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Il nuovo modello di sviluppo, in realtà nuovo non lo è affatt

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 22/03/2011

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3. Il nuovo modello di sviluppo, in realtà nuovo non lo è affatto, il suo avvento in Italia e in Europa è dovuto alla esportazione di esso dagli USA. L’estensione del modello economico globalizzato all’Italia e progressivamente all’Europa dilaniata dalla crisi del debito, rappresenta semmai l’omologazione ad un americanismo, concepito come sistema globale non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e culturale. E’ ormai scontato affermare che la stessa economia di mercato conduce necessariamente alla società di mercato, nel senso che tutte le relazioni umane si conformano alla prassi economica della concorrenza e del libero mercato. La globalizzazione conduce quindi alla totalità globale del sistema economico, in quanto quest’ultimo coinvolge nella sua logica estensiva tutta l’esistenza umana. Non resterebbe dunque altro orizzonte esistenziale per l’uomo che quello costituire una risorsa umana idonea a creare valore nel sistema produttivo, pena l’impossibilità di sopravvivenza. Il sistema economico liberista globale abbisogna di continue innovazioni, ristrutturazioni industriali, mobilità estrema delle risorse produttive, allo scopo di adeguarsi continuamente agli standard di produttività e competitività emergenti dal mercato. Pertanto, il lavoratore è soggetto ad una instabilità permanente, a vivere come uno stato quotidiano di normalità quelle condizioni di emergenza e di precarietà che in passato erano proprie di periodi temporanei (anche se prorogati nel tempo) di gravi crisi economiche, o di eccezionalità dovute a calamità naturali, guerre, carestie straordinarie generalizzate. Tali condizioni sono rilevabili nella storia in concomitanza dei periodi post - bellici o post - rivoluzionari, ma le situazioni di emergenza erano però percepite come fasi necessariamente propedeutiche a future prospettive di sviluppo e/o alla edificazione di una nuova società, alla realizzazione cioè di società ideali incardinate su valori umani immanenti alla storia. Di immanente nella società globalizzata c’è invece solo la precarietà e l’incubo del futuro prossimo. La precarietà è infatti una condizione che coinvolge la totalità sociale e quindi, oltre che i lavoratori subordinati, anche il menagement, che, allo scopo di rendere l’impresa flessibile alle esigenze della competitività del mercato globale, assume una struttura dinamica e flessibile, nelle tecniche di produzione, nella delocalizzazione degli impianti, nell’impiego delle risorse. La vecchie grandi concentrazioni industriali, hanno da tempo ceduto il passo alla frammentazione in una miriade di newco delocalizzate, ognuna legata ad un progetto di sviluppo a breve termine. In tale contesto, sia il manager che l’operaio sono accomunati da un destino precario permanente, quali risorse umane fungibili, impiegabili in un progetto a breve termine. La concorrenza selvaggia del nuovo capitalismo non genera l’eccellenza delle tecniche di produzione, né nuovi investimenti, la cui ricaduta sociale produrrebbe miglioramenti del tenore di vita dei lavoratori, ma solo tecniche di sopravvivenza di tutti i propri componenti, la cui esistenza è direttamente dipendente dai progetti industriali a breve termine. Allo stesso modo, se la concorrenza del vecchio capitalismo industriale doveva, almeno in teoria, generare, attraverso una selezione darwiniana, l’eccellenza delle capacità imprenditoriali e delle conoscenze innovative in campo tecnico e scientifico, il nuovo capitalismo ha sostituito il mito prometeico della conquista di sempre nuovi orizzonti del progresso e della civilizzazione umana, con la capacità di sopravvivere alla emergenza connaturata alle condizioni di precarietà permanente. La “strategia di sopravvivenza”, come definita da Lasch, produce individualità deboli, ma perfettamente omologabili ai mutamenti ciclici dei mercati e comunque integrabili in un modo di produzione che non richiede stabilità e finalità umane ulteriori alla logica della sopravvivenza, cui è legato l’intero sistema. Il senso dell’essere è sostituito dalla “strategia di sopravvivenza”.

