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Ritorno a Gaza: l’esercito israeliano rientra nella Striscia e uccide

di Naoki Tomasini - 30/05/2006

A quasi un anno dal disimpegno, l’esercito israeliano rientra nella Striscia e uccide
Sette palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano nella notte tra lunedì e martedì: quattro a Gaza e tre in Cisgiordania. Due militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa e uno di Jihad islamica sono morti durante scontri a fuoco con l’esercito israeliano impegnato in altrettanti raid nei villaggi di Anabta, Kabatiya e nel campo profughi di Balata, a Nablus, in Cisgiordania. Ma la vera novità sul campo è l’incursione che ha visto le truppe dell’esercito di Tel Aviv rientrare per la prima volta nei confini della Striscia di Gaza, a quasi un anno dal disimpegno dalle 21 colonie e dalle postazioni militari israeliane, avvenuto nell’agosto del 2005.
 
Un carro armato israeliano a Beit Lahya, prima del disimpegnoRiconquistare Gaza. L’esercito israeliano è penetrato nella Striscia, a nord di Gaza, per impedire il lancio di razzi sul territorio del Negev. Uno scontro a fuoco tra esercito e miliziani di Jihad islamica è iniziato nei pressi del confine e si è concluso con un missile sparato da un elicottero da combattimento, che ha ucciso i tre miliziani e un agente della guardia presidenziale accorso sul posto assieme ai sanitari. Anche diversi civili sono rimasti feriti. Dalle elezioni di gennaio a oggi, il nord della Striscia è stato oggetto di imponenti bombardamenti –si è parlato di 2/300 tra colpi di cannone e missili al giorno -, che sono costati la vita a numerosi palestinesi, ma non sono stati efficaci nel dissuadere i militanti dal lanciare i pressoché innocui razzi Qassam sui villaggi israeliani a ridosso del confine. Anche Hamas, un tempo in prima linea nel lancio di razzi, oggi non sembra in grado di mantenere l’ordine sul terreno impedendo che altri lo facciano al posto suo. Oggi a sparare su Israele sono esponenti delle Brigate dei Martiri di al Aqsa e della Jihad, il cui primo obiettivo è contendere ad Hamas la gestione della sicurezza nella Striscia, anche creando ulteriore attrito con Israele. Il gruppo di Jihad ha emesso un comunicato in cui conferma le uccisioni dei suoi militanti e sostiene che loro intendevano attaccare Israele in risposta alla politica israeliana degli omicidi mirati e, in particolare, all’attentato che venerdì scorso ha ucciso Abu Hamza al Majzoub, un loro alto esponente in Libano. Il governo di Tel Aviv, invece, teme che il legame tra il gruppo militante libanese e iraniano Hezbollah sia la premessa di un’escalation militare palestinese, intravista con la recente comparsa a Gaza di razzi Katyusha in luogo degli artigianali Qassam.
 
Dialogo a distanza. La scorsa settimana Abu Mazen ha tentato di ricomporre la trama del dialogo con Israele, bloccata sul nodo del non riconoscimento dello stato ebraico da parte di Hamas, conil rischio di un referendum popolare se Hamas non rinuncerà alla sua linea massimalista e non riconoscerà Israele e gli accordi siglati dai precedenti governi dell’Anp. Mahmoud Zahhar, ministro degli Esteri di Hamas, ha ribattuto che “un referendum sarebbe una perdita di soldi e tempo, nessuno riconoscerà Israele”. La proposta di Abu Mazen però è rivolta anche a Israele, cui si offre un accordo di pace in cambio del ritiro dai territori occupati dopo il 1967, cioè tutta l’attuale Cisgiordania e Gerusalemme Est. Di fatto però Israele sta stringendo sempre più la morsa sulla Cirsgiordania e l’annessione di Gerusalemme è ormai a un livello molto avanzato. In conseguenza degli scontri di ieri, le autorità israeliane hanno revocato la residenza a Gerusalemme Est a quattro esponenti di Hamas: Mohammed Abu Teir, Ahmed Abu Atoun e Mahmoud Totach, che non potranno entrare nella città Santa e in territorio israeliano, a meno che non rinuncino alle loro cariche nel governo. Proprio in questi giorni a Ramallah è stato organizzato un incontro tra esponenti di Fatah e Hamas, per permettere alle due formazioni di riprendere il dialogo e la collaborazione che si sono affievoliti a partire dalla vittoria di Hamas nelle scorse elezioni. Abu Teir, Abu Atoum e Totach non hanno potuto partecipare a causa delle restrizioni del movimento per i palestinesi privi della Residenza a Gerusalemme, e anche Mushir al Masri, portavoce di Hamas, è rimasto bloccato per due giorni dai check point israeliani. Ancora una volta, la sensazione è che il caos tra le fazioni palestinesi sia fomentato, sia a livello economico che politico, da Israele. Il mancato riconoscimento della legittimità della vittoria di Hamas e il sabotaggio economico ai danni dell’Anp sono benzina gettata sul fuoco di una guerra civile che, se esplodesse, andrebbe a tutto vantaggio di Israele e delle sue politiche unilaterali.