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Carlo Petrini intervista Pete Seeger (l'inno di Terra Madre)

di Carlo Petrini - 06/06/2006



 

Non bisogna chiedersi se un cibo è tradizionale oppure no, bisogna chiedersi a che serve quel cibo, che conseguenze hanno la sua produzione e il suo consumo per le persone e per la Terra...


Riprendiamo i Dialoghi sulla Terra in vista di Terra Madre 2006 (l’incontro fra le comunità del cibo che si terrà a Torino dal 26 al 30 ottobre) e lo facciamo con Pete Seeger, la leggenda vivente del folk americano.

Oggi ha 87 anni e nella sua vita ha letteralmente attraversato la storia della musica americana, iniziando da giovane a lavorare con il grande musicologo Alan Lomax a fine Anni 30, per poi accompagnare il mito di Woody Guthrie nei '40, essere quindi perseguitato dal maccartismo, capeggiare negli Anni 60 il revival folk capitanato da Bob Dylan e Joan Baez ed essere infine celebrato da Bruce Springsteen, che ha dedicato alle sue canzoni il recente ultimo album We Shall Overcome: The Seeger Sessions.

Ha scritto o firmato il riadattamento di canzoni tradizionali diventate popolarissime in tutto il mondo, come per l'appunto We Shall Overcome, o If I Had a Hammer, Turn Turn Turn, Goodnight Irene e Wimoweh che stata poi trasformata nella pop hit The Lion Sleeps Tonight.

Oltre alla fama come cantante, Seeger è noto per il suo impegno civile ed ecologico, per le lotte a favore dei diritti umani, contro la guerra in Vietnam, contro il nucleare e per la giustizia sociale.
Visto che è anche molto vicino al movimento del biologico americano e dei farmer's markets, l'ho incontrato a casa sua, vicino Beacon, nella valle del fiume Hudson a Nord di New York.

Una casa immersa e protetta da un bosco fitto, che ha costruito con le sue mani e che gode di una splendida vista sul fiume, anche se lui si lamenta per le fabbriche e i complessi residenziali che negli anni hanno peggiorato il panorama.

Qual è la storia di una canzone come We Shall Overcome, famosa come inno per i diritti civili in tutto il mondo?
«La canzone è il risultato di qualcosa che assomiglia molto a quello che succede per la storia dei cibi, che passano attraverso migrazioni e scambi tra civiltà. In origine era un canto tribale africano, portato qui negli Stati Uniti dagli schiavi, i quali hanno creato il ritornello in inglese. Intanto l'avevano rallentata per adattarla ai ritmi duri del lavoro. Negli anni è cambiata, è stata adottata dai sindacati durante la grande depressione e si è trasformata in una sorta di coro popolare in levare. Io non ho fatto altro che riadattare questa ultima versione che sentivo durante gli scioperi, facendone un inno per la gente oppressa sul lavoro e nella vita, che combatte per un giusta causa».

Sto pensando di farne l'inno di Terra Madre, è la canzone più adatta, proprio per le lotte che ha accompagnato durante la sua storia, e perché i contadini oggi sono tra le persone più in difficoltà del pianeta.
Sono contento che nel descrivere questa genesi tu abbia parlato di un'analogia tra cibo e musica, perché sono convinto che siano due aspetti di una visione olistica che deve essere applicata alle culture dei popoli; culture che oggi rischiano, esattamente come la biodiversità, di sparire per sempre, colte da un'omologazione portata dai mezzi di comunicazione di massa e dalla disattenzione per tutto ciò che si riferisce al passato. In realtà nei saperi ancestrali, nel modo tradizionale di preparare e coltivare il cibo, nei canti popolari, nelle leggende tramandate oralmente, risiede un grande sapere, che può ancora aiutarci oggi, in questi tempi difficili.

«È importante non perdere questa memoria che ci parla della nostra storia, anche perché il mondo della musica oggi ci dimostra che ricombinando le tradizioni e i generi possono nascere cose interessantissime. Oggi avviene ad esempio con certa musica elettronica, ma è sempre successo: nel XIX secolo la musica americana era influenzata dalla tradizione irlandese, nel secolo successivo si è sovrapposta l'influenza africana che ci ha regalato il jazz e il blues, poi c'è stata commistione tra gli elementi africani e la musica latina. Il tutto si è adattato alla nostra realtà e sono nate cose nuove, la storia della nostra musica. Cancellare il passato non va bene: il passato torna sempre utile».

Che ruolo pensi possa avere la tecnologia in questi processi che possono rivelarsi tanto di distruzione quanto di ricombinazione?
«Nel 1910 quando inventarono il fonografo tutti si chiedevano che cosa sarebbe successo alla voce americana, chi avrebbe ancora cantato le ninne-nanne ai bambini. Dopo, grazie a questo strumento, Alan Lomax ha potuto registrare migliaia di musiche folk in tutto il mondo, creando un archivio immenso al quale ho avuto la fortuna di lavorare da giovane. Ovunque ci sono contraddizioni, la tecnologia ci può salvare, sempre se non ci distruggerà prima. Oggi, però, sono molto pessimista: abbiamo il 50% delle possibilità che la razza umana ci sia ancora tra uno o due secoli. La scienza ha anche inventato armi terribili e gli effetti collaterali delle sue invenzioni spesso non sono considerati. Perché, come diceva mio padre, la scienza può anche essere considerata da qualcuno come una religione e in suo nome si possono fare grossi disastri».