 

Le tue considerazioni sulla centralità della precarietà del lavoro oggi, e sul fatto che da categoria puramente economica attinente il mercato del lavoro (l’economia di mercato) essa sia diventata una categoria antropo­logica generale attinente la riproduzione sociale complessiva (la società di mercato) sono convergenti con quelle di un recente saggio di Eugenio Orso (cfr. Alienazioni e Uomo Precario, prefazione di Costanzo Preve, edi­trice Petite Plaisance, Pistoia 2011). Dal momento che ritengo che Orso ab­bia individuato il centro del problema, assai meglio di quanto fino ad ora fatto dalla sociologia universitaria italiana, non farò considerazioni ulte­riori, inevitabilmente pleonastiche, ma mi concentrerò su di un solo punto, che d’altronde tu indichi con chiarezza, e cioè il rapporto stretto fra mo­dello della precarietà generalizzata ed americanizzazione di tutti i rap­porti sociali.

Così come oggi noi la conosciamo, la globalizzazione è inseparabile dal do­minio geopolitico, finanziario e militare dell’impero USA. Certo, in teoria una diversa globalizzazione interamente policentrica sarebbe concepibile, ma in pratica il modello attuale di globalizzazione sotto dominio militare e finanziario americano è l’unico concretamente esistente, ed è impos­sibile parlare di Italia e di Europa senza partire dal fatto che l’Italia e l’Europa sono militarmente occupate da basi militari USA dotate di armi atomiche, essendo da tempo venuto meno il pretesto della loro permanenza  (e cioè il contenimento del comunismo sovietico). Per questa ragione un approccio puramente economico, dei problemi (il “ricatto Marchionne”, eccetera) è del tutto insufficiente, e rischia anche di diventare un alibi per evitare la presa in considerazione lucida del problema.

Da qualche tempo, l’ex-marxista (ed ora apertamente post-marxista) Gianfranco La Grassa ha cambiato di nome il suo blog, passando da “Ripensare Marx” a “Conflitti e Strategie”. Tre parole dicono tutto, perchè il quasi cinquanten­nale viaggio di La Grassa dentro il pensiero di Marx (modello di serietà rispetto alla retorica vuota di personaggi come Ingrao, Rossanda, Bertinotti, Vendola, eccetera) è sfociato nella considerazione esclusiva dei conflitti e delle strategie geopolitiche. Qui certamente ha giocato un ruolo anche ­il rifiuto althusseriano della categoria di alienazione, messa invece al centro del discorso dal saggio Orso, ma ritengo personalmente errato e fuorviante insolentire La Grassa per aver preferito il vecchio porco puttanie­re Berlusconi (considerato geopoliticamente il “male minore” in quanto legato all’ENI, a Putin ed a Gheddafi) alla “sinistra”, che si è data come direzione strategica il gruppo editoriale Scalfari-De Benedetti, e che ha abolito il popolo, accusato surrealmente di “populismo”, sostituendolo con un’Armata Brancaleone di Santoro, Saviano, popolo viola e cortei di femministe indigna­te. Al di là di pittoresche polemiche, inevitabilmente sopra le righe, ci sta qui un problema teorico serio: fino a che punto l’esclusiva considerazione geopolitica dei fatti economici, politici e sociali può di fatto “cancellare” la concreta esistenza di sfruttati e di sfruttatori, e del fatto che per il punto di vista degli sfruttati bisogna perlomeno conservare un “occhio di riguardo”?

