Il fatto che una nave da guerra della Nato abbia bloccato un rimorchiatore libico che trasportava armi ai ribelli di Misurata conferma i crescenti timori che esse finiscano «in mani sbagliate». L'ammiraglio statunitense James Stavridis, comandante supremo alleato in Europa, ha avvertito che vi sono indizi di una presenza di Al Qaeda tra le forze anti-Gheddafi. Il viceministro degli esteri algerino Abdelkader Messahel si è detto preoccupato della crescente attività, nella vicina Libia, del Maghreb islamico (Aqim, ala nordafricana di Al Qaeda). Uno dei suoi capi, Abdul Al Hasadi, entrato nelle forze anti-Gheddafi dopo essere tornato dall'Afghanistan, sta addestrando centinaia di insorti a Derna. Appena nove mesi fa, quando Washington era in ottime relazioni con Tripoli, il Dipartimento di stato sottolineava che «il governo libico ha continuato a cooperare con gli Stati uniti per combattere il terrorismo, soprattutto il Gruppo combattente islamico libico (Lifg) e Al Qaeda nel Maghreb islamico» (Congressional Research Service, Libya: Background and U.S. Relations, 16 luglio 2010). Oggi anche il Lifg, collegato ad Al Qaeda, fa parte integrante delle forze ribelli che combattono contro quelle leali a Gheddafi. Il Gruppo combattente islamico venne fondato non in Libia, ma in Afghanistan da mujaheddin libici che avevano combattuto contro le truppe sovietiche. Collegato alla Cia e al servizio segreto britannico Mi6, e finanziato dall'Arabia saudita, iniziò nel 1995 in Libia la Jihad islamica contro il regime laico e, nel febbraio 1996, tentò di assassinare Gheddafi (nell'attentato morirono diverse guardie del corpo). Ad assicurare i collegamenti dell'Mi6 e della Cia con il Gruppo combattente islamico libico era lo stesso capo dell'intelligence di Gheddafi, Moussa Koussa, che svolgeva il ruolo di «doppio agente». Contemporaneamente, l'Mi6 e la Cia «aiutavano» Gheddafi a «combattere il terrorismo», in particolare il Gruppo combattente islamico collegato ad Al Qaeda. Moussa Koussa, rifugiatosi la scorsa settimana a Londra, è stato subito ricompensato: i suoi conti bancari all'estero, bloccati dal Tesoro statunitense, sono stati «scongelati». Non corre però buon sangue tra lui e altri ex generali di Gheddafi, ora nel «governo» di Bengasi: in particolare Abdul Fatah Younis, già ministro dell'interno, e Khalifa Haftar che, reclutato dalla Cia nella guerra del Ciad e portato negli Usa, è divenuto capo militare del Fronte di salvezza nazionale libico. Il quadro è ulteriormente complicato dalla presenza di Abdul Al Hasadi e altri capi dei gruppi islamici. Composti da combattenti esperti, tali gruppi sono oggi ancora utili contro Gheddafi, ma domani potrebbero essere pericolosi per gli interessi statunitensi e alleati in Libia. Su questo terreno mette piede l'Italia, accodatasi alla Francia, insieme alle monarchie di Qatar e Kuwait, nel riconoscere il «governo» di Bengasi, cui Frattini non ha escluso di fornire anche armi. Lo scopo è evidente: farsi perdonare il trattato di amicizia italo-libico del 2008 e far sì che gli investimenti dell'Eni nel settore energetico libico non vadano perduti. Ma, mettendo ufficialmente piede a Bengasi, l'Italia si candida a inviare truppe quando lo decideranno a Washington, Londra e Parigi. Esse si troverebbero in una situazione di tipo balcanico, in un paese spaccato in due o più stati etnico-tribali, o di tipo iracheno/afghano, con una resa dei conti tra le stesse forze ribelli e una continua guerriglia interna. Con la differenza che sarebbe a poche centinaia di km dalle nostre coste.
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