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Accanimento terapeutico: tra speranze impossibili e massacri inutili

di Massimo Fini - 16/04/2011

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Un’importante sentenza della Cassazione stabilisce che è vietato ai medici di tentare interventi chirurgici il cui esito è senza speranza, anche se esiste il consenso informato del paziente. La sentenza si riferisce al caso di una donna di 44 anni affetta da un tumore al pancreas gà in fase di avanzata metastasi. Ogni cura sarebbe stata vana. Tre chirurghi dell’ospedale San Giovanni di Roma decisero di operare lo stesso la donna; le asportarono le ovaie e una parte del tumore poi, nel tentativo di rianimarla, le frantumarono lo sterno e un paio di costole. Un massacro che non le salvò la vita. I tre medici sono stati condannati, ma si sono salvati grazie alla solita prescrizione.
Sono sempre stato contrario all’accanimento terapeutico, e l’ho scritto più volte su questo giornale. Quando il malato è cosciente e rifiuta le terapie il problema non dovrebbe nemmeno porsi, perché la Costituzione all’articolo 32 dice: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La Legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Ecco perché è quasi incredibile che ci sia potuto essere un "caso Welby", che era perfettamente lucido e cosciente e preferiva morire piuttosto che essere tenuto in vita da macchinari tecnologici. Se io vado in ospedale e i medici mi diagnosticano un tumore, e per salvarmi vogliono sottopormi a determinate cure, io ho il diritto di girare le terga. Ho diritto di morire in maniera naturale, in santa pace, a modo mio, come fece Jacques Brhel, il famoso cantautore, ispiratore di Fabrizio De Andrè, che in una situazione simile salì sulla sua barca a vela e andò a spendere i suoi ultimi giorni in mare; libero. La questione si pone quando il malato è in coma, non è cosciente. Chi deve decidere? Secondo me i familiari, e non i medici e le équipe tecnologiche ospedaliere, che hanno il mito del prolungamento della vita a tutti i costi. Già ai primi del Novecento Max Weber avvertiva: "Il presupposto generale della medicina moderna è che sia considerato positivo, unicamente come tale, il compito della conservazione della vita ... Tutte le scienze danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare "tecnicamente" la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i propri fini".
La mia convinzione è che l’uomo abbia diritto alla morte naturale il che vuole dire che la sua vita non deve essere prolungata artificialmente, con speciali macchinari, ma nemmeno abbreviata artificialmente, per esempio con un’iniezione letale, perché questa sarebbe eutanasia.
Nel caso di cui si è occupata la Cassazione siamo però in un’ipotesi del tutto opposta. In questo caso è il malato che vuole prolungare artificialmente la sua vita, costi quel che costi, anche sofferenze inenarrabili. Se il medico si rifiuta di intervenire, perché sa che è inutile, ridiventa lui il padrone della vita del paziente. Non si può togliere al malato l’ultima cosa che gli resta, la speranza, anche se si sa che non c’è nessuna speranza. In genere una persona se può sperare di vivere anche un solo giorno in più è disposta a tutto. È umano. Disumana è la medicina tecnologica che ci pone davanti a queste atroci alternative impedendoci di accettare con un minimo di serenità la morte come avveniva in passato.