E’ impossibile  dare una ricetta generale ed evitare il giudizio tattico caso per caso. Ma cercando di impostare il problema in modo teoricamente dignitoso, direi che la deriva di La Grassa può essere evitata soltanto riconoscendone parzialmente il nucleo razionale che l’ha causata e cioè il fatto che talvolta nella storia la semplice contrapposizione polare Lavoro Salariato-Capitale non ci permette di fare luce sulla concreta con­giuntura storica in cui ci troviamo, se questa congiuntura storica è caratterizzata da una particolare “sovradeterminazione” geopolitica. Personalmente, non penso affatto che i capitalismi brasiliano, cinese o indiano siano mo­ralmente migliori e preferibili a quello americano (di cui l’Europa è oggi solo una miserabile appendice priva di sovranità militare e soprattutto mediatica e culturale). Penso però (e qui concordo con la rivista “Eurasia”, con La Grassa e soprattutto con Alain de Benoist, oltre che con la stragran­de maggioranza dei rivoluzionari detti “terzomondisti”, arabi in primo luo­go) che il sistema del precariato generalizzato, fondato sull’economia del debito e del ricatto (un ricatto molto maggiore del cosiddetto “ricatto Marchionne”), sia per ora coordinato a livello internazionale dall’impero mili­tare USA, che è per questa ragione il nemico principale. Non possiamo ignorare che esiste una “catena dei perchè” e che bisogna risalire sempre all’anello principale della catena, che tiene tutti gli altri. Non è obbligatorio essere contro l’alienazione ed il lavoro precario. Esiste sempre la filatelia, la pesca con la lenza e la pedofilia telematica. Ma se invece si decide di bat­tersi contro la prima, allora gli USA restano il nemico principale, ed anche da La Grassa è possibile imparare qualcosa, pur non seguendolo nelle sue allucinazioni scientistiche ed anti-umanistiche.

 

4. La estrema mobilità virtuale del mondo dell’economia globalizzata, cela in se una sostanziale immobilità di fondo. Esso riproduce eternamente se stesso, è immutabile nelle sue leggi economiche, nei suoi parametri di analisi delle situazioni storiche e geopolitiche dei popoli, nelle sue soluzioni alle crisi ricorrenti: esso sana i suoi mali con le terapie che hanno provocato la patologia stessa. Il mondo globalizzato non è aperto alla innovazione e alla diversità, ma al contrario si presenta chiuso ad ogni possibilità di mutamento dei propri orizzonti, non integra le specificità e le identità diverse da se stesso, ma, al contrario ha la funzione di soppiantare popoli e culture. Nel contesto di una visione storico - filosofica distaccata dall’immediatezza dell’attualità del presente, il capitalismo odierno è un mondo, inteso in senso hegeliano, come “unità dinamica di una totalità di elementi”. Il mondo del capitalismo è infatti costituito da una serie di elementi storicamente contingenti, ma che vengono resi coerenti da un sistema concettuale unitario, in cui la storia e il divenire dell’uomo risultano inglobati in una logica che necessariamente conduce alla realizzazione compiuta del “mondo” capitalista. Esso è autoriflessivo nei propri postulati sistemici, in quanto non può esistere storia passata o futura che non venga integrata nella logica del proprio sviluppo. Esso non concepisce trasformazioni storico - politiche estranee a se stesso, in quanto qualsivoglia fenomeno viene ricondotto ad una diversità interna e coerente con i presupposti del suo sistema. Esso riproduce eternamente se stesso nel tempo storico e nello spazio geopolitico globale, in quanto ogni alternativa ad esso viene ridotta a momento contingente del proprio sviluppo intrinsecamente unitario. Da una obiettiva analisi del “mondo” capitalista, non può che scaturire una visione del capitalismo stesso, come un mondo chiuso, un fenomeno compiuto e storicamente ormai esaurito, incapace di rapportarsi dialetticamente ad elementi ad esso estranei e/o contrapposti con cui confrontarsi, e, la sua stessa capacità di autoriproduzione  è oggi fortemente messa in dubbio dalla crisi sistemica dell’economia del 2008, dinanzi alla quale non sa proporre altre soluzioni che vadano oltre la riproposizione di quella economia finanziaria che ha determinato il suo temporaneo collasso. Dinanzi ad una mondo che ha ormai concluso il suo percorso storico, della cui crisi irreversibile occorre prendere atto, è necessario non farsi coinvolgere nei limiti ristretti della condizione umana del nostro tempo. Occorre semmai riscoprire i presupposti della condizione storica in cui ci è dato di vivere, poiché un mondo chiuso nella riproduzione di se stesso non può più produrre storia. Bisogna concepire il proprio pensiero come un termine dialettico di confronto e di opposizione ad un sistema - mondo unitario, non perché universale, ma solo unilaterale ed autoreferente. L’imperativo morale del presente è dunque “vivere oltre le condizioni del nostro tempo”. Occorre allora elaborare soluzioni che concepiscano orizzonti al di là ed al di fuori del mondo del capitalismo. Vivere oltre il proprio tempo non significa tuttavia estraniarsi dal presente storico. La realtà obiettiva del mondo capitalista deve semmai costituire il necessario termine di riferimento dialettico con cui confrontarsi e valutare criticamente la compatibilità del proprio pensiero e delle prospettive di superamento della condizione coattiva del presente,  sempre in relazione alla realtà storica contingente del nostro tempo. 

