Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Crisopoli e i Tartari

Crisopoli e i Tartari

di Giuseppe Giaccio - 13/05/2011

http://www.agoramagazine.it/agora/local/cache-vignettes/L400xH400/fortezza-18735.jpg

Lo spazio politico moderno può essere colto prendendo come bussola l’undicesima tesi marxiana su Feuerbach: i filosofi hanno finora interpretato il mondo, adesso si tratta di trasformarlo. Potremmo assumere anche altri punti di vista, proporre modelli, paradigmi e schemi interpretativi più sofisticati e complessi (ciò, del resto, è stato già fatto nella vasta pubblicistica sull’argomento), ma ci pare che la sintetica formula di Marx colga l’essenziale e fotografi bene la dinamica che anima la modernità, la sua auto-comprensione, che poi si ripercuote anche in ambito politico.
A partire dalla modernità, fare politica significa ingaggiare una gara, intra e inter-statale, il cui teatro, inizialmente limitato alla sola Europa e alle unità politiche moderne che andavano a poco a poco configurandosi, si è progressivamente esteso all’intero pianeta e la cui posta è il dominio, la completa manipolazione della realtà da parte di un uomo che si concepisce come soggetto, sostanza autosufficiente che non deve nulla al mondo che lo circonda e rispetto al quale rivendica la sua piena emancipazione. Compito della politica è allora predisporre le necessarie “cornici” istituzionali, sociali ed economiche in grado di favorire questo “progresso” che si ritiene destinato a investire, con i suoi presunti benefici effetti, tutta l’umanità.   
In questo contesto, la destra raccoglie, in un primo momento, i residui del Medioevo, i contemplatori, quelli che il mondo preferiscono vederlo e interpretarlo, piuttosto che mutarlo. Nel linguaggio politico corrente, costoro sono definiti reazionari o conservatori in quanto, da un lato, si oppongono a questo moto progressivo e liberatorio, destinato, almeno nelle intenzioni e nella retorica dei suoi sostenitori, ad affrancare il genere umano dai mali che da sempre lo affliggono (la miseria, la superstizione, la guerra) e, dall’altro, si battono affinché gli uomini restino sotto la tutela di qualche forma di “paternalismo” eteronomico.
La sinistra incarna, invece, la forza rivoluzionaria, quella che fornisce il propellente che farà marciare l’umanità verso i “domani che cantano”. Sulla linea destra/sinistra, è perciò il segmento di sinistra ad assolvere la funzione di vettore, a indicare la direzione da seguire per essere in sintonia con lo Zeitgeist, opporsi al quale sarebbe, del resto, solo una perdita di tempo. La lotta politica, pertanto, è una corsa ad occupare tale posizione, a presentarsi come i più accreditati interpreti di una razionalità illuminata o dello sviluppo storico e a non farsi sospingere verso il segmento di destra, sotto pena di essere bollati come parrucconi e retrogradi. La borghesia esordisce sulla scena storica come forza di sinistra e per questo viene ampiamente lodata da Marx ed Engels, i quali erano però convinti che l’evoluzione storica l’avrebbe confinata a destra e che il ruolo di traghettatori dell’umanità dalla preistoria a una storia finalmente e pienamente umana sarebbe stato assolto dal proletariato, unico soggetto in grado di gestire correttamente la prodigiosa ricchezza generata dalle forze produttive e dai rapporti di produzione messi in moto dalla borghesia, incanalandola verso l’esito finale, il comunismo: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Questo progetto è fallito, travolto dalla fine dei socialismi reali nell’Europa dell’Est e nella ex Unione Sovietica – fine  simboleggiata dal crollo del Muro di Berlino – e dalla liquidazione del maoismo in Cina, cosicché la borghesia ha potuto di nuovo accreditarsi, con il concorso di molti che un tempo la contestavano, come forza progressista e di sinistra, mentre a sembrare passatisti, a sapere di muffa, sono quelli che un tempo si atteggiavano a progressisti (ciò che ne rimane), i quali vanno a raggiungere, dato che gli estremi si toccano, i conservatori e i reazionari “doc” (anche in questo caso, ciò che ne rimane). Il riposizionamento sull’asse destra-sinistra è, a questo punto, tutto interno al campo borghese e alla sua ideologia di riferimento, il liberalismo, dove la destra è rappresentata, per dirla con Jean-Claude Michéa, da coloro che accettano le premesse filosofiche, economiche e politiche dell’ideologia liberale (antropologia individualistica, abolizione di lacci e laccioli che ostacolano la libera intrapresa, smantellamento dello Stato sociale, sostituito dalla carità privata), ma ne considerano con preoccupazione le conseguenze sul piano del costume e dell’ordine pubblico e la sinistra da quanti, pur muovendosi su un terreno liberale, si mostrano più attenti alla dimensione istituzionale e quindi alla necessità di trovare un collante in grado di tenere insieme una collettività che altrimenti rischierebbe di esplodere in una serie di egoismi conflittuali, in una “estensione del dominio della lotta” (Houellebecq). In questo quadro, il centro non solo non scompare, ma, come scrisse circa una trentina di anni fa Massimo Cacciari, svolge un ruolo “assiale” e “medico”, nel senso che ciascuna delle parti in campo, per poter prevalere, sia nei confronti degli avversari interni, sia nei confronti di quelli esterni, deve presentarsi come stabile, solido punto di riferimento, “asse” che non vacilla, e come partito capace di mediare e “medicare” le ferite inferte alla comunità, guarendola dai suoi mali e mettendola così in grado di continuare la marcia progressista. Si può, quindi, secondo il filosofo veneziano, parlare addirittura di una “prepotenza del centro”.
