Le ferite del Risorgimento
di Paolo Mieli - 08/03/2011
   
 Tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1961, quando  si celebrò il centenario dell'Unità d'Italia, gli studenti delle scuole  secondarie nel nostro Paese raddoppiarono passando da 369 mila a 840  mila e crebbero a dismisura anche le iscrizioni all'università, in  particolare alle facoltà di Lettere, le quali offrivano una laurea che  avrebbe garantito l'accesso all'insegnamento scolastico. Purtroppo,  però, per ciò che riguarda la storia, quegli studenti furono costretti a  frequentare una «scuola dell'oblio». In che senso? Lo spiegano le  pagine finali del libro di Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini dedicato  alla Storia dell'Italia unita pubblicato recentemente da Garzanti.  Scrivono i due autori che, nell'imbarazzo di approfondire cause,  responsabilità e corresponsabilità del regime mussoliniano, «le nuove  élites politiche antifasciste sembrarono voler rinunciare a utilizzare  l'insegnamento della storia come strumento per costruire legittimazione,  consenso, identità collettiva attorno alla Repubblica democratica, come  avevano fatto la classe dirigente liberale e quella fascista». Di  conseguenza andò affermandosi un modo di insegnare la storia assai poco  problematico che puntava «piuttosto sull'oblio che sulla presa di  coscienza», dove imperavano le «ricostruzioni di comodo del passato».   
   I bersaglieri scrutano San Pietro alla vigilia di Porta Pia in un dipinto del 1915 di Michele Cammarano  
Questo modo di insegnare la storia all'insegna della rimozione non fu modificato - se non in parte - dopo il 1961 e, anzi, si estese dal ventennio fascista a tutto il racconto di come era stata fatta l'Italia e di quali erano stati i problemi che il nostro Paese aveva dovuto affrontare nei suoi primi decenni di vita. Ciò che spiega perché, anche di recente, abbiano avuto grande successo di pubblico non solo libri filo risorgimentali come il convincente Viva l'Italia! di Aldo Cazzullo e il raffinato, divertente La patria, bene o male di Carlo Fruttero e Massimo Gramellini (entrambi editi da Mondadori) ma anche - soprattutto - testi come il bestseller Terroni (Piemme) di Pino Aprile e il fortunato Il sangue del Sud (Mondadori) di Giordano Bruno Guerri, volumi impegnati a togliere il velo che ammantava gli aspetti più controversi della conquista dell'Italia meridionale. Così come altri che facevano la stessa operazione con il complicato rapporto tra il mondo cattolico e quello liberale o la drammatica transizione dal fascismo al postfascismo. Probabilmente è vero che tali testi non aggiungevano informazioni nuove rispetto a quelle già note agli specialisti della materia, ma questi libri di dissacrazione andavano incontro ad un diffuso desiderio dei lettori di saperne di più in merito a questioni che la scuola e l'università avevano e hanno continuato ad affrontare in modi assai elusivi.
   
 Per questo motivo - al di là delle obiezioni che si possono  muovere e che faremo anche in questa sede - va salutata con favore la  pubblicazione di 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile  di Massimo Viglione, che le edizioni Ares si accingono a mandare in  libreria tra qualche giorno. Sono vent'anni che Viglione si occupa di  questi temi dedicandosi - con un'ottica da cattolico tradizionalista -  da principio a La Rivoluzione francese nella storiografia italiana dal 1790 al 1870 (Coletti) e in seguito alle «insorgenze», cioè alle rivolte antinapoleoniche negli anni 1796-1815 (Rivolte dimenticate,  recita il titolo di un suo testo pubblicato nel 1999 da Città Nuova).  Stavolta il libro di Viglione è un utile manuale delle contestazioni al  Risorgimento e ai primi decenni dell'Italia unita. Contestazioni non  nuove, ripetute anche nel recente volumetto del cardinale (in pensione)  Giacomo Biffi, L'Unità d'Italia. Centocinquant'anni 1861-2011  (Cantagalli). Il testo di Viglione è pieno, però, di riconoscimenti a  storici di formazione molto diversa dalla sua. Il che si segnala come un  gesto inedito e cavalleresco, atto a favorire un confronto civile.   
