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Il “colonnello” e la follia della guerra civile

di Alessia Lai - 23/02/2011

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Mubarak, Ben Ali: principianti. Nei loro ultimi discorsi alla popolazione, anche quando hanno manifestato la volontà di rimanere al potere, i presidenti tunisino e egiziano non hanno mai raggiunto le vette toccate ieri dal “leader della rivoluzione” libico. Probabilmente perché dalla politica, per quanto lontana dal popolo e autoritaria, siamo passati nell’ambito della psichiatria.
La rivoluzione è un attimo e Gheddafi non se ne è accorto. Dal 1969 sono passati troppi anni. Il libretto verde, l’antimperialismo, la nazione africana: leit motiv di una leadership troppo lunga, logorata dal sospetto di interessi personali nelle ricchezze del Paese. “Muammar Gheddafi non ha nessun incarico dal quale dimettersi. Non sono un presidente, sono la guida della Rivoluzione e tale resterò” ha tuonato il “colonnello”. La guida di una rivoluzione - che non è certo un pranzo di gala come quelli ai quali il leader libico ha partecipato in questi anni col suo seguito di amazzoni, tende, figli e parenti in giro per il mondo – non dovrebbe però trasmettersi per linea genetica. Un dubbio che non sfiora il “colonnello”, che da tempo progetta di consegnare la guida del Paese a uno dei suoi figli. Bravi ragazzi, mica “drogati” come quelli scesi nelle strade della Libia contro la “rivoluzione”.
Muammar Gheddafi, ieri, si è ricordato che “bisogna distribuire al popolo i proventi del petrolio libico”, uno sforzo che in 42 anni di potere non gli è evidentemente riuscito. In compenso ha esortato la popolazione, quella rimastagli fedele, a uscire dalle case per andare a caccia di rivoltosi, per attaccare i manifestanti. La “guida della rivoluzione” consegna il destino Paese agli umori della gente, alla sete di vendetta, alle rivalità tra clan. Dopo le bombe dall’alto, Gheddafi condanna la Libia alla guerra civile.