Come sei passato dal tuo interesse per la musica alle questioni ecologiche, che riguardano il nostro futuro, il futuro del nostro cibo e quindi dei nostri figli?
«Anche grazie a un libro di Rachel Carson Primavera silenziosa. Ho sempre pensato che fosse importante aiutare i deboli a mantenere il patrimonio della terra, ma qui si parlava di una terra avvelenata, che anche se non veniva tolta ai deboli sarebbe comunque morta. Oggi penso che non ci sia una sola grande organizzazione in grado di salvare il mondo, perché l'establishment che si avvale della scienza e delle risorse può fare ciò che vuole. Ho visto troppe grandi organizzazioni rovinate dai soldi. Bisogna unire le forze, bisogna che le organizzazioni restino a una dimensione umana, responsabili, e che lavorino insieme».

Sai che Slow Food si preoccupa di difendere la biodiversità, origine della diversità dei cibi e quindi fattore identitario dei popoli e delle comunità del cibo.
Lo stesso si può dire della musica, e infatti le musiche più in pericolo sono proprio quelle dei contadini, musiche che se ne vanno insieme a loro.
Tu, nella tua ricerca, hai girato gli Stati Uniti a partire dagli Anni 30, quando la popolazione contadina era ancora consistente, molto più dell'esiguo 2% di oggi. Come hanno influenzato il tuo lavoro?
«Ovviamente molto. Ho fatto l'autostop sette mesi. Woody Guthrie mi disse come fare per imparare qualcosa e sbarcare il lunario. Mi disse: “Siediti in un bar con il tuo banjo in spalla e ordina una birra. Bevila più lentamente che puoi. Prima o poi qualcuno si avvicinerà e ti chiederà se sai suonare lo strumento che porti. Dopodichè ti allungherà un quarto di dollaro per suonare, chiedendoti qualche canzone. Ti guadagnerai il necessario per sopravvivere e se non saprai la canzone richiesta te la insegneranno loro." Era il mondo di quei contadini disperati, che stavano perdendo tutto e che affollavano le strade d'America in cerca di fortuna. Bastava sedersi in bar con il proprio strumento a tracolla per essere avvicinati e imparare qualcosa dagli altri. La musica non manca mai, anche nei momenti più difficili, anzi: in quei momenti costituisce una specie di salvezza, unisce le persone».

Che mi dici invece di Alan Lomax? Sai che è stato in Piemonte nel '54 quando ha fatto uno dei suoi giri all'estero per registrare i canti popolari? Girò tutta l'Italia e oggi c'è una collezione di dischi bellissima, preziosissima.
«Era un grande musicologo, lui e Moses Asch hanno fatto un lavoro incredibile, molto diverso da quello dei musicologi europei che trascrivevano le canzoni, di fatto modificandole. Loro le registravano, riportandocele il più fedelmente possibile. Peccato che non gli lasciarono mai pubblicare le canzoni di protesta o quelle più sconce. Spesso erano le migliori. Ma sono lì, negli archivi a Washington e pian piano qualcuno le tirerà fuori dagli scaffali».

Anche tuo padre fu un grande musicologo. Che ci puoi dire del suo lavoro?
«Si chiamava Charles e scrisse un manifesto sul significato della musica popolare. Al punto nove diceva: "La questione principale non è chiedersi se siamo di fronte a musica popolare o no. La questione vera è chiedersi a che cosa serve quella musica. Se serve a sposarsi, a diventare indipendenti o più democratici, se serve a accompagnare il lavoro, allora quella è musica popolare”. Mio padre diceva che la musica da ricercare - e indottrinò su questo Alan Lomax - era il vernacolo delle persone, la più simile al linguaggio parlato. Il jazz in città, il country in campagna, il background dei gruppi etnici che vivono in America. Disse a Lomax: "Registrale e non cambiare una nota, questo è il nostro patrimonio sacro"».

Mi viene da pensare che sia lo stesso per i cibi tradizionali, popolari.
Non bisogna chiedersi se un cibo è tradizionale oppure no, bisogna chiedersi a che serve quel cibo, che conseguenze hanno la sua produzione e il suo consumo per le persone e per la Terra.
Il cibo è un'altra grande forma di linguaggio, un altro vernacolo, un patrimonio sacro che va difeso insieme all'umanità che lo produce nei campi.
«Sono battaglie giuste al giorno d'oggi, le più importanti. E sai cosa ti dico? (Imbraccia il banjo e attacca a cantare, ndr) We shall overcome, someday…»