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La rivolta araba

di Carlos Pereyra Mele - 09/02/2011



La rivolta araba

La crisi nei paesi del nord dell’Africa e del Medio Oriente si allarga a macchia d’olio, e le spiegazioni che si possono ricavare dalle grandi agenzie informatiche “occidentali” sono di una superficialità enorme. Ma certo, dopo aver sottoposto il lettore per svariati anni a un discorso monocorde e disinformante, ora si trovano a non avere una spiegazione “razionale” sulla grande ribellione del mondo arabo e periferico della vecchia Europa. Seguendo le direttive delle loro case madri, le quali si riducono ad affermare gli interessi politico-economici del sistema che le amministra e che ha consentito alla società europea possedere un tenore di vita basato nel consumismo sovradimensionato, il quale necessita lo sfruttamento delle risorse delle sue ex colonie “diventate indipendenti” (e per questa ragione dovettero spalleggiare i “regimi moderati”, perché questi consentono alle multinazionali depredare i propri paesi e, come contropartita, i governi europei consentirono la presenza di queste dittature che definirono come “democrazie incomplete”), le quali possono sfruttare i loro popoli e rapinare la propria economia (“rubando”), in convivenza illecita con il sistema finanziario che le ha consentito di depositare i furti perpetrati in Europa.

Ma, quale è il fondamento di quel mondo formato da Regimi Arabi Moderati: la repressione interna – un regime poliziesco che governa con un’opposizione funzionale ad esso -, che consente alle organizzazioni internazionali pianificare le loro economie per così aderire al libero mercato e concedono basi militari alle forze della NATO-USA nei propri territori e che, fondamentalmente, non mettono in discussione le politiche di Israele in Medio Oriente.

Questi governi “pro-occidentali” e “moderati”, in realtà sono: antidemocratici e corrotti, con due modelli: dittatori o monarchie corrotte. Basta ricordare il caso dell’ex monarca del Marocco: Hassan II, che aveva in deposito nelle banche di Parigi 50.000 milioni di dollari e il debito estero marocchino in quello stesso periodo era di 20.000 milioni, una rapina di due volte e mezzo il debito estero (e il re di Spagna lo riteneva un fratello). Monarchie, lo dobbiamo ricordare, sono creazione della politica estera inglese e francese dopo che nella Prima Guerra Mondiale (1918) prevalsero sull’impero turco e crearono paesi secondo le loro misure e interessi. Per raggiungere questo scopo, elevarono al rango di famiglie regali a capi tribù nomadi del deserto arabo e del Sahara (comunque funzionali in un primo momento agli interessi europei e, in seguito, a quelli americani), i quali attualmente esibiscono in modo scandaloso le proprie ricchezze in qualsiasi luogo del mondo, mentre le loro comunità soffrono sottosviluppo e impoverimento sempre maggiori.

Se esponiamo questa introduzione, è perché i mezzi occidentali “stanno scoprendo” che Ben Ali in Tunisia era un presidente corrotto, ma che per svariati anni si servì del potere, grazie alla complicità delle potenze occidentali.

Tuttavia, a queste ultime è più difficile spiegare come per trent’anni non pesero nota sul fatto che il “faraone H. Mubarak” governò sotto stato d’assedio e che vinceva le elezioni in Egitto con più del 90% delle preferenze. Oggi, tutti si vogliono scrollare di dosso questo burattino della repubblica imperiale americana e dei suoi alleati della NATO, i “giornalisti” delle grandi agenzie si preoccupano per i diritti umani del popolo egiziano e i diritti politici violati per decenni, riconoscono che questo paese è privo di sovranità alimentare, poiché è il primo importatore mondiale di grano e che con l’aumento del prezzo dello stesso, la società egiziana fa la fame. Quello che in verità sta succedendo è che potevano consentire una rivolta in Tunisia, ma in Egitto è diverso, questa nazione africana ha da sempre avuto una presenza e influenza importante nel mondo arabo, particolarmente, dalla caduta del regime del corrotto re Faruk (burattino degli inglesi) nel 1952, da parte degli ufficiali liberi capeggiati dal colonnello Nasser, e che produsse un’ondata di rivoluzioni in tutto il Medio Oriente. Attualmente, l’Egitto con i suoi ottantatré milioni di abitanti, continua ad essere un paese chiave per la regione e per la sua stabilità.