   Solo alcuni sacerdoti però appoggiarono la lotta per l’unità  nazionale. Tra questi, uno dei più noti è don Enrico Tazzoli (nella  foto), impiccato dagli austriaci a Belfiore (Mantova) il 7 dicembre 1852  
Punto di partenza del libro è che «mai l'Italia fu amministrativamente e politicamente unita dalla preistoria al 1861 (anche nei secoli romani non si può parlare di "unità" nel senso moderno del concetto), ma sempre fu unita nella sua universalità». Ancora a metà del XIX secolo, quello che oggi è il nostro territorio nazionale «era sempre stato abitato non da un popolo etnicamente unitario, ma da un insieme di popolazioni, unite tra loro esclusivamente dall'elemento religioso e dalla memoria - più o meno pregnante - dell'eredità di Roma imperiale e della sua civiltà». Per mille e cinquecento anni, dalla fine dell'Impero Romano, aveva scritto Aldo Schiavone (Italiani senza Italia, Einaudi), la Chiesa «si era data la missione di tenere insieme, pur adattandosi alle diverse epoche, le torri e i campanili d'Italia». L'istituzione religiosa ebbe dunque «la ventura di rimanere l'unica forza attiva nella Penisola che fosse riconducibile a una genealogia italiana... Finì con l'assumere perciò un ruolo di supplenza scopertamente politica ben al di fuori dei confini dei suoi domini temporali; in molte occasioni di difesa e di protezione locale - o almeno di velo - contro l'invadenza straniera». E, prosegue Viglione, «visto che la religione e la Chiesa cattoliche erano di fatto non solo l'anima dell'italianità, ma anche l'unico concreto elemento unificatore delle popolazioni preunitarie, sarebbe stato logico ritenere che proprio su tale elemento si sarebbe dovuto far leva per costruire un processo di unificazione nazionale e statuale di tali popolazioni». E invece...
Invece le cose andarono alla maniera per la quale Viglione riprende la definizione «Rivoluzione italiana». Nel senso che tra l'altro «l'unificazione avvenne non solo non rispettando, ma andando contro il diritto vigente dei vari legittimi Stati preunitari, che furono infatti conquistati con la violenza e con l'inganno». E una volta fatta l'Italia ad opera di élites minoritarie, si dovette procedere a «fare gli italiani» come disse Massimo d'Azeglio. Gli uomini del nostro Risorgimento, scriveva Adolfo Omodeo, «operarono essi per il popolo; si adattarono ad essere loro la nazione». È vero: da noi, come ha notato Ernesto Galli della Loggia (L'identità italiana, Il Mulino), si è fatta storia alla rovescia; prima si è costituito uno Stato, poi si è dovuto pensare a creare una nazione. E, per giunta, contro la Chiesa. L'Italia, ha scritto ancora Galli della Loggia, si trova ad essere «l'unico Paese d'Europa (e non solo dell'area cattolica) la cui unità nazionale e la cui liberazione dal dominio straniero siano avvenute in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale... L'incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e Cristianesimo, è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale».
   
 Il che ha provocato, fin dal principio della nostra storia,  problemi evidenti. Poco prima di morire, non ancora trentenne, nel  misterioso naufragio del piroscafo «Ercole» il 4 marzo del 1861 (dopo  aver partecipato all'impresa dei Mille), Ippolito Nievo scrisse alcune  riflessioni sulla società italiana, un «frammento sulla rivoluzione  nazionale», che contengono notazioni dalle quali si desume che i  problemi connessi al tema trattato in questa sede erano già ben  individuabili anche agli albori del nostro Stato unitario. «È tempo di  dire la verità e di dirla intera», scriveva Nievo; «Sì! Questa inerte  opposizione o questa muta indifferenza agli sforzi della nostra  intelligenza per conquistare i diritti di libertà cova ed opera  sordamente nelle nostre plebi. Se ne togliete le poche popolazioni  industriali (che sono eccezioni in Italia), la grande maggioranza della  nazione illetterata, il volgo campagnolo segue svogliato il progresso  delle menti elevate. È più di peso che aiuto al rimorchio; e, lasciato  appena, ricade contento nella propria quiete». Per cambiare la  situazione, a detta di Nievo, sarebbe stato necessario conquistare i  preti «funzionari indispensabili nella società attuale, soli  rappresentanti della intelligenza» del volgo. Gli artefici dell'Unità  avrebbero dovuto quantomeno rivolgersi al clero delle campagne e  «tirarlo dalla loro per guerreggiare l'influenza vescovile e papalina».  Parole che dimostrano, anche in uno scrittore tutt'altro che clericale,  una precoce consapevolezza dello stato preoccupantemente minoritario  della «rivoluzione italiana».   
