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Bush & Blair: quando non si trovano le parole

di Scott Ritter - 06/06/2006

 
Senza una sincera riflessione su quanto c’è stato di sbagliato – e in mancanza di uno sforzo concreto per trovare modalità serie per ritirarsi dall’Iraq – le vane parole di Bush e Blair continueranno a essere lo specchio di un processo illusorio e autoreferenziale, su una via che non può che portare altre morti e distruzione in Iraq

È il caso di chiedersi cosa deve esser passato per la testa ai consiglieri di George W. Bush e di Tony Blair che han loro suggerito di "confessare", per così dire, i rispettivi errori fatti nella guerra in Iraq. Tanto per cominciare, le due persone al mondo che hanno le responsabilità maggiori per il disastro in corso in Iraq, con 2.460 americani e 106 soldati britannici uccisi (per non pensare alle migliaia di morti iracheni di cui non si parla), hanno mostrato una tale combinazione di indifferenza e ignoranza da riuscire da soli a cacciarsi nei guai fino al collo.

Il presidente Bush si è auto-accusato per le proprie “espressioni troppo dure”, mentre il primo ministro britannico ha avuto ripensamenti sulla decisione di smantellare l’infrastruttura baathista che ha tenuto insieme l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein; nessuno dei due, tuttavia, ha espresso il minimo disappunto per, in primo luogo, aver preso la decisione di invadere l’Iraq.

Bush non ha fatto alcun riferimento alle mistificazioni e alle falsificazioni sulle armi di distruzione di massa di cui lui e il suo leale alleato sproloquiavano liberamente nei mesi che hanno preceduto l'invasione del paese nel marzo 2003. Blair, tornato da poco da una visita a Bagdad, dove si è incontrato con il nuovo primo ministro iracheno Nouri al Maliki, non si è fermato a riflettere sul fatto che, prima che le truppe britanniche e americane ne rovesciassero il governo, condannando il paese alla terribile realtà di una guerra civile, l’Iraq di Saddam Hussein era una terra più pacifica e più prospera.

“Nonostante le battute d’arresto e i passi falsi, sono fermamente convinto che stiamo facendo la cosa giusta”, ha commentato Bush, che però si è subito affrettato ad aggiungere: “Purtroppo non tutto è andato come avevamo sperato.” Affermazione per lo meno riduttiva, considerata la situazione (!). Dal canto suo Blair ha parlato di errori di valutazione, il più grande dei quali sarebbe stato quello di sottovalutare la portata e l’intensità dell’insurrezione, che ha definito come una lotta contro il processo di democratizzazione – non come una lotta contro un’occupazione illegale, illegittima e ingiusta.

Blair ha scelto di rendere pubbliche le sue considerazioni nel momento in cui il popolo del Regno Unito stava ancora metabolizzando le recenti rivelazioni su come il premier britannico avesse fuorviato il procuratore generale Lord Goldsmith, portandolo a presentare un verdetto che permetteva alla Gran Bretagna di dichiarare guerra – in mancanza di una seconda risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Sembra che Blair avesse informato Lord Goldsmith di come l’Iraq costituisse una ”violazione materiale” dei propri obblighi – nonostante il fatto che non era stata portata alla luce nessuna informazione su armi di distruzione di massa – e che gli ispettori delle Nazioni Unite si trovassero in Iraq con la collaborazione totale del governo del paese. Comunque, su questa questione l’uomo di Downing Street non ha fiatato.

Da parte sua, Bush ha dato gran voce ai costi del conflitto per gli Usa. Ha affermato: “Non c’è dubbio che la guerra in Iraq abbia creato costernazione in America. Voglio dire che accendere la TV e vedere persone innocenti che muoiono praticamente tutti i giorni, incide sul modo di pensare del nostro paese“. Ha poi aggiunto: “Capisco i motivi per cui il popolo americano è scosso dalla guerra in Iraq. Lo capisco davvero. Ma credo anche che il sacrificio sia giusto e necessario".

