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La Libia immaginaria di Valerio Evangelisti

di Miguel Martinez - 31/03/2011


Una volta, praticamente tutti gli italiani erano contro le guerre: inconcepibile, anche ai tempi dei più grigi governi democristiani, l’idea di un uomo politico che offrisse cacciabombardieri italiani per la guerra nel Vietnam.

All’epoca, infatti, il potenziale nemico era l’Unione Sovietica, con tutto il suo arsenale nucleare. La sinistra era contro le guerre e la non-sinistra non sapeva nemmeno dove si trovasse il Vietnam, figuriamoci se aveva voglia di attaccarlo.

Poi siamo entrati nel nuovo mondo, in cui il nemico poteva avere migliaia di soldatini e fucili, ma non era in grado di abbattere un solo aereo. E quindi era a tutti gli effetti disarmato. Di fronte a un missile Tomahawk, non c’è differenza tra un militare di leva con un mitra e una vecchietta con una padella di ferro.

Così la guerra è diventata finalmente divertente. Certo, non la chiamano più così. Quando un padrone picchia il proprio schiavo, non si dice che “c’è stata una rissa”; e quando il governo degli Stati Uniti decide di bombardare qualcuno che non obbedisce, non si parla di “guerra”. Si usa piuttosto qualche variante della vecchia parola spagnola, Requerimiento.

Nel 2003, era al governo Silvio Berlusconi e Silvio Berlusconi voleva la guerra. Cosa che ha reso per un momento impopolare il concetto stesso di guerra tra coloro che ce l’avevano con Silvio Berlusconi.

Passa qualche anno, la sinistra torna per un po’ al potere, e la guerra diventa talmente un dovere anche per la sinistra, che nel 2006 un partito che si chiama comunista espelle i propri deputati che non la apprezzano. Da allora, tutto diventa possibile.

Il piccolo ambiente che comunque ha continuato ad opporsi al concetto di guerra si spacca di nuovo attorno alla questione dell’attacco franco-anglo-americano alla Libia.

Abbiamo già analizzato criticamente i motivi che inducono Gabriele Del Grande a sorvolare sul fatto maggiore – la guerra internazionale – in nome del fatto minore, cioè i conflitti interni della Libia.

In questi giorni girano però anche altri testi che affermano più o meno le stesse cose, ma si rivolgono in maniera più netta agli ambienti militanti: segnaliamo un intervento di Valerio Evangelisti, uno dei più noti autori fissi della Mondadori.

Commentando il blog En route!, Valerio Evangelisti scrive:

“l’intero blog andrebbe letto da cima a fondo. Ciò permetterebbe di cogliere la sostanza di classe, quanto mai moderna, della insurrezione libica. Paese in cui l’85% della popolazione vive in aree urbane e patisce i contraccolpi del neoliberismo, abbracciato con entusiasmo da Gheddafi.

Che dicono gli shebab dell’ingerenza straniera? Ovviamente ne sono contenti: fa loro comodo (Lenin stesso accettò gli aiuti della Germania). Sono perfettamente consapevoli che c’è chi vuole impadronirsi delle loro materie prima. Ma aggiungono: “Gli Occidentali si prendano il nostro petrolio: la rivoluzione vera la faremo dopo“. Rivendicano insomma la loro autonomia, sale di tutte le rivoluzioni.”

Stiamo parlando della stessa “rivoluzione” che Gabriele Del Grande descrive così, rispondendo alla domanda, chi fa parte del Consiglio Nazionale Libico?

“Sono personaggi di varia estrazione. Soprattutto avvocati, giudici, uomini d’affari e qualche faccia pulita del regime che ha abbandonato Gheddafi in tempo e che non ha le mani sporche di sangue.”

“Per quello che ho visto in questi giorni, io mi sento di appoggiare pienamente il popolo libico. Nella migliore delle ipotesi ne uscirà una repubblica costituzionale basata su un sistema economico liberista.”

