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Mai combattere una guerra terrestre in Asia

di George Friedman - 15/03/2011



Mai combattere una guerra terrestre in Asia

 


 

Il Segretario della difesa statunitense Robert Gates parlando la scorsa settimana a West Point ha affermato: “Qualsiasi Segretario della difesa che nel futuro consigli ancora una volta al presidente di inviare una grande armata terrestre americana in Asia, in Medio Oriente o in Africa dovrebbe essere visitato.” Sostenendo ciò, Gates ha ripreso un concetto già espresso da Douglas MacArthur ai tempi della guerra di Corea, attraverso il quale esortava gli Stati Uniti ad evitare nel futuro guerre terrestri in Asia. Dato che gli Stati Uniti hanno combattuto quattro grandi guerre terrestri in Asia dopo la Seconda guerra mondiale – Corea, Vietnam, Afghanistan e Iraq – nessuna delle quali ha avuto l’esito sperato, è necessario considerare tre questioni: primo, perché combattere una guerra terrestre in Asia è una cattiva idea? Secondo, perché gli Stati Uniti sembrano costretti a combattere queste guerre? Ed infine terzo, qual è l’alternativa in grado di proteggere gli interessi americani in Asia senza un intervento militare terrestre su larga scala?

Gli ostacoli delle guerre d’oltremare

Iniziamo dalla prima questione, la cui risposta è legata alla considerazione della demografia e dello spazio. La popolazione dell’Iraq è attualmente di circa 32 milioni. L’Afghanistan ha una popolazione inferiore ai 30 milioni. I militari americani, tutto sommato, sono circa 1,5 milioni in servizio attivo (più 980.000 riservisti), di cui oltre 550.000 appartengono all’esercito e circa 200.000 fanno parte del corpo dei Marines. Ciò detto, è importante sottolineare come gli Stati Uniti si sforzino nella dislocazione di circa 200.000 uomini alla volta in Iraq e Afghanistan, truppe che assumono ruoli di sostegno piuttosto che di combattimento. Lo stesso era vero in Vietnam, dove gli Stati Uniti sono stati contestati per aver messo sul campo al massimo 550.000 soldati (in un paese molto più popoloso dell’Iraq o dell’Afghanistan), nonostante la coscrizione obbligatoria e un esercito permanente più grande. In realtà, lo stesso problema esisteva durante la Seconda guerra mondiale.

Quando gli Stati Uniti combattono nell’emisfero orientale, combattono a grandi distanze dal proprio paese ed è evidente come maggiore è la distanza maggiore sarà anche il costo logistico. Per esempio, molte più navi sono necessarie per fornire la stessa quantità di materiale, coinvolgendo molte più truppe. Il maggiore costo logistico del combattere a grandi distanze deriva dal fatto che sposta un gran numero di truppe (o richiede un elevato numero di personale civile), sproporzionato rispetto alle dimensioni della forza di combattimento.

Indipendentemente dal numero delle truppe impiegate, l’esercito americano è sempre in minoranza rispetto alle popolazioni dei paesi in cui è schierato. Se parte di queste popolazioni resiste mediante la guerriglia attuata da una fanteria leggera o utilizzando tattiche terroristiche, il nemico può crescere rapidamente a dimensioni tali che può superare le forze statunitensi, come successo in Corea e Vietnam. Allo stesso tempo, il nemico adotta delle strategie per sfruttare la cruciale debolezza degli Stati Uniti – le tattiche d’intelligence. La resistenza è combattuta all’interno dei paesi e chi si impegna in essa conosce bene il terreno e la cultura. Gli Stati Uniti combattono in un territorio straniero e c’è sempre uno svantaggio nei sistemi d’intelligence. Ciò significa che l’efficacia delle forze militari del luogo è moltiplicata grazie a un’eccellente conoscenza del territorio, mentre l’efficacia delle forze statunitensi è frenata dalle mancanze nei sistemi d’intelligence.

Gli Stati Uniti compensano con la tecnologia, dalle ricognizioni spaziali alle avanzate capacità del potenziale aereo nei confronti dei sistemi di contro-batteria aerea, alle comunicazioni avanzate. Tutto ciò può colmare il deficit, ma solamente attraverso una massiccia diversione di manodopera dalle operazioni di combattimento terrestre. Il mantenimento di un elicottero richiede un equipaggio composto da decine di persone. Quando il nemico opera con una tecnologia avente un’efficacia minima, moltiplicata però dalla conoscenza del territorio, gli Stati Uniti compensano la mancanza d’intelligence con una massiccia tecnologia che comunque riduce ulteriormente il personale disponibile al combattimento. Tra logistica ed elevati sistemi tecnologici, la “punta della lancia” degli Stati Uniti si restringe. Se si aggiunge la necessità di formare, sostituire, far riposare e recuperare le forze di combattimento, rimane una piccola percentuale di soldati a disposizione per la guerra.