Naturalmente, il presidente Usa ha taciuto sulla recente visita in Iraq del comandante dei marines, il generale Michael Hagee, che ha ammonito i suoi, i soldati che combattono una lotta all'ultimo sangue nella provincia irachena di Anbar, di uccidere “solo qualora l’atto sia giustificato”, anche alla luce delle recenti accuse di atteggiamenti “troppo aggressivi” da parte delle truppe. Ben 717 marines hanno perso la vita combattendo in Iraq – la maggior parte nella provincia di Anbar, zona in cui ci sono stati ripetuti episodi di violenza e dove l'insurrezione irachena è particolarmente agguerrita. Il III battaglione e il V reggimento sono accusati di aver massacrato dozzine di iracheni innocenti, durante uno scontro a fuoco seguito a un attacco mortale alle truppe Usa sferrato per mezzo di una bomba posta sul ciglio di una strada.

E allora ecco che il generale ammonisce i marines di distruggere solo quello che deve essere distrutto, di uccidere solo quelli che devono essere uccisi, ora che i militari si trovano nel bel mezzo di un conflitto che non hanno scelto loro, mentre combattono un nemico pericoloso e deciso – come se la guerra fosse una cosa semplice.

Bush e Blair sono gli unici responsabili della terribile realtà e del disastro totale a cui sono state sottoposte le forze armate dei due paesi e il popolo iracheno nel suo complesso. Ma invece di concentrarsi su questo problema, Bush ha evitato qualsiasi riferimento al rientro delle truppe. Ha commentato: “Ho detto all’America: 'Come gli iracheni-si reggeranno sulle loro gambe, noi lasceremo loro il comando’. Ma ho anche detto che saranno i nostri comandanti sul posto a prendere la decisione”. Blair gli ha fatto eco rispettosamente, affermando, dopo la sua visita a Bagdad, di essere convinto del fatto che la sfida fosse ancora immensa, ma più che mai certo della necessità di esserne all’altezza.

Per entrambi si tratta di convincere i rispettivi elettori; Blair tenta di prevenire la sua inevitabile dipartita dal governo, Bush cerca di evitare, contro ogni speranza, un cedimento a favore dei democratici in occasione delle elezioni di novembre di mezzo termine. Ma entrambi hanno dimenticato, come dice un vecchio detto militare, che “anche il nemico vota”. E i voti dell’insurrezione irachena si contano ogni giorno sui cadaveri delle persone uccise dalla violenza esportata in Iraq, con le bugie e con l’inganno, unicamente inseguendo il potere (per Bush sotto forma di egemonia globale, per Blair nel patetico sforzo di-mantenere una “relazione speciale” col presidente americano). Questa decisione evidenzia come la politica portata avanti in Iraq non possa essere più corrotta.

Senza una sincera riflessione su quanto c’è stato di sbagliato – e in mancanza di uno sforzo concreto per trovare modalità serie per ritirarsi dall’Iraq – Bush e Blair perseveranno in un processo illusorio e autoreferenziale su una via che non può che portare altre morti e distruzione in Iraq.

Forse i consiglieri di Bush e quelli di Blair pensavano di riuscire ad attenuare la disavventura di due leader resi così impopolari da una debacle come quella irachena. Se è così, non ci sono riusciti. La recente conferenza stampa congiunta è stata uno spettacolo penoso, imbarazzante spettacolo delle gesta di due politici al tramonto che hanno continuato a sostenere le stesse politiche fallimentari che hanno trascinato le loro rispettive nazioni in una guerra disastrosa.

Per citare Blalr: “Cos’altro posso dire? Probabilmente è più saggio non aggiungere altro”.

 

Scott Ritter è stato ispettore delle Nazioni Unite in Iraq (1991-1998) e responsabile dei servizi d’intelligence dei marines. È autore di 'Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU' (prefazione del premio Pulitzer Seymour Hersh, prefazione all'edizione italiana di Gino Strada).

 

 

Fonte: The Guardian
Tradotto da Antonella Melegari per Nuovi Mondi Media