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Fattore Egitto. Crocevia del Vicino Oriente

di Ugo Gaudenzi - 10/03/2011

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Gli eventi in Libia, si sa, servono all’Occidente e ai media embedded di ogni colorazione per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal moto di rivolta generale che scuote il mondo arabo.
Prendiamo il caso egiziano. Dalla caduta di Mubarak non è cambiato nulla. I dimostranti chiedevano una giusta distribuzione delle ricchezze, la fine di un regime totalitario che invalidava i risultati elettorali sfavorevoli, la fine della censura, il ripristino dell’identità nazionale soffocata dalla “civilizzazione” all’occidentale e il recupero di una sovranità radicalmente limitata dai “protettori” atlantici. Il cambio della guardia militare – un auto-golpe – ha visto il cosiddetto Consiglio supremo delle Forze armate egiziane elargire una striminzita manciata di promesse a tempo, la più importante delle quali è la convocazione di elezioni generali per il prossimo settembre. E nulla più: tutto è rimasto immutato e immobile. Gli accordi con Israele, la sudditanza con gli Stati Uniti in particolare.
Il comandante in capo del “Consiglio” – il maresciallo Muhammad Hussein Tentaoui – è d’altra parte la stessa persona diventata ministro della Difesa dopo la partecipazione, nel 1991, alla guerra del Golfo anti-irachena guidata dagli americani. Un uomo che non ha mai nascosto le sue simpatie per Tel Aviv e che, già nei primi giorni del sollevamento popolare, era a Washington per elaborare con i “Protettori” gli scenarii di canalizzazione della protesta egiziana. Tornato al Cairo è rimasto in contatto con l’ “amico” Robert Gates, il capo del Pentagono già direttore della Cia. Un’amicizia che collega Gates anche al generale Omar Suleiman, l’uomo forte del dopo-Mubarak, già capo dei servizi segreti egiziani Egis e definito “uomo-chiave” dagli Usa. Suleiman, accusato di aver torturato, personalmente, vari “prigionieri” in odore di terrorismo, come il cittadino australiano Mamduh Habib o l’imam Abu Omar, rapito a Milano in Italia da dieci agenti Cia “coperti” dai Cc, o quell’Ibn ash-Sheik al-Libi le cui confessioni, estorte sotto tortura, avevano permesso nel 2003 a Colin Powell di dichiarare falsamente all’Onu – per giustificare l’invasione e l’occupazione di Baghdad - che nell’Iraq di Saddam Hussein venivano “addestrati guerriglieri di al-Qaida” legati a Osama bin Laden. Interessante notare che dopo la “confessione egiziana”, Ibn al-Libi fu deportato a Tripoli di Libia.
E qui è stato “suicidato” in prigione nel corso di una visita ufficiale di Suleiman al colonnello Gheddafi. Ritenuto un “fedele amico e alleato” da Israele e dagli Usa (le veline di Wikileaks lo dichiarano...), Suleiman è generalmente detestato in Egitto perché accusato della morte e della scomparsa di migliaia di militanti islamici “non democraticamente corretti”. E il suo nemico più potente sono i “Fratelli Musulmani”, l’unica opposizione diffusa a rete in tutti gli strati del popolo egiziano in attesa di presentarsi alle promesse “elezioni libere di settembre” e di prendere il potere. Una forza assolutamente non terroristica ma che si avvale di un consenso di maggioranza per le sue idee e i suoi programmi di sostegno al popolo palestinese, contro il blocco di Gaza (del quale artefice è stato appunto Suleiman) e contro i trattati con Israele.
Come dichiarava a fine febbraio Gilles Munier, opinionista francese molto vicino al mondo arabo, la “questione egiziana” è appunto il crocevia dove presto confliggeranno gli interessi antagonisti del popolo arabo e degli Usa.
E l’Italia, l’Italietta? Senza sovranità e aliena dal comprendere cosa accade nel suo stesso mare, ha scelto di stare all’ombra delle stelle e strisce.