Il paradosso di tutto ciò è che le forze americane possono aver ragione del loro impegno, ma possono ancora perdere la guerra. Dopo aver individuato il nemico, gli Stati Uniti sono in grado di sopraffarlo con la potenza del proprio fuoco. Il problema degli Stati Uniti è però individuare il nemico e differenziarlo dal resto della popolazione. Come risultato, gli Stati Uniti sono particolarmente efficaci durante le fasi iniziali della guerra, quando il compito richiesto è quello di sconfiggere una forza convenzionale. Ma dopo che le forze convenzionali sono state sconfitte, la resistenza può passare a metodi nei confronti dei quali l’intelligence americana può trovarsi in difficoltà. Il nemico può quindi controllare il tempo delle operazioni, evitando il combattimento quando si trova in difficoltà, scegliendo successivamente di iniziarlo quando lo ritiene opportuno.

L’esempio della capitolazione della Germania e del Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale è spesso citato come modello per le forze armate americane al fine di sconfiggere e pacificare una nazione nemica. Ma i tedeschi non furono sconfitti principalmente da truppe di terra statunitensi. La spina dorsale della Wehrmacht fu spezzata dai sovietici nel loro territorio con i vantaggi logistici di brevi linee di rifornimento. E, naturalmente, la Gran Bretagna e numerosi altri paesi erano coinvolti. E’ improbabile che i tedeschi capitolassero solamente di fronte agli americani le cui forze non erano sufficienti per sconfiggere la Germania. I tedeschi non intendevano continuare la resistenza contro i russi e videro nella possibilità di arrendersi agli americani e ai britannici una possibile protezione dai russi. Non cercavano la via della resistenza. Per quanto riguarda il Giappone, non sono state le forze terrestri, ma sono state la forza aerea, la guerra sottomarina e le bombe atomiche a sconfiggere i giapponesi – e la volontà dell’imperatore di ordinare la resa. Non è stato il potere terrestre ad impedire la resistenza, ma la potenza aerea e marittima, oltre a un compromesso politico di MacArthur nel conservare al potere e utilizzare l’imperatore. Nel caso in cui l’imperatore giapponese fosse stato rimosso, vi è il sospetto che l’occupazione del Giappone sarebbe stata molto più costosa. Né la Germania né il Giappone rappresentano degli esempi in cui le forze armate statunitensi hanno costretto le nazioni nemiche alla capitolazione e alla successiva soppressione della resistenza.

Il problema degli Stati Uniti nell’emisfero orientale è che la dimensione della forza necessaria per occupare un paese è inizialmente molto più piccola della forza necessaria successivamente per pacificare il paese. Le forze disponibili per la pacificazione sono molto più piccole di quanto necessario perché le truppe che gli Stati Uniti possono dispiegare demograficamente senza impegnarsi in una guerra totale sono semplicemente troppo esigue per eseguire il proprio lavoro – e la dimensione delle forze necessarie per compiere questo tipo di lavoro è sconosciuta.

Gli interessi globali statunitensi

Il problema principale è questo: gli Stati Uniti hanno interessi globali. Mentre l’Unione Sovietica rappresentava la primaria preoccupazione durante la guerra fredda, oggi nessuna potenza rischia di dominare l’intera Eurasia, quindi nessuna minaccia giustifica l’attenzione particolare degli Stati Uniti per l’area. In tempo di guerra in Iraq e Afghanistan, gli Stati Uniti devono ancora mantenere una riserva strategica per altre contingenze impreviste. E ciò riduce ulteriormente la forza disponibile per il combattimento.

Alcuni sostengono che gli Stati Uniti non siano sufficientemente spietati nel condurre la guerra, come se il successo fosse garantito mediante l’assenza di restrizioni politiche interne. I sovietici e i nazisti, non certo noti per la loro mitezza, non furono in grado di sconfiggere le armate partigiane dietro le linee tedesche o la resistenza jugoslava, nonostante l’utilizzo di tattiche brutali. La guerriglia è dotata di alcuni vantaggi naturali in guerra che non possono essere compensati attraverso l’impiego di mezzi brutali.

Considerato tutto ciò, la questione è come mai gli Stati Uniti siano stati coinvolti in quattro guerre in Eurasia nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. In ogni caso è evidente: per motivi politici. In Corea e Vietnam l’intervento era una dimostrazione agli alleati dubbiosi che gli Stati Uniti avevano la reale intenzione di resistere ai sovietici. In Afghanistan per sradicare al Qaeda. In Iraq, i motivi sono più oscuri, più complessi e meno convincenti, ma alla fine gli Stati Uniti sono intervenuti, a mio avviso, per convincere il mondo islamico ad accettare le volontà americane.