   Ippolito Nievo (nella foto) richiamò la necessità di avvicinare il basso clero alla causa patriottica  
Anno d'inizio di questa vicenda è il 1796, quando Napoleone entra in Italia (che non è ancora tale, mancano 65 anni alla proclamazione dello Stato unitario) ed esplode la prima delle guerre civili che caratterizzeranno la storia del nostro Paese. Da una parte le repubbliche giacobine e democratiche nate sulla scia dell'invasione napoleonica, dall'altra le insorgenze controrivoluzionarie. Il cuore dell'autore batte, ad ogni evidenza, per le insorgenze. Viglione accusa il «giacobinismo» di aver introdotto nella Penisola «non solo lo spirito repubblicano, ma anche l'impronta laicista e anticattolica nonché la tendenza al totalitarismo», finendo per far venire alla luce «lo spirito antimoderno e tradizionalista di estesi ambienti del mondo cattolico». Gli italiani che affluirono nelle file dei rivoluzionari, divenendo giacobini, vengono definiti «collaborazionisti dell'invasore» (in effetti lo furono). Li si accusa di essere stati una esigua minoranza a fronte delle masse che si mobilitarono contro l'armata napoleonica (ed è vero che a contrastare qualche migliaio di «giacobini» scesero in campo trecentomila «insorgenti» lasciando sul terreno non meno di centomila morti). Ed è altresì innegabile che in particolare nel 1799, l'anno in cui la «rivoluzione napoletana» fu travolta sotto i colpi dell'Armata della Santa Fede del cardinale Ruffo, fu rovesciata la Repubblica Romana e i «Viva Maria» riconquistarono il Granducato di Toscana restituendolo ai Lorena, la rivolta degli insorgenti «assunse i caratteri di una grande insurrezione generale del popolo italiano contro l'invasore napoleonico e il giacobinismo». Tema trascurato per decenni, anche se Viglione dà atto all'Istituto Gramsci di aver pubblicato nel 1998 un numero monografico della rivista «Studi Storici» interamente dedicato alla questione, in cui - pur tra molte cautele - si riepilogano i fatti per come andarono realmente.
A Giuseppe Mazzini viene rimproverato l'«unitarismo accentratore», di essere stato il «grande ispiratore del totalitarismo italiano» e, riprendendo un giudizio di Sergio Romano, il «cinismo messianico» che lo indusse a (mal)congegnare una serie di complotti di cui, sempre secondo Romano, «troveremo tracce nella storia d'Italia fino ai giorni nostri». A Vincenzo Gioberti, che pure propose la soluzione neoguelfa - il Pontefice romano a guida di una confederazione degli Stati preunitari - che Viglione considera sarebbe stata la più adatta al nostro Paese, si rinfacciano pagine «di velenosissima critica contro l'odiata Compagnia di Gesù» e lo si accusa di aver ingannato lo stesso Pio IX.
   
 Si riconosce nel libro che, prima ancora dell'impresa dei  Mille, «una certa partecipazione popolare» si ebbe nella prima guerra di  indipendenza sia a Milano nelle Cinque giornate, sia nel volontarismo  contro l'Austria. Ma la si attribuisce al consenso che papa Mastai, nei  primi due anni di pontificato (1846-48), manifestò alla causa  risorgimentale. In seguito, dal momento in cui Pio IX ritirò le truppe  pontificie dalla guerra contro l'Austria e andò a monte il progetto  neoguelfo, dal quale «sarebbe nata un'Italia confederativa cattolica e  monarchica, decentrata e tradizionalista che avrebbe senz'altro riscosso  il consenso massiccio delle popolazioni italiane legate ai loro  legittimi sovrani», da quel momento tutto andò per il peggio. In questo  frangente, scrive l'autore, si produce la «leggenda nera» che descrive  gli Stati italiani preunitari come delle mostruosità intollerabili.  Viglione contesta questa descrizione: dà atto a Giuseppe Galasso e alla  sua scuola di aver «iniziato a rendere giustizia alla realtà civile del  Meridione sotto il Vicereame spagnolo, specie per quel che riguarda il  XVII secolo». Sostiene che, con l'ascesa al trono di Napoli e Palermo,  nel 1734, di Carlo di Borbone iniziò una stagione di riformismo  illuminato contrassegnata dai nomi di Giannone, Genovesi, Filangieri e  Pagano. Vede un degno successore di Carlo in Ferdinando IV, che poi  prese il nome di Ferdinando I (1759-1825). Loda anche la modernizzazione  dello Stato promossa da Ferdinando II (1830-1859). E riconosce allo  studioso Angelo Antonio Spagnoletti, di scuola storiografica diversa  dalla sua, di aver scritto nella Storia del Regno delle Due Sicilie (Il Mulino) cose molto sensate.   
