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Massimo Fini: andarsene da una guerra sbagliata

di di Carlo Passera - 08/06/2006


Massimo Fini, c’è stato un altro attentato contro il contingente italiano in Iraq. Che significa? Cresce l’ostilità nei nostri confronti?
«Noi siamo andati in Iraq da sprovveduti, credendo davvero di svolgere una missione di pace e trovandoci dunque impreparati al clima di quel Paese: questo ha portato alla strage di Nassirija. Ma da quel 12 novembre 2003 fino a qualche mese fa gli italiani non sono stati più nemmeno sfiorati, e per un motivo molto semplice: vista la mala parata, abbiamo stabilito una sorta di patto, di gentlemen agreement con i servizi segreti iraniani, che controllano tutta l’area sciita attraverso le truppe di Muqtada al-Sadr, da loro armate e finanziate».
Ma non dovrebbe essere la “coalizione dei volenterosi” a controllare il territorio?
«Macchè. Noi facevamo solo finta di pattugliare le zone assegnateci. in realtà tenevamo un profilo basso, evitavamo ogni tipo di operazione militare e in cambio loro ci lasciavano in pace».
Perché lo scenario è improvvisamente cambiato?
«Credo che la cosa si leghi alla questione nucleare iraniana. La politica tremendamente aggressiva degli Stati Uniti nei confronti di Teheran, alla quale noi - sbagliando - ci siamo accodati, ha fatto “allentare” il patto del quale dicevo. Ci saran stati almeno cinquanta tentativi di attentato nei confronti del contingente italiano, ma nessuno di questi aveva nemmeno sgualcito la divisa di un nostro soldato. Ora gli iraniani sono meno attenti a contrastare questi tentativi di colpirci e noi siamo dunque molto più vulnerabili».
Ma tu pensi a un coinvolgimento diretto dei servizi iraniani negli ultimi attentati mortali? O a loro si può rimproverare solo una minore “vigilanza”?
«Non penso a un coinvolgimento, credo abbiano allentato appositamente il controllo».
Comunque, viene lanciato un chiaro segnale che purtroppo travolge vite umane...
«Proprio così. Devo dire che tra tante solite, bolse chiacchiere da “armiamoci e partite”, la dichiarazione più dignitosa, sincera, onesta e coraggiosa mi è parsa quella del padre del soldato ucciso, il quale ha spiegato che il suo ragazzo era andato in Iraq semplicemente per raggranellare qualche soldo. “Non piango un eroe dato alla patria, piango un figlio”, ha spiegato, smascherando tutte le sciocchezze sulla missione di pace e la retorica patriottarda alla quale non siamo proprio adatti».
Qualcuno poteva pensare che, con l’avvento a Palazzo Chigi di un governo favorevole al ritiro dall’Iraq, i rischi di nuovi attentati divenissero remoti.
«Noi ragioniamo come se popoli lontanissimi dalle nostre logiche usassero lo stesso metro di giudizio, ma non è così. Credo che la resistenza irachena, così come i terroristi (ossia le due componenti che stiamo fronteggiando), sia poco interessata a quel che accade in Italia, anche se ne viene a conoscenza attraverso internet. Per loro il soldato italiano è un occupante, un nemico finché non se ne andrà. Inutile ci si faccia illusioni».
Si è però sempre detto - prove alla mano - come tali organizzazioni avessero ottimi informatori nel nostro Paese, capaci di seguire e interpretare l’evoluzione del quadro politico romano...
«Certamente sono informati ma, ripeto, io dubito ragionino con la nostra logica. Noi, ahimé, stiamo attenti a dove si posiziona D’Alema, o Mastella, o Follini. Loro, non credo proprio, sono liberi da queste tristi preoccupazioni».
Ora si dice: non dobbiamo farci dettare dai terroristi i tempi del ritiro. Sei d’accordo?
«È ovvio. Per fortuna in questo caso il ritiro era stato già annunciato, dunque non è una fuga dopo l’attentato, è un andarsene da una guerra sbagliata e che non siamo in grado di reggere».
In che senso?
«Non siamo mai capaci di accettare che qualcuno possa morire durante queste operazioni. Gli americani hanno avuto 2.500 vittime, gli inglesi 800 e quasi non battono ciglio. Per carità, tutto il rispetto: ma da noi, ogni volta che viene ucciso qualcuno sono due giorni di lutto nazionale...».
Dunque: ritirarsi secondo i tempi già stabiliti o ritirarsi al più presto?
