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Rispetto per Lampedusa. Rispetto per l’Italia

di Alessio Mannino - 31/03/2011


In Libia c’è la guerra. In Italia una crisi economica da cui non c’è verso di uscire. E in un momento così drammatico la politica oscilla tra gli appelli “patriottici” di Napolitano e le sparate auto celebrative del presidente del Consiglio. Che ieri ha dato fondo al peggio del suo repertorio

 

Fa pena dover mettere a confronto la dignità della gente di Lampedusa con la buffoneria di Berlusconi. Tanto quelli mantengono un comportamento solidale coi migranti ma non prono all’ingiustizia di doverne sopportare da soli l’invasione, quanto il clown di Palazzo Chigi non perde l’occasione di prodursi nell’ennesimo show da avanspettacolo. «Anche io diventerò lampedusano. Sono andato su Internet e ho comprato una casa a Cala Francese, si chiama "Le Due Palme"», è arrivato a dire in faccia a quegli eroici isolani che vivono in mezzo alla sporcizia, esposti al rischio di epidemie, di giorno impegnati a dare una mano ai soccorsi e di sera tappati in casa per paura di furti e rapine da parte di stranieri affamati (fra i quali c’è, e non potrebbe essere altrimenti, anche qualche genuino delinquente). Non pago delle sue stomachevoli battute, si è prodigato nel consueto sfoggio di promesse che non manterrà: il Nobel per la Pace per l'isola, una moratoria fiscale, previdenziale e bancaria perché Lampedusa diventi zona franca, un piano per il turismo. Naturalmente ha già trovato il nome da far riecheggiare nell’etere propagandistico: operazione “Lampedusa pulita”. «Nelle prossime 48-60 ore l'isola sarà abitata solo dai lampedusani». Come a Napoli per la munnezza. Come il Patto con gli Italiani firmato in tv dal maggiordomo Vespa. Come l’incalcolabile trafila di balle rifilate all’Italia credulona in questi infiniti diciassette anni di “nuovi miracoli italiani”. 

Ma dico io: a un tiro di schioppo da noi, nell’ex alleata Libia, si sta consumando una guerra civile a cui l’Occidente, avido di affari, ha pensato bene di sovrapporre una scellerata guerra di conquista, il suolo nazionale è investito da un esodo di fuggiaschi che non siamo preparati ad affrontare, il ministero degli Interni viene sbeffeggiato dalle Regioni che non ne vogliono sapere di accoglierli secondo il piano di spartizione, e il nostro capo del governo insiste e persiste nel fare di un momento così delicato e drammatico l’ennesimo comizio in vista delle prossime elezioni amministrative? D’accordo che ci ha abituato a tutto, ma prego e spero che i fieri lampedusani abbiano un ulteriore scatto d’orgoglio e anche se in queste ore la collaborazione con la Tunisia rendesse possibile lo svuotamento dell’isola, alzino ancora il tono della protesta che già aveva toccato picchi di tensione col blocco del porto da parte dei pescatori e con la catena umana delle donne per impedire altri sbarchi. Berlusconi è la politica che sputa sulla sofferenza, dei suoi compatrioti e dei disperati che vengono qui a sommare disperazione a disperazione.

Perché è inutile far finta che l’immigrazione sia un problema controllabile coi flussi burocratici, coi patti d’acciaio (e si è visto, l’acciaio) con dittatori ricattatori, o con le porte spalancate sempre e comunque e con chiunque. La migrazione di africani e asiatici, specialmente giovani (spesso istruiti e vogliosi d’integrarsi, come i tunisini stipati a Lampedusa), è un processo storico inarrestabile. Sempre che non si arresti il cammino della globalizzazione dei mercati e degli stili di vita, che induce popolazioni contaminate dal miraggio del “benessere” occidentale a trasferirsi in Europa. Oppure, al rovescio, sarebbe ora di rompere il tabù delle braccia aperte a tutti i costi e cominciare a dire la verità: siamo già troppi. Il nostro paese è sovrappopolato, trovare un lavoro decente è diventato un terno al lotto, imperversa una silenziosa e feroce guerra fra poveri in cui a farcela sono raccomandati, favorite e paggi del signore di turno, la maggior parte delle lauree non serve a un beneamato, l’economia non tira e quando lo fa – gli dei abbiano sempre in gloria i piccoli imprenditori, che a volte si suicidano per la vergogna di non poter pagare i dipendenti - è per grazia ricevuta dai vampiri delle banche, e con tutto ciò dovremmo fare gli incoscienti buoni samaritani condannando tutti, noi e i forestieri, a una miscela di disoccupazione, frustrazione e criminalità? 

Eh no, non se ne può più. È vero che spesso i nostri ragazzi sono delle fighette laccate che disdegnano la fatica e il posto umile, ma è anche vero che questa è un preciso orientamento della società figlia della “innovazione” e della “conoscenza”, cioè della scomparsa della manifattura e dell’agricoltura soppiantate dalla metastasi del superfluo, dei “servizi” e della finanza. I colpevoli sono i loro genitori, che dopo il “boom” dei trent’anni gloriosi (anni ’50-’70) e il declino dei trent’anni accidiosi (anni ’80-2000), si sono adagiati sulla rendita di un modello economico-sociale che è crollato sotto i colpi del mercato unico mondiale. Il modello di vita, sparso in ogni angolo del pianeta grazie alle nuove tecnologie, ha fatto il resto e il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: masse di poveri che premono ai nostri confini per essere un po’ meno poveri ma rendendoci tutti più miseri dal momento che il loro arrivo a frotte abbassa il costo della manodopera facendo la felicità dei padroni del vapore e l’infelicità dei lavoratori. 

Se esistesse un’Unione Europa degna di tal nome, sua sarebbe la missione di regolamentare e gestire l’ingresso di extracomunitari secondo una regia unica. Ma per questo occorrerebbe che il continente europeo si desse una missione a monte: fondare un sistema di sviluppo interno il più possibile autonomo dalle cupole finanziarie e industriali che manovrano a tavolino le politiche economiche degli Stati. Per ora il consesso internazionale è talmente succube degli appetiti da business (vedi la Francia che sbava per mettere le mani sulla Libia) che giunge a calpestare ogni logica utilitaria e di buonsenso fino ad escludere in un consiglio di guerra la nazione più esposta e più interessata a sovrintendere al futuro di Tripoli, l’Italia, includendo invece la Germania che non partecipa neanche alle operazioni. Per uno schiaffo simile il nostro governo dovrebbe come minimo revocare l’uso delle basi aeree da cui decollano i voli di bombardamento. 

Ma avercelo, un governo. In sua vece abbiamo un comico che dà spettacolo mentre è immerso fino al collo nel fango di processi gravissimi e umilianti per noi sudditi che ne subiamo le piazzate ogni santo giorno. E poi Napolitano osa anche venirci a parlare di patria e di coesione nazionale. Vada a dirlo a Lampedusa.