   Giovanni Maria Mastai Ferretti (1792-1878) divenne Papa nel 1846 con il nome di Pio IX  
 Viglione enfatizza il ruolo avuto dall'Inghilterra protestante (e  sottostima quello della Francia cattolica) nell'aiuto dato a Cavour al  momento decisivo, tra il 1859 e il 1860, della costruzione del nostro  Stato unitario. È vero che nella prima metà dell'Ottocento Londra offrì  ospitalità a numerosi cospiratori, primo tra tutti Mazzini. È vero che  Palmerston, Russel e Gladstone (il quale in una celebre lettera a Lord  Aberdeen il 17 luglio del 1851 si spinse a definire il Regno delle Due  Sicilie «la negazione di Dio») diedero una mano alla causa italiana. È  vero che fu lo stesso Garibaldi a ringraziare, nel 1864 al Crystal  Place, gli inglesi per l'aiuto offerto all'impresa dei Mille. È vero che  quando i piemontesi nel 1860 invasero lo Stato pontificio, l'unico  Paese che lasciò il proprio ambasciatore a Torino fu la Gran Bretagna e a  Londra ci fu chi paragonò Vittorio Emanuele II a Guglielmo d'Orange. Ma  che tutto ciò facesse capo a un disegno di «protestantizzazione  dell'Italia» è tutt'altro che dimostrato. Gli inglesi, tra l'altro,  furono i primi a segnalare quel che non andava in Italia negli anni  successivi all'unificazione. Nel 1863 - è ben raccontato nel libro La  Rivoluzione italiana di Patrick Keyes O'Clery, pubblicato anch'esso da  Ares - il console inglese a Napoli, Bonham, denunciò le condizioni delle  carceri partenopee ancor più atroci dopo l'arrivo dei piemontesi. E,  dopo un dibattito parlamentare, l'Inghilterra spedì nell'Italia del Sud  Lord Seymour e Sir Winston Barron che confermarono i termini della  denuncia. In quello stesso anno, sempre nel Parlamento inglese, Disraeli  disse: «Desidero sapere in base a quale principio ci occupiamo delle  condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del  Meridione italiano. È vero che in un Paese gli insorti sono chiamati  briganti e nell'altro patrioti, ma, al di là di ciò, non ho appreso da  questo dibattito nessun'altra differenza». E, quando nel 1867 il  generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo, dopo la battaglia di  Mentana e la sconfitta di Garibaldi, un giornale di Londra registrò che  gli abitanti lo avevano accolto come «un liberatore» anche perché «erano  stati derubati di tutto dai garibaldini e le offese fatte alle loro  donne li avevano particolarmente esasperati». Ugualmente  sovradimensionato nel libro è il ruolo che nel Risorgimento ebbero i  protestanti. Ruolo che pure ci fu e che è stato efficacemente descritto  da Giorgio Spini. Così come esagerata appare la rappresentazione degli  influssi sul Risorgimento (anche questi, certo, ben presenti) della  massoneria. 
Particolarmente energico è, invece, il paragrafo del  libro dedicato alla farsa dei plebisciti che, con percentuali del 98 per  cento, consacrarono l'italianità dei territori annessi. Viglione mette  in rilievo come il voto che contestualmente fece diventare francesi  Nizza e la Savoia ebbe le stesse caratteristiche. In Savoia i favorevoli  all'annessione furono 130.533 contro 235, nonostante una petizione che  avversava l'annessione della Savoia stessa alla Francia avesse raccolto  ben 13 mila firme.