Affermiamo ciò per ben tre motivi: 1) L’Egitto è un paese chiave per la stabilità della zona di maggiore produzione di risorse energetiche con un esercito potente. 2) Paese alleato degli USA e che rappresenta il terzo acquirente di armi per l’economia americana, dopo Israele e Arabia Saudita, il quale ha riconosciuto Israele come Stato, firmando un trattato di pace con lo stesso, integrandosi nell’onda globalizzatrice per consentire l’arrivo di “investitori” secondo le leggi del “mercato”. 3) Controlla il canale di Suez, dove circola la maggior parte delle merci dall’Asia verso l’Europa ed è rotta delle navi cisterne petroliere dal Golfo Persico verso l’Europa assetata di energia, collegando il Mar Rosso con il Mare Mediterraneo.

Per quanto detto prima siamo di fronte a un conflitto che deve essere “risolto” dai fino ad ora detentori di benefici e loro rappresentanti in quel paese, per questa ragione la stampa, come abbiamo spiegato in precedenza, affronta l’argomento con una politica di confusione e superficialità. Confusione: perché celano la matrice del conflitto che non è altro che l’attuale approfondimento nella periferia del crac finanziario-economico che trascina gli USA e l’Europa dal 2008; che il modello globalizzante possiede mostruosi limiti e che i paesi dipendenti soffrono enormi crisi sociali dopo avervi aderito, senza possedere alternative di fronte alle ricette “ortodosse” che esigono gli organismi finanziari internazionali (è di qualche giorno la notizia che l’ex premier britannico Brown ha manifestato la sua preoccupazione sul fatto che l’ondata di protesta si trasferisca ai paesi poveri dell’Unione Europea). Superficialità: perché cercano d’imporre l’idea che giovani universitari “disoccupati” rappresentino l’anima della ribellione e che l’impiego di “strumenti” comunicativi come “Twister” o “Facebook” sono la chiave di questo movimento e, inoltre, utilizzano il decontestualizzato espediente di spiegare il conflitto comparandolo con le ribellioni delle ex repubbliche sovietiche e le loro rivoluzioni dei colori.

Tutta questa “non spiegazione” del conflitto in atto ha come scopo l’instaurare un regime gattopardista (che cambi qualcosa per non cambiare niente), gli USA e l’Europa hanno abbandonato il burattino Mubarak per cancellare il loro passato di collaborazione e appoggio al dittatore corrotto. E per tale ragione, giocano le loro carte in due sensi: mediante l’imposizione del capo dei servizi segreti, Omar Suliman (attuale vicepresidente), sostenuto dalle Forze Armate; o un governo presieduto dal premio Nobel per la Pace, Mohamed El Baradei. Tutto è in movimento, cosa accadrà all’opposizione perseguitata da MubaraK?: comunisti, islamici, militanti di sinistra, Fratellanza Musulmana, è la domanda che oggi percorre in tutte le capitali dove si disegna il Nuovo Ordine Mondiale, mentre per le strade la massa degli arabi esige: giustizia, libertà e regimi sovrani che interpretino il volere dei loro popoli, ciò sarà pericoloso per l’ordine globale esistente, per tale motivo sicuramente si farà ricorso alla violenza per impedire che si allarghi la ribellione.

Da un punto di vista geopolitico, concordo con il Dott. Tiberio Graziani: “La destabilizzazione in corso apre due ipotetiche ed opposte prospettive. La prima è la prospettiva diffusa dai mass media e dagli analisti occidentali che predicono una soluzione democratica coerente con i dettami dell’ideologia occidentale americano-centrica, pertanto un’evoluzione della protesta popolare di tipo “laico” e non islamica”. Vale a dire, un nuovo vassallaggio.

L’altra prospettiva, più conforme agli interessi delle popolazioni dei paesi del Vicino e del Medio Oriente, è quella che si potrebbe mettere in atto nel caso in cui le potenze regionali emergenti, la Turchia de Erdoğan – Gül – Davutoğlu e la Repubblica islamica dell’Iran, assumessero un ruolo internazionale di riferimento per le proteste in corso. Se così fosse, le influenze esterne all’unità geopolitica, costituita dal bacino mediterraneo e dal Vicino e Medio Oriente, sarebbero equilibrate e frenate”. (1)

Non è poco quello che è in gioco nel Medio Oriente in questo momento.


* Carlos A. Pereyra Mele, membro del CEES e del Comitato Scientifico di “Eurasia”