Gli Stati Uniti hanno cercato di influenzare gli eventi nell’emisfero orientale mediante l’applicazione diretta del potere terrestre. In Corea e Vietnam avvenne cercando di dimostrare decisione nei confronti del potere sovietico e cinese. In Afghanistan e Iraq si è cercato di plasmare la politica del mondo musulmano. L’obiettivo era comprensibile, ma non la quantità di forze terrestri dispiegate. In Corea, la situazione si è trasformata in una condizione di stallo; in Vietnam è stata una sconfitta. Attendiamo l’esito in Afghanistan e Iraq ma, viste le dichiarazioni di Gates, la situazione per gli Stati Uniti non è necessariamente positiva.

In ogni caso, ai militari è stata affidata una missione ambigua. Questo perché, un chiaro obiettivo – la sconfitta del nemico – era divenuto irraggiungibile. Allo stesso modo, vi erano in ciascun caso degli interessi politici. Essendosi impegnati in tale progetto, l’opzione di un semplice ritiro non sembrava praticabile. Pertanto, in Corea si è assistito alla comparsa di un’estesa presenza militare in atteggiamento quasi da combattimento; l’intervento in Vietnam si è concluso con una sconfitta americana, mentre la situazione in Iraq e Afghanistan si è trasformata, fino ad ora, in un incerto groviglio che nessuna persona ragionevole può pensare che alla fine porti alla nascita di una coppia di paesi liberi e democratici, come previsto dagli obiettivi dichiarati.

Problemi strategici

Ci sono due problemi collegati alla strategia americana. Il primo riguarda l’uso appropriato della forza per gli obiettivi politici. La questione non concerne tanto la quantità di forza da utilizzare bensì il carattere della missione. L’uso di una determinata forza militare richiede chiarezza d’intenti; in caso contrario, non può emergere una coerente strategia. Inoltre, è necessaria una missione offensiva. Le missioni difensive (come è il caso della Corea e del Vietnam) non hanno, per definizione, alcun punto conclusivo o un qualsiasi tipo di criterio per la vittoria. Data la limitata disponibilità di forze per il combattimento terrestre, le missioni difensive permettono, per il numero di forze da impiegare, il medesimo livello di sforzo del nemico, e se la forza è insufficiente per raggiungere gli obiettivi della missione, il risultato è un indefinito dispiegamento di forze limitate.

In seguito ci sono anche le missioni con degli obiettivi iniziali chiari, ma senza una diretta conoscenza di come trattare il dopo-guerra. L’Iraq soffriva di una capacità offensiva inadatta alla risposta del nemico. Dopo aver distrutto le forze convenzionali dell’Iraq, gli Stati Uniti si sono dimostrati impreparati nell’affrontare la risposta irachena, caratterizzata da una guerriglia di resistenza su larga scala. Lo stesso è vero in Afghanistan. La contro-insurrezione è una guerra d’occupazione. Rappresenta la necessità di rendere una popolazione – piuttosto che un esercito – non disposta e incapace alla resistenza. Richiede grandi risorse e un gran numero di truppe che supera gli obiettivi iniziali. Una contro-insurrezione a basso costo con forze limitate avrà sempre un esito fallimentare. Dato che gli Stati Uniti usano forze limitate, perché costretti, la contro-insurrezione è la guerra più pericolosa per gli Stati Uniti. L’idea è sempre stata che le popolazioni locali preferiscano l’occupazione americana alle minacce poste dai propri connazionali e che gli Stati Uniti possano proteggere coloro i quali genuinamente prediligano l’occupazione. Questo può essere un buon principio, ma non vi sono mai sufficienti forze militari americane.

Un altro modello per affrontare la questione della formazione di determinate realtà politiche può essere individuato nella guerra Iran-Iraq. In quella guerra, gli Stati Uniti accolsero con favore la reciproca diffidenza tra i due paesi al fine di eliminare le minacce poste da entrambi. Quando gli iracheni risposero invadendo il Kuwait, gli Stati Uniti reagirono con una massiccia contrapposizione avente degli obiettivi limitati – la riconquista del Kuwait e il ritiro delle forze irachene. E’ stata una guerra terrestre in Asia progettata per sconfiggere un conosciuto e limitato esercito nemico senza alcun tentativo d’occupazione.

Il problema di tutte e quattro le guerre è rappresentato dal fatto che non si è trattato di guerre strettamente convenzionali e le forze armate non sono state utilizzate nella maniera in cui dovrebbero essere impiegate. Lo scopo di un militare è quello di sconfiggere le forze convenzionali nemiche. Come esercito d’occupazione di un territorio con una popolazione fortemente ostile, le forze armate sono relativamente deboli. Il problema per gli Stati Uniti è che il proprio esercito deve occupare un simile paese per un lungo periodo di tempo, e semplicemente l’esercito statunitense non possiede le sufficienti forze armate terrestri necessarie per occupare i paesi e per affrontare altre possibili minacce.