Questo sommario abbozzo sembrerebbe smentire, a prima vista, le analisi di quanti, a cominciare dalla cosiddetta Nuova destra, hanno teorizzato l’obsolescenza della destra e della sinistra e la necessità di andare oltre queste categorie. Soltanto a prima vista, però, cioè alla vista di chi, fermandosi alla superficie delle cose, nota che ci si continua a schierare sulla base del solito, sperimentato spartiacque e ne deduce frettolosamente che non c’è niente di nuovo sotto il sole. Ma la situazione è più complicata. Ci troviamo in una fase di interregno. Il nuovo non è ancora sorto, anche se cominciamo a intravederne i contorni, il vecchio non è ancora definitivamente tramontato. Siamo, noi occidentali, come i soldati della Fortezza Bastiani che attendono l’arrivo dei Tartari, i quali, però, non arrivano mai, sicché un po’ tutti finiscono col convincersi che si tratta solo di fanfaluche, di favole per bambini. La vita della guarnigione riprende con i suoi soliti, rassicuranti ritmi, le liturgie di sempre, la cui funzione è quella di confermare l’ordine esistente, dandogli una parvenza di naturalità e ineluttabilità, di instillare l’idea che il fiume della civiltà occidentale continuerà a scorrere nel suo letto, fornendo l’acqua destinata ad irrigare, facendoli fiorire e fruttificare, i campi che incontra lungo il suo corso. Il gioco è a somma positiva. Tutti ci guadagnano, nessuno ci perde. E tutti vivranno felici e contenti. È la fine della storia. There is no alternative, la prospettiva occidentale è insuperabile. A questa favola, l’Occidente crede sul serio e dispiega le sue migliori energie per diffonderla e convertire ad essa i recalcitranti, non esitando a ricorrere all’uso della forza e delle bombe “umanitarie”. Sappiamo, però, che alla fine i Tartari sono arrivati davvero e hanno preso d’assalto la Fortezza. Fuor di metafora, non ci siamo mai sognati di pensare che il sistema lineare-assiale non funzionasse più e che per questo si dovesse metterlo in soffitta. Al contrario, funziona benissimo, così come funziona la “megamacchina” dello sviluppo e del progresso di cui esso è l’espressione politica. Solo che il suo funzionamento ricorda molto da vicino quello di Crisopoli, la Città d’Oro, “caput mundi al negativo”, descritta da Guido Morselli in Dissipatio H.G., dove, in apparenza, la vita si svolge secondo i consueti ritmi: le insegne al neon luccicano di colori sfavillanti, le luci nei palazzi sono accese, le fontane delle pubbliche piazze zampillano, le campane delle chiese rintoccano, i semafori lampeggiano, ma questa apparente normalità ha in sé qualcosa di mostruoso e insensato, perché dalle case, dagli uffici e dalle strade l’umanità è scomparsa, si è volatilizzata. Analogamente, la megamacchina occidentale seguita a fare il suo mestiere, comunicando una sensazione di normalità, di tranquillizzante déjà vu: al livello economico, produce PIL che deve obbligatoriamente crescere, pena il crollo del sistema. Ogni tanto, ciclicamente, il motore si ingolfa, ma basta ripararlo per ripartire come prima, meglio di prima. È successo, l’ultima volta, un paio di anni fa, ma, così ci (r)assicurano i media, ne verremo fuori, come abbiamo sempre fatto, forse grazie, stavolta, alla Cina, all’India e al Brasile e alle loro economie che sostengono la crescita. Al livello sociale, finita l’epoca dello Stato assistenziale, alle diseconomie e alla recessione si risponde ricorrendo “ai samaritanismi ipocriti”, come li definisce ancora Morselli, “della nostra società, che offre una mano a coloro che lei, proprio lei, butta nel fosso”. Sul piano politico, destra e sinistra si presentano, ogni quattro o cinque anni, davanti ai cittadini/elettori/consumatori (con quest’ultimo aspetto che tende a diventare prevalente) come i più accreditati gestori e garanti di questo quadro, offrendo formule di convivenza variamente appetibili e accuratamente studiate dagli uffici del marketing politico per sedurre i clienti/votanti. Questo meccanismo, ben