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Gregory Corso: un americano a Roma

di Marco Iacona - 20/01/2011

Fonte: scandalizzareeundiritto

 


Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Gregory Corso (26 marzo 1930 – 17 gennaio 2001), uno dei più grandi autori della Beat Generation, insieme ai più noti Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs e Lawrence Ferlinghetti.
Come Marylin: le poesie di Corso o forse, ancora, le frasi celebri ricordano la bellezza senza se e senza ma della bionda di Hollywood; e come Coco Chanel la “contapalle”: rivoluzionario senza sapere di esserlo o forse senza volerlo o, forse ancora, con la presunzione di esserlo nato, Gregory Corso cresce in un orfanotrofio e poi passa molte delle sue giornate per la strada. Quella strada che è e sarà maestra di vita per i ragazzi beat in una breve ma intensissima stagione. L’infanzia di Corso – di chiare origini italiane e calabresi – è forse anche umoristica (viene in  mente Woody Allen se si pensa alla rapina progettata a diciassette anni, poi finita male), e dell’umorismo il poeta della beat generation è cantore come non pochi, a rendere omaggio a quella “beatitudine” di cui i beat sono testimoni “disperati”. In un misto di passione e distacco, fede e indifferenza. Nella sua Guida alla Beat generation (Cooper 2007), Emanuele Bevilacqua così ricorda Gregory Corso: «Posso dire solo una cosa», dice il poeta, «non perdete il senso dell’umorismo. L’umorismo è un dono divino, spazza via tutte le stronzate e se riesci a ridere di un problema serio allora il problema scompare, è finito, se riesci a riderci sopra. Parlo di umorismo di alto livello, e poi c’è la bellezza. Se hai umorismo e la bellezza non hai bisogno di altro. Non hai bisogno della verità, non hai bisogno di Dio, non hai bisogno della fede, della speranza, della carità, non hai bisogno della morte, tutte queste cazzate non ti servono a niente. La bellezza e l’umorismo, e con queste potrai essere una persona che affronta l’universo da sola, perché tutti dobbiamo affrontarlo da soli, siamo tutti soli. Mentre siamo qui sulla terra siamo insieme, ma quando moriamo siamo soli». Nelle parole di Corso il beat è qualunque cosa esista sulla terra in vece di un’altra. Qualunque cosa sia capace di guidare un uomo all’appuntamento col proprio destino: «il beat è qualunque uomo che rompa il sentiero stabilito per seguire il sentiero destinato», è la sua frase più celebre.
Ma più che una frase, forse, è l’intera biografia di un poeta dentro e fuori le mura di casa. La biografia di un uomo insolente ma che non dice mai “sciocchezze” (così Fernanda Pivano), un ragazzino angelico con tanta italianità in corpo (così Kerouac), il cui sentiero “stabilito” è quello che conduce alla perdizione e alla sofferenza in un mondo che non lo accetterà mai. Il padre non vuole che Gregory faccia lo scrittore («non c’è posto in questo mondo per uno scrittore poeta…»), ma lui scrittore lo diventa in carcere leggendo il possibile: i francesi, i russi, gli americani e i grandi John Keats e Percy Bysshe Shelley del quale rimarrà innamorato per la vita. A vent’anni l’incontro con Ginsberg al Greenwich Village che cambia quel che ancora c’è da cambiare (un incontro che avviene in un bar, anche quest’episodio sembra tratto da un film). È l’ingresso “ufficiale” nel “mondo beat di Gregory Corso. Poi, i viaggi in Europa e l’amore per le filosofie orientali. Inizia a scrivere già alla fine degli anni Quaranta. Alti e bassi: iniziale insuccesso e temi irrequieti di vita quotidiana “macchiata” da vena surreale, temi che disegnano una personalità con poche “certezze”, meno di quanto ne abbiano i “compagni” beat immersi nelle atmosfere esitanti dell’America postbellica.     