 

La tesi da te esposta in questa tua quarta domanda coincide nell’essenzia­le con la tesi recentemente sviluppata in modo analitico da un saggio di Diego Fusaro (cfr. Essere senza Tempo, Bompiani, Milano 2010) e que­sto non é un caso, perchè segnala che comincia ad esserci una percezione diffusa del fenomeno storico-politico cui fate entrambi riferimento. Dal momento che la condivido interamente, specialmente nella chiara forma sin­tetica con cui tu la riassumi, ritengo inutile parafrasarla in vari modi, mentre è più utile riprendere brevemente il metodo storico da me già svi­luppato nella mia prima risposta, in cui cercavo le radici storiche alter­native per spiegare il fenomeno da te indicato come “privatizzazione della vita sociale”, che è effettivamente il cuore della questione storica e poli­tica che si tratta di contrastare, sia pure con le nostre debolissime e per ora quasi invisibili forze.

Risalendo al settecento, secolo decisivo per la formazione dell’immagine del mondo contemporaneo, ci accorgiamo che la legittimazione ideologica dei nuovi rapporti di produzione capitalistici (con la classe borghese come portatore storico ed economico, nel linguaggio di Marx Träger) viene argomentata in due modi diversi, in base al progresso storico (e quindi al parametro della temporalità storica come fondamento di legittimazione in ultima e decisiva istanza) ed in base alla mera naturalità sociale da restaurare contro un presunto “artificialismo” feudale e signorile. Le due strategie di legittimazione, se vogliamo usare una metafora militare, “mar­ciano separate e colpiscono unite”, ma oggi ci rendiamo conto che nella com­plessa dialettica storica ed ideologica la seconda sta prevalendo sulla prima, e bisogna allora capire bene il perchè.

La legittimazione della nuova società borghese-capitalistica attraverso il concetto di progresso resta ovviamente la principale, ed in ogni caso la più “visibile”. Il progresso (si veda in particolare Condorcet) viene visto come aumento del dominio tecnico e scientifico dell’uomo sulla natura (il che comporta fisiologicamente come suo opposto complementare anche una riscoperta della “natura” in quanto tale), unito ad un incivilimento dei costumi individuali e sociali, laddove questo secondo processo di incivilimento è pensato nella forma dell’ideale regolativo illimitato che non può però mai asintoticamente raggiungere un fine ultimo (Kant). In forte contrasto con la saggezza greca, basata sul concetto di “limite” (peras), qui si è invece di fronte alla centralità fondativa dell’illimitato, e niente mi to­glierà mai dalla testa che questa fondazione filosofica del progresso il­limitato come idea regolativa non sia che il raddoppiamento nel cielo del­le idee del carattere potenzialmente illimitato della produzione capitalistica, al di là della “falsa coscienza necessaria” dei teorici che la stava­no elaborando. Qui è decisivo il carattere contrastivo con la precedente legittimazione ideologica signorile e feudale, basata invece sul carattere sacrale e divino (e quindi non “progressistico”) del potere e sulla riprodu­zione ciclica di una economia fondata sull’agricoltura e sulla estorsione regolata dalla rendita fondiaria.