«Era stato deciso di andarsene e non credo siano necessari tempi lunghi. Zapatero ha chiuso le operazioni in un paio di mesi, non penso sia necessario molto di più. Certo non occorre fare la finta di cedere alle pressioni del governo iracheno: dire di andarsene “in accordo coll’esecutivo di Baghdad” significa rimanere sine die, perché sappiamo benissimo come quest’ultimo rimanga in piedi nella misura in cui restano le truppe di occupazione, poi sarà spazzato via in un quarto di secondo».
Tre possibili obiezioni alle tue argomentazioni. La prima: ad andarcene via al più presto, non si rischia di far la solita figura da italiani che tradiscono i loro alleati?
«No, non sarà il solito “giro di valzer” perché a Roma il governo è cambiato e quella che era la vecchia opposizione da sempre si diceva contraria alla guerra. Succede insomma quanto già avvenuto in Spagna: non mi pare che Madrid sia ora considerata capitale dei voltagabbana, al contrario...».
Vero, ma l’Italia ha una lunga e poco prestigiosa tradizione in questo senso.
«Certo, siamo sempre sospetti, ma in questo caso la faccenda mi pare abbastanza limpida. In fondo, non ce ne vogliamo andare solo noi, ma anche gli inglesi e gli stessi americani: non per fifa, ma perché questa guerra si è dimostrata del tutto sbagliata, un boomerang che ha favorito di gran lunga quel terrorismo internazionale per combattere il quale la si è intrapresa».
Seconda obiezione: la politica estera di un Paese non può cambiare ogni cinque minuti. Un Paese che modifica così spesso le proprie scelte perde peso internazionale.
«È vero che in politica estera occorre avere una barra il più possibile ferma; purtroppo la barra del governo Berlusconi ci portava in direzione del tutto sbagliata; ci appecoronava agli americani, dai quali gli stessi inglesi han preso le distanze».
Il che non è cosa da poco...
«Esatto: quella tra Washington e Londra è un’alleanza storica, eppure si è incrinata. Anche tu avrai letto le dichiarazioni di molti alti ufficiali dell’esercito Gb che spiegavano: “Mai più con gli americani”».
Piccola parentesi rispetto al nostro discorso: te l’aspettavi questo allontanamento della Gran Bretagna dagli Stati Uniti?
«Me lo auguravo, non mi sorprende perché gli inglesi nella loro storia sono stati anche feroci, ma mai hanno adottato un modo di combattere vile come quello americano. Durante la guerra delle Falkland hanno anzi mostrato tutto il loro valore. Poi, ci speravo perché una rottura tra Gb e Usa è la condizione essenziale per avere un’Europa credibile, forte e largamente autonoma. Se questo è l’inizio di un allontanamento definitivo, c’è solo da esultare. Trovo peraltro grottesco che noi si sia diventati i “nuovi inglesi”...».
Senza averne peraltro neppure il “fisico”. Riprendiamo il filo che avevamo interrotto, t’ho promesso una terza e ultima obiezione: giunti a questo punto, a prescindere da ogni altra valutazione, non vale comunque la pena sostenere, difendere quell’abbozzo di democrazia che è stato instaurato a Baghdad?
«No, perché è sbagliato il concetto in sé, occorre che i popoli possano determinare da soli la propria storia, ogni imposizione dall’esterno provoca disastri che si ritorcono contro di noi. Prendiamo la vicenda di Mogadiscio: gli americani si schierarono dalla parte dei corrotti “signori della guerra” per l’improbabile ricostruzione pacifica del Paese. Cosa ne è conseguito? La vittoria della componente radicale islamica».
Si rischia la stessa cosa in Iraq?
«Quello è un Paese costruito a tavolino dagli inglesi negli anni Trenta, Saddam Hussein era l’equilibrio feroce che era stato trovato. Sostituirlo con la democrazia è puramente illusorio: viste come si sono messe le cose, appena le truppe Usa se ne andranno saranno probabilmente gli sciiti a prevalere; ci sarà, insomma, un nuovo scontro tra le varie componenti, ci saranno nuovi morti ma almeno serviranno a qualcosa, a trovare un assetto, mentre le vittime di questi anni sono state del tutto inutili. È grottesco pensare alla democrazia in Iraq, come in altri Paesi del genere. Se vinceranno gli sciiti si andrà piuttosto verso una teocrazia».
Ritieni che la democrazia sia improponibile in quelle zone per ragioni storiche, o in quanto aliena, ad esempio, alla cultura islamica?
«Ci sono insieme ragioni storiche e culturali. Questi popoli non hanno vissuto quello che è accaduto in Occidente, non hanno una passato di pensatori alla Stuart Mill o alla Locke, semmai una tradizione di clan. Intendiamoci: se guardiamo cosa ha fatto nella storia il cosiddetto Occidente, proprio non possiamo dare lezioni di moralità a nessuno. Fatto sta che loro hanno un’altra storia, della quale la democrazia non fa parte. È come se ci imponessero la teocrazia, che può anche essere un’ottima cosa e secondo me in Iran funziona piuttosto bene: ma non fa parte di noi (non fa più parte: l’abbiamo avuta nei secoli passati, per quanto in forme diverse) e la rifiuteremmo».