oliato, continua a funzionare quasi in automatico, ma il problema è che, come succede a Crisopoli, esso produce una volatilizzazione dell’umanità nel senso che sta svanendo, in Occidente, il paesaggio umano che abbiamo conosciuto dalla fine del secondo conflitto mondiale, frutto del cosiddetto compromesso fordista fra le organizzazioni dei lavoratori e il capitale. La rottura dell’equilibrio a favore del capitale ha prodotto lo sfruttamento e la precarizzazione delle vite di milioni di persone, che reagiscono a questa situazione tentando di sottrarsi, in modi spesso contradditori e tortuosi, a questa morsa (la qual cosa non esclude, peraltro, che Crisopoli possa continuare ad esercitare la sua malia sulle persone: non si fanno i conti, in quattro e quattr’otto, con secoli di storia). L’ascesa dei populismi e delle formazioni xenofobe, che ormai sono una componente normale del panorama politico del terzo millennio, l’aumento del non voto, la contestazione sistematica di tutto ciò – partiti, istituzioni, sindacati, chiese – che sa di ufficiale, i flussi migratori, lo sfaldamento del tessuto sociale, il senso di insicurezza che si respira nei centri urbani, sono segnali eloquenti della fine di un’epoca, almeno per coloro che non vogliono nascondere la testa sotto la sabbia. Sta inoltre svanendo – si sta “liquefacendo”, per usare un termine caro a Bauman – anche il paesaggio naturale, sotto i colpi di uno sviluppo che la natura non riesce più a sostenere: già adesso, l’impatto delle attività umane sull’ambiente – la cosiddetta impronta ecologica – è tale da non consentire alla biosfera di riprodursi. Stiamo segando il ramo su cui siamo appollaiati. Queste criticità non sono ignote all’establishment, il quale, però, risponde usando l’unico linguaggio che conosce, quello del progresso, dello sviluppo, della crescita, cioè il linguaggio che ha prodotto la crisi e che quindi non la risolverà. Linguaggio di cui la destra e la sinistra sono la cristallizzazione politica. La messa in discussione del sistema lineare-assiale della politica ad opera della ex Nuova destra voleva dire, tra le altre cose, che questo balletto non poteva più continuare a lungo, che si stava avvicinando il momento del redde rationem, della catastrofe intesa nel senso letterale di svolta radicale, di passaggio da una condizione ad un’altra – senso che può coincidere anche, ma non necessariamente, con quello corrente della parola. E che bisognava attrezzarsi per il dopo, situandosi su un terreno seminale, germinativo. Occorrono scelte forti che la Nuova destra individuava nella formula delle nuove sintesi e nella scelta metapolitica. Dalla politica, infatti, non ci si può attendere niente di buono. L’iter politico di un Massimo Cacciari appare, in questo senso, esemplare, essendo una chiara illustrazione dei vicoli ciechi nei quali va prima o poi a infilarsi chi, pur criticandone acutamente le dinamiche, continua a muoversi, sia pure da outsider e da guastafeste, all’interno dello spazio politico tradizionale. La sua ricerca di un Grande Opportunismo è andata regolarmente a sbattere contro l’opportunismo “idiota” della politica politicante, il che lo ha infine indotto a distaccarsi da un mondo refrattario – et pour cause – a certi discorsi.
 Il sistema, come lo si definiva una volta, continuerà dunque a funzionare così, imperturbabile, fino all’ultimo momento, con qualche aggiustamento di facciata, per la semplice ragione che non sa fare altro. Continueremo, perciò, a dividerci tra chi vuole un po’ più di libera iniziativa (la destra liberale) e chi, pur genuflettendosi davanti alla libertà individuale, vuole un po’ più di regole (la sinistra liberale), il tutto condito da contaminazioni e incroci la cui funzione è quella di depistare, di dare l’impressione di voler cambiare, mentre in realtà si vuole solo confermare l’esistente, gestendo e incanalando su binari innocui persino la contestazione. Poi, un giorno, come sbucati dal nulla, arriveranno i Tartari.