Avendo una missione non chiara, si dispone di un termine incerto per completarla. Quando finirà? La questione si carica poi di problemi politici a livello internazionale – avendo preso un impegno in guerra, vi sono alleati dentro e fuori dal paese che hanno combattuto e acconsentito a dei rischi assieme agli Stati Uniti. Un ritiro li lascerebbe esposti, mentre potenziali alleati si dimostrerebbero in futuro cauti nell’unirsi in un’altra guerra. La considerazione della spirale dei costi politici e la decisione verso un disimpegno sono posticipate. L’impegno degli Stati Uniti finisce nel peggiore dei modi. Non terminano le missioni autonomamente, ma solo quando la loro posizione diventa insostenibile, come nel caso del Vietnam. Tutto ciò fa accrescere il costo politico drammaticamente.

Le guerre necessitano di essere combattute con degli obiettivi che possono essere raggiunti dalle forze disponibili. Donald Rumsfeld una volta disse: “Si va in guerra con l’esercito che si possiede. Non con l’esercito che si vorrebbe o che si desidererebbe avere in un secondo momento.”. Penso che si tratti di una fondamentale incomprensione della guerra. Non ti impegni in una guerra se le forze dell’esercito che possiedi sono insufficienti nel compierla. Quando si capiscono le reali capacità militari americane e i suoi limiti in Eurasia, la visione di Gates sulla guerra nell’emisfero orientale suona molto meglio di quella di Rumsfeld.

L’alternativa diplomatica

L’alternativa è la diplomazia, non intesa come soluzione al posto della guerra, bensì come mezzo da utilizzare contemporaneamente alla guerra. La diplomazia può aiutare a trovare l’intesa tra le nazioni. Può essere anche utilizzata per identificare l’ostilità delle nazioni e l’uso di questa ostilità al fine di isolare gli Stati Uniti, deviando l’attenzione degli altri paesi dalle contestazioni nei confronti delle politiche statunitensi. Questo è quello che è accaduto durante la guerra Iran-Iraq. Non era bello, ma non c’era alternativa.

La diplomazia per gli Stati Uniti è il mezzo attraverso il quale è possibile mantenere l’equilibrio dei poteri, usare e deviare l’attenzione verso i conflitti per la gestione del sistema internazionale. La forza è l’ultima risorsa e, quando viene utilizzata, deve essere devastante. Il mio ragionamento, e ritengo sia anche il pensiero di Gates, è che alla distanza gli Stati Uniti non possano risultare devastanti in guerre dipendenti dal potere terrestre. Questo è l’aspetto più debole del potere internazionale americano, al quale gli Stati Uniti hanno fatto maggiormente ricorso troppo spesso dopo la fine della Seconda guerra mondiale, con risultati inaccettabili. Utilizzare il potere terrestre statunitense come una parte della strategia militare può risultare occasionalmente efficace nello sconfiggere forze convenzionali, come fu nel caso della Corea del Nord (non della Cina), ma è inadeguato per le esigenze della guerra d’occupazione. Vi sono pochi soldati necessari per garantire il successo, e non è noto quante truppe potrebbero essere necessarie in futuro.

Non si tratta di un fallimento politico di un particolare presidente statunitense. George W. Bush e Barack Obama hanno incontrato il medesimo tipo di problemi, derivati dal fatto che le forze militari esistenti in Eurasia, dall’Esercito Popolare di Liberazione cinese in Corea ai talebani in Afghanistan, sono state o troppo numerose o troppo agili (oppure entrambe le cose) da affrontare per l’esercito terrestre statunitense. In ogni guerra l’obiettivo primario è quello di non essere sconfitti. Una guerra non imperativa, in cui i criteri per il successo sono poco chiari e per i quali la quantità di forza sul territorio è insufficiente, deve essere evitata. Questo è il messaggio di Gates. Ed è lo stesso consiglio che diede MacArthur, messo successivamente in pratica da Eisenhower nel momento in cui rifiutò di intervenire in Vietnam per conto della Francia. Come per la Dottrina Monroe, dovrebbe essere elevato a principio della politica estera americana, non perché si tratta di un valore morale, ma perché è un principio molto pratico.

(Traduzione di Francesco Brunello Zanitti)

Fonte: Stratfor Global Intelligence

http://www.stratfor.com/weekly/20110228-never-fight-land-war-asia

*G. Friedman è Chief Executive Officer e fondatore di Stratfor (Stati Uniti)