Se esiste un sintomo decisivo per comprendere il carattere penosamente su­balterno del marxismo storico, che rimanda ovviamente al carattere subalter­no delle sue classi di riferimento popolari, proletarie, operaie e salariate, esso sta appunto nel fatto che esse recepiscono quasi integralmente la teoria borghese-capitalistica del progresso storico, senza vederne in alcun modo il suo carattere intimamente borghese. Il fatto che alcuni intellettuali di orientamento marxista e socialista (cito qui soltanto Georges Sorel e Walter Benjamin) abbiano cercato invano di trovare un fondamento alterna­tivo a quello del progresso per legittimare una concezione anticapitalistica del mondo, e che questi tentativi siano sempre stati  regolarmente respinti, spesso diffondendo il sospetto che si trattasse dì astute stra­tegie di “infiltrazione” della cultura antiprogressista della “destra” eterna, ci segnala come il mantenimento della dicotomia rigida Destra/Sinistra non sia affatto stata innocua e marginale, ma abbia funzionato da osta­colo “ostativo” al chiarimento della questione.

E tuttavia, a fianco della legittimazione “progressistica” dominante, è sempre esistita una legittimazione “naturalistica” della produzione capitalistica in base al ritorno alle vere leggi della natura. Su questo punto la scuola francese dei fisiocratici e la scuola inglese dell’economia politica (Hume e Smith soprattutto) hanno sempre avuto posizioni comuni, al di là dell’im­portanza differenziata data rispettivamente all’agricoltura oppure all’industria. Mentre nella concezione progressistica la temporalità veniva inve­stita di un significato migliorativo ed ascendente, nella concezione natura­listica la temporalità era fortemente ridimensionata rispetto all’obbedienza alle (presunte, ed in realtà  inesistenti) leggi della natura. Il successivo positivismo ottocentesco (cui il marxismo storico realmente esistito fu sempre e soltanto una variante ideologizzata di “sinistra”) cercò di unire insieme il concetto di progresso con il concetto di decisività della “leg­ge”, estesa ed estrapolata dalla natura alla società. Ma ci sta qui una contraddizione logica, perchè se una “legge” è veramente tale (ad esempio, la presunta legge della domanda e dell’offerta come fondamento della riproduzione sociale e comunitaria), essa lo è in modo assoluto, e non relati­vo allo scorrimento della temporalità storica, progressistica o decadentisti­ca che la si voglia. Gran parte della filosofia novecentesca deve essere in­terpretata come segnale, sia pure incerto e contraddittorio (dovuto all’ipo­crisia degli apparati ideologici, universitari, sempre e comunque “clero” seco­larizzato del potere), del fatto che è assolutamente incompatibile sostenere contemporaneamente che il capitalismo è un vettore del progresso storico e sociale e che è invece ferreamente dipendente dalle leggi naturali di riproduzione del sistema economico.

L’immobilità di fondo che segnalate sia tu che Fusaro deve quindi essere interpretata non tanto come una vittoria finale della tesi naturalistica su quella progressistica (anche se questo aspetto è il più visibile in su­perficie nel chiacchiericcio mediatico di giornalisti ed economisti), ma come il riflesso ideologico sovrastrutturale dell’approdo della produzione capita­listica globalizzata ad una fase “speculativa”, che si lascia alle spalle le precedenti fasi astratta e dialettica (non ripeto qui per ragioni di spazio la mia tesi periodizzante del capitalismo, già ampiamente esposta altrove), in quanto questa fase speculativa implica un grado, altissimo di destori­cizzazione e di desocializzazione, quella appunto che tu hai brillantemente definito la privatizzazione della vita sociale. E’ anche legittimo ipotizza­re, come del resto tu fai (ma sono d’accordo anch’io) che il capitalismo si mostra così logicamente un mondo chiuso ed un fenomeno compiuto e ormai  esaurito, e questo paradossalmente perché non sono più i rivoluzionari o i marxisti a dirlo, ma lo dichiarano apertamente i suoi stessi apologe­ti. Dopo avere per un secolo battuto il tamburo sul marxismo come teoria escatologico-messianica della fine della storia (e per di più con alcuni argomenti assolutamente pertinenti, vedi Weber, Croce e Lowith), adesso sono essi stessi diventati i banditori di questa fine “naturalistica” della storia, implosa ormai in una fatalità crematistica intrasformabìle.

Che dire? Vergogna a tutti coloro che si fanno portatori di questa fine della storia, ed onore a tutti coloro che  vi si oppongono!