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Fenomeno transizione. Così cambiano le città

di Rosanna Calabrò - 08/02/2011

 Le Transition towns sono in costante aumento in tutto il mondo. Ecco come lavorano le comunità che vogliono affrancarsi dal petrolio. E che coniugano filosofia con vita d’ogni giorno.

Rob Hopkins non avrebbe mai immaginato che, quella che era nata come un’esercitazione di economia, sarebbe diventata la base per un movimento rivoluzionario: la scelta di abbandonare un modello di vita improntato sul consumo, il petrolio e il Pil ha dato vita a quelle che sono conosciute come transition towns, presenti ormai in tutto il mondo. Totnes fu nel 2006 la prima città in transizione; Monteveglio (Bologna) è ufficialmente la prima città italiana ad affrontare questo importante cambiamento. Ma come “nasce” e che cos’è una città in transizione? Si inizia da un piccolo gruppo di persone motivate che si riuniscono per condividere le stesse preoccupazioni: è possibile trasformare in opportunità i rischi dovuti al picco del petrolio ed ai cambiamenti climatici?
 
Si forma così un Gruppo Iniziale o Gruppo Guida che, adottando il modello filosofico e operativo della Transizione, si adopera per coinvolgere un numero significativo di persone e creare un’ Iniziativa di Transizione, ossia una comunità che lavora insieme cercando delle soluzioni per una vita quotidiana indipendente dal petrolio. Si attiva una fase di “studio” e di connessione con le altre realtà esistenti, con le amministrazioni locali e un collegamento con le altre Iniziative di transizione. Si compongono dei gruppi che, in virtù delle esperienze e conoscenze di ognuno, si occupino delle tematiche fondamentali per la vita della comunità. Il confronto interno è il sale della comunità stessa; l’obiettivo: definire un piano di decrescita energetica, progettato e messo in atto in un arco ragionevole di 15/20 anni.
 
Dal Canada all’Inghilterra, dal Michigan a New York, dall’Irlanda al Portogallo, dalla Francia al Giappone, sono ormai centinaia gli Stati dove sono in corso iniziative di “Transizione”. In Italia ce ne sono 16, 10 sono Città, 4 sono Centri di Avviamento Temporaneo, uno è un Quartiere in Transizione e una è una valle. Cristiano Bottone, di Transition Italia ci informa che a brevissimo si aggiungeranno il CAT di Roma e una nuova CT vicino Taranto. «Il nome dell’iniziativa, il suo campo d’azione, l’ufficialità stessa vengono decise da chi la forma. Per diventare ufficiali basta compilare una specie di check list necessaria, per chi ha dato vita all’Iniziativa, a tenere a mente i principi base e alcuni aspetti importanti del processo. Questo modulo viene spedito a Transition Italia che ne prende atto e verifica che ci siano le condizioni minime. Quando non si è riusciti a formare un Gruppo Guida perché le persone coinvolte non vivono abbastanza vicine tra loro, si passa alla formula CAT in attesa che si possano formare i GG. Il processo di transizione procede casa per casa, livello per livello, dal locale al globale senza alcuna preclusione ideologica».
 
Un processo molto libero, al punto che intere nazioni (come la Nuova Zelanda) hanno deciso di non formalizzare in alcun modo l’adesione al movimento e non hanno Iniziative Ufficiali pur avendo decine e decine di comunità impegnate nel processo di Transizione. E in Italia? Cristiano Bottone sottolinea come la situazione sia in perenne cambiamento: «Monteveglio è certamente la realtà in cui il processo si sta diffondendo nel modo più organico, ma anche a L’Aquila, Carimate e S. Lazzaro ci sono segnali molto interessanti. Uno degli elementi di grandissima forza della Transizione è il potere contaminante».
 
Difficoltà ce ne sono, e tante. Il tessuto sociale stesso ostacola il diffondersi di esperienze di questo tipo; «In Italia - continua Bottone - la nostra genetica predisposizione a chiuderci in piccoli circoletti di potere che non vogliono comunicare gli uni con gli altri rappresenta un fattore di difficoltà non da poco. Per fortuna, le cose stanno cambiando...» Quello che occorre ricordare è che la Transizione è un processo. «Non è importante segnalare cosa si fa, quello che importa è capire come si è arrivati a farlo. È questo che ci interessa disseminare: il modo. Il rischio è infatti quello di copiare ciò che è già stato fatto da qualcuno senza capire se nel proprio contesto ha senso».