Ma Corso è un “vero” beat, forse più degli “altri”… La prima raccolta di poesie è del 1955 (The Vestal Lady on Brattle and other poems), in anticipo sui “manifesti” di Kerouac (Sulla strada - 1957) e Ginsberg (L’urlo - 1956), pubblicata grazie a una colletta degli studenti di Harvard. I suoi lavori più noti sono “Marriage” ironica composizione sul matrimonio (che lui tuttavia, non riuscì ad evitare, anzi…), “Benzina” raccolta pubblicata grazie a Ferlinghetti – e fra le poche cose tradotte in italiano, oggi per Guanda – e “Bomb” del ’58 un poemetto anticonformista che lo colloca fra i grandi del Novecento. Come un avanguardista (un futurista o anche un surrealista), Corso arricchisce i versi col “fattore forma” e redige la sua opera con il profilo di un fungo atomico. Ma c’è di più. Il poemetto si ispira alla cultura dell’odio e alle manifestazioni di feroce condanna dei cosiddetti pacifisti verso la bomba atomica. In queste manifestazioni Corso vede, né più e né meno, che la stessa cultura della violenza e dell’intolleranza che ha finito per generare proprio la bomba atomica. All’odio verso la bomba, Corso risponde invece con un “incredibile” (e provocatorio) atto d’amore verso di essa…
È di Corso, sempre secondo Bevilacqua, la migliore “definizione di beat. Una definizione che prescinde da quella “classica” data dagli studiosi della materia (che prende in considerazione la marginalità e la voglia di liberazione attraverso esperienze contrarie alla mentalità borghese) e che si condensa in un detto tutto sommato abbastanza semplice, anch’esso di natura tollerante e pacifista: «Noi abbiamo creato il cambiamento senza versate una goccia di sangue. Ed è vero, nella maggior parte dei casi la cultura predica la non violenza, e un aspetto positivo è che la cultura Beat ha affrontato, sia in America sia in Europa, il problema mondiale della fobia degli uomini. Siamo molto più liberi adesso, siamo più tolleranti verso comportamenti sessuali e stili di vita “diversi”, e questo in parte è dovuto anche all’apertura mentale della Beat Generation».
È questo il bagaglio di cultura che Corso porta nell’Europa ove tutto ebbe inizio, quell’Europa che Corso ha nel sangue e nel cervello. In Francia frequenta il Quartiere latino e il “Beat Hotel” e conosce Jean Genet; in Italia va ospite di Fernanda Pivano (ospite di giorno, perché di notte preferisce invece dormire all’aperto, sotto le stelle dei giardinetti…). A Roma – partecipando a letture poetiche con accompagnamento musicale – fra i Settanta  e i primi anni Ottanta tutti lo possono vedere nel cuore della Capitale, fra campo dei Fiori e Piazza del Popolo. In molti non sopportano la sua figura da barbone avvinazzato (alla fine della giornata, guardandosi intorno, va ripetendo in slang “italo-americano”: Dove my casa? – frase che diventerà il titolo di una raccolta di poesie), altri, invece, come per esempio la poetessa Amelia Rosselli o artisti della transavanguardia apprezzano la grandezza di chi, nel Novecento, ha offerto l’ennesima svolta alle arti e alla scrittura…. È il destino degli “alternativi”: piacere o non piacere punto. Degli “alternativi” autentici, ovviamente. 
Corso è un uomo colto. Ferito dal rifiuto della vita fin dalla più tenera età, è per ciò stesso un uomo schietto ed essenziale e non ama (dicono), le congetture o le filosofie da “professori di filosofia”. Non c’entra nulla né con la vita comoda né con i ghiribizzi scritti o orali. Ha una mente “folle” da impressionista, è un verseggiatore che riassume in poche righe quello che altri direbbero in un trattato a più tomi: «Può darsi che io non sappia tutto quel che c´è da sapere, ma so con certezza che non c´è poi così tanto da sapere…», scrive ne “Il mio credo a Roma”, strana poesia dedicata a un luogo che per lui rimarrà fondamentale per la vita e per la morte. 
In molti sanno infatti, che Corso, o meglio le sue ceneri, sono sepolte presso il cimitero acattolico della Capitale, al Testaccio. Proprio vicino la tomba di Shelley – ma anche di Keats – i poeti che lui ha più amato in vita. Proprio Shelley, il “responsabile” della carriera di poeta di Corso… “Restare” per l’eternità a Roma – per chi ha origini italiane poi – nasconde un significato profondo. È l’unione eterna con la madre di ogni cultura, è il “matrimonio” consumato postumo con quella classicità di cui Corso rimane figlio prediletto, di cui andava fiero quando diceva di essere nipote di una guardiana di capre, nei luoghi ove “Pitagora dava lezioni”. Sulla sua lapide questi versi: «Lo spirito / è vita / attraversa / la mia morte / all´infinito / come un fiume / che non ha paura / di diventare / mare». Chiunque pensasse di trovare nei poeti americani l’elogio dei “fuoricampo”, delle bocce da Bowling o delle menti di Wall Street, beh, leggendo Corso, rimarrà estremamente deluso.