Ma è l’islam in sé il maggiore ostacolo che rende la democrazia impossibile in quei Paesi?
«È un problema che non dovremmo porci, dobbiamo avere una sola preoccupazione: che il mondo musulmano non debordi dai suoi confini storici. Ora siamo lì a dir loro cosa fare, come essere, come devono vestire le loro donne, quali possono essere le loro istituzioni, i loro usi, i loro costumi, le loro leggi. Tra un poco imporremo loro persino i Pacs, ma ti sembra accettabile?! È una violenza ideologica che il mondo islamico non tollera; eccita la loro reazione più ancora delle bombe, infatti non si sono mai visti tanti fondamentalismi come in questo periodo. Come spiegarli? Sono solo fenomeni interni? Io non credo».
In effetti pare stia degenerando pure la situazione di Kabul, che pure pareva più tranquilla. Qualche giorno fa c’è stata una vera rivolta contro i soldati americani.
«È ovvio. A parte il fatto che l’Occidente riesce sempre a schierarsi al fianco dei governi più corrotti del mondo, come quello del signor Karzai...».
...nel quale, deduco, non nutri molta fiducia...
«È una sorta di Quisling afghano (Quisling fu quel politico filo-hitleriano che favorì l’invasione della sua Norvegia e guidò poi il governo collaborazionista, ndr); eppure quando venne messo al potere, la reazione occidentale fu: “Ah, ma che uomo elegante!”. Ora, lasciamo pure perdere questi particolari e diciamo che la situazione afghana è ancora più pesante di quella irachena. L’Afghanistan è oggi in gran parte in mano ai talebani; prima gli Usa controllavano Kabul, ora sono insicuri pure lì, perché è bastato un incidente stradale per scatenare la folla. Uno si chiede: perché? La ragione è la più elementare del mondo: un popolo come quello afghano, fiero, guerriero, che ha combattuto per dieci anni contro l’Unione Sovietica per non avere stranieri tra le scatole, non sopporta la presenza degli americani. C’è meno spargimento di sangue per la sola ragione che già controllano praticamente tutto, sono a cinquanta chilometri dalla capitale... Gli afghani non sono stupidi: se spieghi loro che sei ancora lì dopo anni per cercare Bin Laden, ovvio che ti sparano addosso, dato che hanno una certa consuetudine col kalashnikov».
Lo scenario che descrivi è assolutamente fallimentare. Ma per uscirne ora, minimizzando i danni, l’unico modo è davvero quello di ritirarsi, scappare a gambe levate?
«L’unico modo è andarsene, stipulando un accordo ragionevole con l’Iran e lasciando che l’Iraq si divida in tre: la parte sciita si unirebbe a Teheran, poi ci sarebbero un’entità sunnita e una curda. È quest’ultimo il problema più spinoso: gli americani non possono tollerare l’indipendenza dei curdi iracheni, questo scatenerebbe quelli turchi che sono dieci milioni e vengono tenuti in condizioni penose. La Turchia è il maggior alleato americano nella regione, molto più importante dell’Europa. Ma non c’è altro da fare: ogni regione geo-politica si ristrutturi, poi vi sia un patto con un Iran forte, perché è più facile dialogare con questo che fronteggiare mille schegge di un terrorismo impazzito, o dialogare con dittatorelli alla Saddam, o inventarsi governi fantoccio che reggono solo finché vi sono 200mila soldati armati a sostenerli».
Queste prospettive rappresenterebbero una catastrofe politica per l’amministrazione Usa, per George Bush...
«Certo. Ma le guerre hanno questo di bello: fanno chiarezza, chi perde viene fatto fuori, almeno politicamente. Gli Usa han fatto un clamoroso errore di valutazione, erano convinti di vincere facilmente, hanno dichiarato la guerra finita nel 2003 e invece c’è ancora oggi e anzi diventa sempre più aspra... Ecco: in passato qualcuno è stato appeso a piazzale Loreto, che Bush almeno si ritiri nel suo ranch texano!».
Ultima cosa: al di là di ogni altra considerazione, su temi così delicati il nuovo governo italiano è diviso e incerto. Che ne pensi?
«C’è un equivoco di fondo all’interno della sinistra: essere contrari a questa guerra non significa essere di per sé pacifisti ottusi, come non pochi da quelle parti. Invece c’è una parte del Paese che non è “arcobalenista”, ma semplicemente contraria a un conflitto che ha aggravato i problemi».