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Fiat: a guerra finita il bottino è internazionale (parte II)

di Mario Consoli - 16/01/2011


 
Agnelli a questo punto “si prepara alla guerra” organizzando la propria catena produttiva e soprattutto assicurandosi che le commesse militari fossero cospicue, vantaggiose e che arrivassero alla Fiat e non alla concorrenza. Grande referente in questa operazione fu il piemontese Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio negli anni cruciali della guerra di Libia e dell’adeguamento dell’esercito alle nuove tecnologie di trasporto. Con il successore, Antonio Salandra, le cose continuarono ad andare a gonfie vele.
Al maggio del 1915 gli stabilimenti di Agnelli avevano già fornito alle Forze Armate più di 1.600 autoveicoli e stavano lavorando ai 18P, destinati al trasporto delle munizioni, alla produzione di mitragliatrici e di proiettili. Alla concorrenza erano andate le briciole: 298 autoveicoli erano stati ordinati all’Isotta-Fraschini, 195 alla Spa, 120 all’Itala, 110 alla Züst. Giovanni Agnelli era divenuto praticamente il consulente del governo per gli armamenti e i trasporti. Dante Ferraris, vice-presidente della Fiat, era stato nominato capo del Comitato regionale di mobilitazione industriale, incaricato della ripartizione delle forniture. Il figlio di Agnelli, Edoardo, era stato inviato a Udine come vice direttore del parco automobilistico militare, alle dipendenze di un capitano che, nella vita civile, dirigeva la concessionaria Fiat di Milano. Il giornalista Ugo Ojetti arrivò a scrivere: “Agnelli è quasi il padrone”.
A questo punto l’Amministratore delegato della Fiat allarga il tiro agli eserciti alleati. Con quello russo firma un accordo per la fornitura di 6.000 autocarri con i relativi pezzi di ricambio per un importo di 240 milioni. Altre forniture vengono inviate in Francia. Neanche la rivoluzione di Ottobre e l’uscita della Russia dalla guerra bloccano gli affari di Agnelli che riesce a farsi pagare dai Soviet – con l’intercessione del sindacalista Bruno Buozzi e del direttore dell’Avanti, Giacinto Menotti Serrati – le forniture già effettuate al comando zarista e vende a Francia e Inghilterra la produzione ancora non consegnata, con un aumento del 20% dei prezzi precedentemente concordati coi russi.
Strada facendo la Fiat continuava ad assorbire pezzi di una concorrenza sempre più in difficoltà. Nel dicembre 1917 sono assorbite, grazie a un consorzio di garanzia diretto dalla solita Comit, anche le Ferriere Piemontesi, le Officine Diatto e le Industrie Metallurgiche di Torino. Si tratta di acquisizioni fondamentali, perché tutte aziende produttrici di materie prime necessarie alla Fiat, come acciai speciali, materiale ferroviario ed energia elettrica.
A guerra finita il bottino poi si fa internazionale: Agnelli riesce addirittura ad ottenere dei rappresentanti nella delegazione economica italiana al tavolo della pace, a Versailles. È così che alla Fiat furono assegnati:
- il pacchetto di maggioranza dell’Alpine Montangesellschaft di Vienna, proprietaria delle miniere di ferro della Stiria e di numerose fonderie e imprese metalmeccaniche;
- la partecipazione – assieme alla Terni, l’Ilva e l’Ansaldo – alla Società Commerciale d’Oriente per lo sfruttamento dei giacimenti carboniferi di Eraclea nell’Anatolia turca;
- le partecipazioni agli stabilimenti siderurgici di Servola, a Trieste.
I tre anni della guerra erano stati sufficienti ad imprimere alla storia della Fiat un’impennata senza eguali. Da 4.000 a 40.000 dipendenti. Un capitale che, tra titoli e partecipazioni, da 7 milioni del 1915 nel 1918 era lievitato a quasi 100 milioni. Cifra più vicina ai numeri delle leggi finanziarie dello Stato che a quelli dei bilanci delle industrie private.
Peraltro la concentrazione delle forniture militari in una sola azienda – 92% degli autocarri e 80% dei motori di aviazione – avevano anche causato gravi contrattempi nell’andamento delle strategie di guerra. Essendo state disincentivate le altre industrie a un incremento delle potenzialità produttive, quando si fu alla vigilia dell’attacco di Vittorio Veneto e le esigenze di rimpiazzare le perdite di autocarri subite nel corso delle battaglie – in particolar modo nella ritirata di Caporetto – divenne impellente, la sola Fiat non fu in grado di rispondere con la tempistica richiesta, causando intoppi più che preoccupanti.