Efficace è altresì la parte che descrive la conquista del Sud, l'aiuto dato a tale conquista dalla malavita organizzata, la corruzione che si diffuse negli anni immediatamente successivi all'unità, la brutalità della repressione del «brigantaggio» ad opera del generale Cialdini: il computo dei morti non offre cifre sicure e definitive; è certo, però, che il loro ammontare fu superiore, e di molto, a quello dei caduti in tutti, proprio tutti, i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870. E dire che tutto era chiaro già da allora come si desume dalla denuncia al Parlamento italiano (novembre 1862) di Giuseppe Ferrari: «Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti ma i padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli... È possibile, come il governo vuol far credere che millecinquecento uomini comandati da due o tre vagabondi possano tenere testa a un intero regno, sorretto da un esercito di centoventimila regolari? Perché questi millecinquecento devono essere semidei, eroi! Ho visto una città di cinquemila abitanti (Pontelandolfo, ndr) completamente distrutta! Da chi? Non dai briganti».
Altrettanto forte è la parte del libro dedicata alla «guerra legislativa» contro la Chiesa. Sono cose abbastanza conosciute (se ne è molto occupata negli ultimi anni Angela Pellicciari) ma fa una certa impressione ripercorrere la lunga storia di leggi d'esproprio, istituti di assistenza soppressi, ordini religiosi aboliti, seminari, conventi, monasteri chiusi da un giorno all'altro, preti, vescovi e cardinali costretti all'esilio o messi in carcere. La gazzarra nel luglio del 1881 per gettare nel Tevere la salma («la carogna», puntualizzò il giornale repubblicano «La Lega della Democrazia») di Pio IX appena defunto. La destituzione del sindaco di Roma Leopoldo Torlonia, che il 30 dicembre del 1887 era andato in Vaticano a presentare gli auguri della cittadinanza a Leone XIII.
   
 Ancora da approfondire il rapporto tra la storia del Risorgimento e quella del fascismo su cui pure Emilio Gentile (nei confronti del quale Viglione ha parole di grande elogio) ha dedicato pagine molto acute ne La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel XX secolo (Mondadori).  Viglione scrive di non voler affermare che la dittatura fascista sia  «l'inevitabile conseguenza del Risorgimento, anche perché il  determinismo non appartiene alla nostra concezione storica e religiosa».  Ma, aggiunge, «certamente non è più possibile continuare a ritenere che  il fascismo sia stato qualcosa di estraneo - o addirittura di opposto -  al Risorgimento». E sono pagine destinate a far discutere.   
   Il problema del rapporto tra Chiesa cattolica e moto nazionale  italiano venne posto da Vincenzo Gioberti (nella foto) con la proposta  di creare nella penisola una confederazione presieduta dal Pontefice  
Merito di questo libro è quello di aver tenuto il punto in un contesto interlocutorio e dialogante nei confronti degli storici di opposte scuole e tendenze. Demerito quello di aver lasciato cadere qua e là espressioni eccessivamente dirette, o, per meglio dire, brutali (e talvolta offensive) nei confronti di molti protagonisti del passato risorgimentale. Napoleone che entra in Italia nel 1796 è un «invasore ladro, prepotente e stragista». I patrioti napoletani del 1799 «furono impiccati perché odiati da tutto il popolo». Gioberti «gettò la maschera» dopo la «parentesi neoguelfa» durante la quale era stato «talmente abile da riuscire a ingannare anche lo stesso Papa». Pontefice, Pio IX, al quale vengono imputati, prima del 1848, «cedimenti alle richieste sovversive». La spedizione dei Mille con quello che ne seguì è definita «una guerra di conquista effettuata con tradimenti, calunnie, corruzione e stragi da parte di uno solo dei sovrani italiani (Vittorio Emanuele II): il più scaltro e privo di scrupoli, indifferente alla stessa scomunica, sebbene cattolico praticante». I politici della sinistra meridionale furono «avventurieri al seguito dell'eroe dei due mondi che si distinsero per il malcostume»; la destra fu una «squadra al soldo di Cavour che non perdeva occasione per togliere alla gente del Sud ciò che era il suo pane quotidiano». Ancora: «Lottare per far divenire gli italiani protestanti nel XIX secolo, e ciò in nome dell'unità d'Italia, rappresenta forse la più odiosa ed evidente riprova della colossale ipocrisia dei padri - ideali e politici - della Rivoluzione italiana». E si potrebbe continuare.
Se vogliamo dibattere di storia dobbiamo riconoscere che ogni parte di questo libro si presta alla discussione. Ma va aggiunto che le esasperazioni polemiche, pur se attenuate rispetto a quelle contenute in analoghi testi pubblicati in passato, sono ancora troppe. Dobbiamo attendere altri cinquant'anni perché di questi temi si possa discutere con sobrietà?

