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La crisi come opportunità

di Eduardo Zarelli - 14/03/2011

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La crisi economica mondiale sta producendo una recessione che diviene ogni giorno più profonda. Consumi che si contraggono, fabbriche che chiudono o delocalizzano la produzione nei paesi a basso costo di manodopera, opportunità di lavoro che si riducono drasticamente, tenore di vita di molte famiglie in caduta libera, in alcuni Paesi si palesa una crescente insofferenza sociale, sono tutti elementi di una nuova realtà, per molti versi antitetica rispetto a quella degli ultimi decenni del secolo scorso, vissuti all’insegna della crescita e dello sviluppo.
E se fosse una opportunità? Infatti, alcuni elementi di questa nuova realtà, la diminuzione del Pil e della produzione su tutti, potrebbero indurre a credere che la profonda recessione in cui siamo entrati, somigli alla società della decrescita, teorizzata da molti studiosi, fra i quali Alain De Benoist appunto, Serge Latouche, Maurizio Pallante, Nicholas Georgescu-Roegen, Gilbert Rist, per citare i più noti. Non è il caso di cominciare a riflettere se pensare soltanto agli aumenti del PIL non sia inappropriato? E addirittura se non ce la faremmo lo stesso a cavarcela - magari anche meglio - con una "economia in equilibrio sostenibile"? E cioè producendo, comprando e vendendo qualitativamente piuttosto che quantitativamente? In tal senso i tagli alla spesa pubblica degradata potrebbero rivelarsi una grande occasione per emanciparsi da clientele e rendite di posizione, rimpiazzando lo Stato sociale, degenerato nell'assistenzialismo e mutilato dal liberismo.
La decrescita è innanzitutto un appello al pensiero anticonformista. Per dirla con il compianto Jean Baudrillard, è una palinodia, letteralmente un'ode, in generale un componimento che inverte e sovverte uno precedente. Una salutare inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l'attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile. Sarebbe più opportuno chiamarla a-crescita in quanto non ha nulla dell'astrazione utopica, ma esprime un realistico e responsabile segnale in controtendenza, un segnavia concreto per intraprendere un sentiero diverso su cui indirizzare la post-modernità. Nel pensiero di tutti coloro che hanno teorizzato e praticato fino ad oggi la post-crescita, il calo del Pil e dei consumi superflui s’inserisce in maniera armonica all’interno di un contesto profondamente diverso da quello attuale ed è finalizzato ad ottenere un maggiore benessere personale e ad una migliore qualità della vita. Il tutto ovviamente nella consapevolezza che il pianeta non è in grado di sostenere (tanto ambientalmente, quanto socialmente) una crescita bulimica come quella sperimentata nella seconda metà del 900.
La diminuzione del Pil non è quella determinata dalla chiusura generalizzata delle attività produttive e commerciali, che si traduce nella disoccupazione depressiva, nel pauperismo e nell’emarginazione sociale. Bensì è una riduzione di scala economica ottenuta riducendo gli sprechi e i consumi superflui, per indirizzare le risorse risparmiate verso la creazione di opportunità occupazionali sostenibili e gratificanti di contro a quelle offerte dalla società dell'egoismo utilitarista. Ogni giorno - ad esempio - buttiamo nella spazzatura 4 mila tonnellate di cibo perfettamente commestibile in Italia. Nel pensiero del limite e dell'appropriatezza si auspica la costruzione di una società che sostituisca la macroeconomia globalizzata con microeconomie autocentrate - quindi osmotiche - che valorizzi le risorse locali e le identità culturali, interpretando la diversità come un valore aggiunto da non disperdere attraverso l’appiattimento e l’omologazione.
L’autoproduzione, gli scambi non mercantili e la reciprocità, riducono la dipendenza da merci e servizi acquistati per mezzo del denaro è rendono la persona più libera e contemporaneamente relazionata e partecipe nell'interesse generale. Acquistare in punti vendita di prossimità prodotti alimentari locali di qualità che non hanno compiuto viaggi di migliaia di chilometri prima di arrivare sulle nostre tavole è semplicemente preferibile rispetto all’acquisto fra gli scaffali di un anonimo ipermercato di prodotti che arrivano dai quattro angoli del globo, trasportati da mezzi energivori ed inquinanti.
Ripopolare le campagne riscoprendo un rapporto armonico con l’ambiente nel quale viviamo, recuperando la ciclicità dei ritmi naturali è intuitivamente più stimolante rispetto all'alienazione nelle periferie delle grandi metropoli atomizzate e solitarie, incolonnandosi sulle tangenziali nelle ore di punta per poi rinchiudersi fra il cemento dei quartieri dormitorio.
Riscoprire i rapporti di vicinato, la convivialità, la capacità di donare e ricevere, accresce la nostra interiorità molto più di quanto non accada oggi nella nostra realtà quotidiana sterilizzata dove “gli altri” vengono considerati strumenti momentanei dei nostri bisogni. In sostanza la decrescita è l'antidoto alla società dei consumi, che stiamo vivendo nella sua fase terminale, costituita da una profonda recessione. Al tempo stesso ne costituisce l'alternativa vitalistica e naturale, probabilmente l’unica in grado di fare fronte agli effetti devastanti determinati dal crollo di un modello di sviluppo dimostratosi impraticabile.
Per concepire e realizzare questa rivoluzione della sobrietà bisogna letteralmente uscire dall'immaginario pragmatico e utilitarista dell'economico. Per dirla con Serge Latouche, bisogna interiormente rimettere in discussione il dominio dell'economico su ogni ambito dell'esistenza, nella teoria come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti. Lo scambio deve riguardare i prodotti specifici dei luoghi e delle culture, l’inverso della delocalizzazione anonima dei prodotti specializzati della tecnica.
La politica che possa sorreggere questo scarto ideale parte dalla base e implica la sovranità condivisa, la partecipazione, il principio di sussidiarietà, il rispetto dei corpi intermedi e delle libertà fondamentali, la costituzione a ciascun livello di un equilibrio fra la deliberazione e la decisione. Tutto ciò è a dimensione locale. Il controllo democratico-partecipativo del potere corrisponde comunitariamente ad un territorio condiviso. Il principio di reciprocità si evidenzia nelle identità di gruppo, ove è preminente l’aspetto simbolico-comunitario della relazione sociale. Tra i singoli i rapporti sono regolati da forme generali di giustizia distributiva ispirate alla relazione e al dono. In tale contesto norme e scambi sociali, fondati su consuetudini morali, legano organicamente l’economico al sociale. La sobrietà dello stile di vita rafforza la ricostruzione del legame interpersonale e la sua capacità di esprimere peculiarità nello sviluppo sostenibile riferito ai principi di “ciclicità” e “limite” insiti nella omeostasi della natura. L’interdipendenza economica poggiata sulla sostenibilità delle risorse naturali e le peculiarità culturali esclude la condizione periferica. Una concertazione armonica di cerchi concentrici sovrani che senza obbligazione, nella fluidità sussidiaria, portano la personalità a formarsi ed esprimersi liberamente dalla comunità naturale, la famiglia, fino alle comunità allargate di prossimità locale e condivisione politica generale che dia all'Europa il vero scarto della sua ragione e dignità: l'universale del bene comune.