Il 25 settembre 1918 lo Stato Maggiore segnala il problema. Il 12 ottobre il generale Pietro Badoglio invia un messaggio al presidente del Consiglio – Vittorio Emanuele Orlando, il grande difensore di Agnelli e della Fiat – per denunciare l’impossibilità di effettuare il “completamento dei piani di operazione militare” per colpa della mancata attuazione del programma di produzione di automezzi concordato con la Fiat quattro mesi prima.
Nonostante ciò, lo Stato continuò a concentrare le proprie commesse, a favorire l’elefantiasi di quell’industria torinese e a rimpinzare le tasche di Giovanni Agnelli. Riferisce lo storico Valerio Castronovo: “Agnelli non aveva più bisogno di intermediari per trovare udienza presso Orlando o presso Nitti per la sistemazione dei contratti stipulati con l’amministrazione militare o per la distribuzione delle “spoglie di guerra”. La Fiat riuscì infatti ad assicurarsi ampie possibilità di lavoro per i mesi successivi la fine delle ostilità. Ancora nel 1919 il governo continuò ad acquistare numerosi autoveicoli per provvedere alle necessità di trasporti delle regioni annesse. Il ministero degli Esteri si preoccupò inoltre di sollecitare accordi specifici con la Romania, la Polonia e il Belgio al fine di agevolare il collocamento della produzione automobilistica. E per altri automezzi Fiat si studiò un programma di incremento dei servizi pubblici. Agnelli ottenne, infine, un trattamento favorevole anche nella liquidazione delle commesse in lavorazione. Con un decreto del 19 giugno 1919 venne concesso alla Fiat e alla consociata SIA un indennizzo di 40 milioni per “mancato ammortamento di impianti e di attrezzi e per svalutazioni di materie prime”. Non solo; l’amministrazione militare si assunse il carico del ritiro delle parti lavorate di materiale bellico esistenti presso le officine di corso Dante al prezzo di oltre 32 milioni e la successiva retrocessione alla Fiat di tali materiali al prezzo di 7 milioni. Venne concesso, inoltre, il rimborso delle tasse di registro già pagate su forniture complete o frazioni di forniture annullate, mentre altre clausole accordarono alla società torinese il rimborso integrale delle penalità su forniture di materiale d’aviazione. Circa 65 milioni erano stati così elargiti alla Fiat”.
Tanta dovizia di aiuti, e quindi di liquidità, contribuirono ad aumentare la sfera d’influenza di Agnelli in ampi settori della realtà industriale nazionale: Dalmine, Magneti Marelli, Società Elettricità Alta Italia, Società Forze Idrauliche del Moncenisio, Società Idroelettrica Piemonte, Rumianca, Unione Italiana Cementi, Rinascente, Società Assicuratrice Industriale. E, assieme al finanziere Riccardo Gualino, la Fiat si assicurò un posto nel Consiglio d’amministrazione del Credito Italiano. Negli anni del dopoguerra per la Fiat continuano i “buoni affari”. Giolitti, prima di dimettersi, inasprisce la stretta doganale per ciò che riguarda auto e cuscinetti a sfere; un’automobile straniera viene così a costare il doppio di una italiana. E Agnelli, nel gestire i propri interessi, come ha già fatto in passato e farà in futuro, manifesta una spregiudicatezza ai limiti della liceità: all’insaputa del governo, vende una società siderurgica austriaca ottenuta dall’Italia al tavolo della Conferenza di pace. Si aprono delicate questioni politico-diplomatiche e il ministro Ivanoe Bonomi, visibilmente irritato, definisce “deplorevole” il comportamento dell’industriale torinese. Durante i moti politici e sindacali che seguirono la fine della guerra e sfociarono nell’occupazione delle fabbriche, Agnelli, seguendo di volta in volta ciò che gli appariva la convenienza del momento e confidando in un risolutore intervento politico di Giolitti, si distinse in una serie di iniziative personalistiche e contraddittorie che andarono a provocare ora gli attacchi dei sindacati, ora quelli degli altri imprenditori. La goccia che fece traboccare il vaso fu la promessa, poi ovviamente rimangiata, fatta ai sindacati di trasformare la Fiat in una cooperativa, grazie alla quale ottenne lo sgombero dell’occupazione degli stabilimenti. Il presidente della Lega Industriale, ingegner Mazzini, bollò questa iniziativa come “atto più che di indisciplina, di vera aberrazione”. La situazione divenne così tesa che Agnelli arrivò a minacciare le dimissioni. L’unico imprenditore a schierarsi, in quel momento, dalla sua parte fu il massone Vittorio Valletta che, nominato prontamente Direttore amministrativo della Fiat, seguì da allora al 1966 le vicende dell’azienda torinese in ruoli dirigenziali. Superata l’enpasse del momento, Agnelli ripartì con la sua opera di industriale e di finanziere. Ma con qualche difficoltà in più. Al governo ora c’era Mussolini e non più i suoi benevoli referenti Giolitti, Orlando e Nitti..