; tuttavia, ci permettiamo, sommessamente, una sola, semplice domanda: bisognava proprio realizzarlo all’interno del più antico orto botanico del mondo, con le sue strutture rinascimentali elegantissime, ma alquanto limitate nello spazio? Non è un po’ come voler ospitare per forza una base aerospaziale all’interno di un osservatorio astronomico indiano o babilonese?