E sulla “sostanza di classe”, è sempre Del Grande a chiarire:

“A differenza della Tunisia e dell’Egitto, la Libia è un paese ricco. Anche in questi giorni si vedono in giro fuoristrada nuovi di pacca e le case dove sono entrato sono case di classe media. I poveri in città sono soprattutto gli stranieri. Egiziani, sudanesi, chadiani, tunisini, marocchini, nigeriani, emigrati in Libia a cercare fortuna e finiti a fare i lavori più umili e meno pagati. Diverso è il discorso della campagna e del mondo rurale, che vive molto al di sotto del tenore di vita delle città. Ma di nuovo, qui non si protesta per i salari. Non ho mai sentito nominare la parola “salario” in piazza. Certo si grida allo scandalo per la corruzione, ma il punto principale è la libertà e la fine della dittatura e del terrorismo di Stato.”

E questi immigrati, che tengono in piedi il paese, dove li vediamo nella rivoluzione?

O tra gli sbarcanti di Lampedusa, o tra i presunti mercenari di Gheddafi, o tra le vittime dei pogrom dei primi giorni della rivolta.

Valerio Evangelisti sostiene che la “ingerenza straniera” (cioè i bombardamenti internazionali) “fa comodo” ai ribelli libici.

La cosa è possibile, certamente; ma sembrano sfuggirgli i rapporti di forza. La presenza di una base NATO a Pozzuoli fa comodo a migliaia di famiglie napoletane; ma sono i responsabili della base, e non i custodi dei parcheggi o gli operai edili o i contrabbandieri di sigarette ad avere il coltello dalla parte del manico.

Evangelisti ci presenta l’eccezione storica (o il precedente teologico) che giustifica i compromessi più strani: Lenin. Che fu un genio dell’organizzazione, capace di creare un partito spietato ma flessibile,  ancora più efficace di un esercito, con un progetto immenso e chiaro.

Francamente, non mi sembra che gli “avvocati, giudici, uomini d’affari e facce pulite del regime” siano dei Lenin. O forse il riferimento è al nuovo comandate militare dei ribelli, Khalifa Hiftar, che aveva diretto le sciagurate campagne militari di Gheddafi nel Ciad prima di trasferirsi negli Stati Uniti?

Ma ritorniamo al concetto di “repubblica costituzionale basata su un sistema economico liberista”. Anche se non sono d’accordo con Gabriele Del Grande, gli riconosco una notevole intelligenza e onestà. E non trovo affatto improbabile che venga fuori qualcosa di simile alla sua “migliore ipotesi” (quelle peggiori non ce le presenta).

Cioè, imprenditori francesi, americani e inglesi che “rinegoziano” i contratti, a danno dei propri compari italiani e a condizioni molto migliori per se stessi. Lasciando però abbastanza da mantenere un ceto medio di funzionari libici, che avranno più certezza dei propri diritti individuali di quanta ne abbiano attualmente.

Con due partiti, quello di Abu Bersani e quello di Ibn Berlusconi, che si contendono le elezioni.

Il ceto medio potrà mantenersi con il duro lavoro degli immigrati; e il paese sarà sostanzialmente chiuso verso i paesi arabi e africani, mentre – galoppiamo creativamente – produrrà imam moderati ed esperti per controllare le comunità islamiche in Europa, in stretta collaborazione con i servizi segreti occidentali.

E’ un obiettivo per cui vale la pena di combattere? Per molti giovani libici, forse sì. I guai nascono quando si attribuisce il termine “rivoluzione” a qualcosa di simile.

Siccome non è la prima volta che vedo un fenomeno del genere, posso ipotizzare che si tratti dell’eterna ricerca del Soggetto Rivoluzionario che caratterizza l’estrema sinistra, non solo quella rigorosamente marxista.

La visione di tanta gente che cammina per strada ha un curioso effetto obnubilante sull’intellighentsia di sinistra. Considerando che le stesse immagini di gente che cammina per strada sono un sottoprodotto del sistema spettacolare-mediatico: a destra il Grande Fratello, a sinistra le Masse in Marcia, sempre spettacolo è.

