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Anche i pellerossa hanno i loro Picasso

di Maria Giulia Minetti - 13/02/2011

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Se c’è un’idea sconfitta nella nostra cultura occidentale, è quella romantica della creazione «popolare», l’opera d’arte come espressione del Volk che l’ha prodotta, l’individualità dell’artista disciolta in quella della nazione, come si credeva dimostrassero gli anonimi manufatti medievali, le statue e le chiese, gli affreschi e i castelli. Sconfitta dagli studi, dall’emergere delle personalità artistiche nonostante l’assenza di firme e biografie, l’idea però non è morta. Piuttosto, è trasmigrata.
Per razzismo, per esigenze catalogatorie, per difficoltà o vera impossibilità di indagine, all’identificazione degli artisti «etnici» s’è rinunciato fin da subito. Erano del resto, le loro opere, frutto per lo più di razzie, e esposte per interesse antropologico, «segni» culturali, elementi descrittivi, non autonomi lavori individuali.
E benché chiunque conosca appena un poco i musei d’arte «primitiva» sappia benissimo che anche lì, come in ogni museo, ci sono capolavori e lavori minori, oggetti di sbalorditiva originalità creativa e oggetti di semplice osservanza tradizionale, tuttavia ci si accontenta, per identificare gli uni e gli altri, dell’etichetta che indica l’etnia di appartenenza, a volte solo l’area geografica d’origine.
Ma oggi dall’America dallo Stato del Colorado, per la precisione giunge una notizia davvero fuori dell’ordinario. Il Denver Art Museum ha appena riaperto le gallerie dedicate all’arte dei nativi americani (American Indian Art Galleries) dopo una chiusura di sette mesi, e, scrive Judith H. Dobrzynski sul New York Times , «il grande cambiamento non cercatelo nella forma dei nuovi espositori o nell’efficacia della nuova illuminazione. Il grande cambiamento è stato fatto dove meno vi aspettereste di trovarlo: nei cartellini sui muri. Per la prima volta molti dei lavori esposti sono attribuiti a singoli artisti invece che semplicemente alle loro tribù. È una vera rivoluzione...».
Autrice della rivoluzione, Nancy Blomberg, curatrice del settore d’arte nativo-americana. Dai diciottomila pezzi della collezione museale (tra le più ricche al mondo), Blomberg ha scelto circa 700 opere: «Volevo far sapere che anche in questo campo ci sono fior di artisti, con caratteristiche ben precise». Il lavoro di identificazione è stato duro, un metodo di confronti e raffronti minuziosi e faticosi, più l’inevitabile dose di fortuna, a volte folgorante, come ha raccontato ancora eccitata per una recente scoperta. È il giugno scorso, e la signora sta sfogliando un catalogo della casa d’aste Bonhams & Butterfields, quando s’imbatte in due pitture a inchiostro e acquerello. Una raffigura la Danza del Sole della tribù degli Ute, l’altra la Danza dell’Orso della medesima tribù. La mano che ha eseguito le due opere nota immediatamente Blomberg è senz’altro la stessa di un’altra presente nella collezione del museo fin dagli anni Trenta, che però non reca indicazioni di sorta. Lei stessa ha mostrato il dipinto a varie tribù del Colorado, ma invano: nulla è emerso. C’è dell’altro: non è la prima volta che opere del misterioso autore che ha un tratto riconoscibilissimo le compaiono davanti agli occhi. Le ha viste nelle collezioni di altri musei, compreso il Peabody di Harvard.
«Nessuno aveva idea da dove venissero ha detto all’inviata del New York Times -. Ma il catalogo di Bonhams sì». Il catalogo non solo indicava che nel lato in alto a destra i due dipinti erano firmati con un nome, Fenno, ma citava l’articolo di un giornale dello Utah del 1911 (fornito insieme ai quadri da chi li aveva venduti alla casa d’aste), dove era narrata la brutta fine di Louis Fenno, «il più grande artista Ute», steso a revolverate da un tale W. T. Muse nel 1903 in circostanze mai chiarite. Di Louis Fenno oggi si potrebbe cominciare a tracciare un vero e proprio ritratto, ma le comunicazioni fra musei non sono facili come potrebbe sembrare. Anche se il tentativo di identificare gli artisti nativo-americani sta diffondendosi in tutti gli Stati Uniti per adesso sporadicamente, ma Nancy Blomberg fa già scuola manca un efficace coordinamento. Sicché opere di un artista «firmate» in un museo, continuano a essere anonime in un altro. Ormai, però, la macchina dell’identificazione si è messa in moto. I futuri studenti di storia dell’arte avranno molti nomi nuovi da imparare.