Non a caso, l’icona più significativa della sinistra italiana è il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, un quadro in cui si vede il Popolo Contadino che Cammina Verso il Futuro. Un futuro in cui i camminanti reali e i loro discendenti incontreranno non solo l’abbandono della terra che rivendicavano, ma anche due guerre mondiali, il fascismo, la piccola impresa padana e Lele Mora. Però il Futuro dei sognatori è sempre un’altra cosa.

quarto-statoLe folle di pakistani urlanti non fanno Camminanti Democratici; ma se i Camminanti si vestono più o meno come noi, si può sempre fantasticare che siano tanti Nannimoretti e Sabinaguzzanti, e che sia finalmente arrivata l’Ora della Rivoluzione. Che più la camminata è disorganizzata, più è confusionaria e saltellante o girotondante, meno è bolscevica o maoista.

Infatti, la damnatio memoriae delle poche rivoluzioni riuscite nella storia è ormai entrata in quasi tutti i cuori di sinistra. Senza che siano state liquidati gli aspetti peggiori di quelle rivoluzioni – la divisione del mondo in buoni e cattivi, la certezza della propria superiorità morale, le semplificazioni feroci, la rimozione di ogni ambiguità, le liste di proscrizione e la paranoia delle infiltrazioni.

Curioso il processo che si svolge ogni volta che i Camminanti deludono le aspettative dei loro spettatori: pensiamo al caso tragicomico di Carlo Panella, che pensava che gli iraniani in piazza nel 1979 fossero gente come lui. Quando lo hanno deluso, si è talmente arrabbiato da trasformarsi in uno degli islamofobi più rumorosi d’Italia.

I Carlo Panella prima versione ci tengono molto a negare che esistano “differenze culturali“: anche gli arabi, ci assicurano, possono essere milanesi. E quindi – come Evangelisti – corrono a sottolineare che i ribelli libici sono “quanto mai moderni“. Ipotizzare che un libico possa essere in qualche modo diverso da un italico medio viene definito “razzismo” (nei confronti del libico, non dell’italico). Che quello anormale potesse essere Carlo Panella, non può nemmeno entrare nell’anticamera del cervello di un occidentale.

Infatti, la stranezza che negano è sempre quella degli altri: nessuno si sorprende del fatto che il comunismo, impiantato tra gli esotici bolognesi, abbia dato frutti assai bizzarri rispetto al modello russo; o che la particolarità della Lucania abbia fatto sì che la sinistra locale sia composta sostanzialmente da cattolicissimi notabili ex-democristiani.

Non sono dentro il cervello del tipico apologeta bellico di sinistra, ma penso che siano speranze e proiezioni di questo tipo che fanno perdere di vista ciò che è maggiore e ciò che è minore.

Valerio Evangelisti non ci presenta il futuro Lenin della Libia, che resta nel mondo delle possibilità; ma ci parla degli shebab - normale parola araba, che indica “giovani”, come in “folla di giovani chiede autografi a Maria De Filippi“. Questi giovani, ci assicura Evangelisti, riusciranno a sfruttare e prendere in giro non solo i potentati locali, ma anche Nicolas Sarkozy, Barack Obama e David Cameron, nonché i loro promotori militari e imprenditoriali. Ci auguriamo vivamente che ciò sia vero, a riprova di tutti i luoghi comuni sull’astuzia araba.

Ma colpisce che questo sia l’unico accenno che Evangelisti faccia alla guerra internazionale in corso.

E’ un po’ come se uno storico vedesse in ciò che noi chiamiamo normalmente la Prima guerra mondiale una nota a piè di pagina in un testo sulla lotta di liberazione dei serbo-bosniaci contro l’impero austroungarico.

Non sarebbe esattamente sbagliato – in fondo, tutto inizia con l’attentato di Sarajevo. Potrebbe pure essere comprensibile in un libro di storia scritto per studenti serbo-bosniaci.

E si potrebbero probabilmente intavolare parecchie discussioni interessanti sui torti e sulle ragioni del nazionalismo serbo e del dominio austroungarico.

Però la Prima guerra mondiale è un’altra cosa; come l’attacco alla Libia è altra cosa dalle ragioni e dai torti di Gheddafi e degli insorti.

Detto tutto questo, vi invito a leggere il Dialogo tra un venditore di gazzette e un passeggiere a proposito della guerra di Cirenaica di Riccardo Venturi. Probabilmente non sono d’accordo sulle sue pur incerte conclusioni, ma è un’opera letteraria di prim’ordine.