Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Internet ci rende stupidi?

Internet ci rende stupidi?

di Michele Maggino - 18/05/2011



multitaskguernicaIl cervello del giocoliere: ovvero, perché forse non riuscirete a leggere tutto questo articolo (senza interruzioni e distrazioni)

.

Questo articolo viene pubblicato su un sito Internet; forse qualcuno (se lo riterrà interessante) lo segnalerà con un link ad altre persone usando la posta elettronica; potrà essere copiato e modificato digitalmente, stampato a proprio piacere... Ah, che meraviglia la tecnica, quali splendide opportunità ci offrono le tecnologie elettroniche ed informatiche!

Eppure, c'è qualcosa che non mi convince nei mezzi che sto usando (computer, Internet).

Credo che sia di vitale importanza, per la nostra sopravvivenza come esseri umani, tenere sempre sveglia e attiva l'arte del dubbio, dello svelamento, dello smascheramento (in questo, mi piace seguire l'invito di Nietzsche). E allora il mio non sarà un intervento che “sputa nel piatto in cui mangia”, per dirla con un'espressione molto diretta e come potrebbe banalmente obiettare subito qualcuno. Cerco di andare all'essenza delle cose e di esercitare le capacità di disvelamento e smascheramento di cui sopra.

Dunque: nel giro di qualche giorno mi è capitato di leggere alcuni testi, avere alcune conversazioni, imbattermi in alcune argomentazioni che hanno avuto come temi centrali Internet, il cervello, la scuola. Tanto per cominciare, leggo all'interno dell'inserto «Nòva» del periodico «Il Sole 24 Ore» (21-04-2011) due articoli sulle “strategie educative”: le nuove “frontiere dell'agenda didattica”. “Nell'epoca della conoscenza anche il sistema dell'istruzione ha bisogno di priorità” (come recita il titolo).

Essendo io un insegnante, la cosa subito mi attira. E allora leggo che la “competenza digitale è la quarta delle otto competenze chiave che il Parlamento e il Consiglio europeo hanno formalizzato nelle Raccomandazioni agli Stati membri della UE il 18 dicembre 2006. Su questa competenza fondamentale per un efficace life long learning e, soprattutto, per il vissuto di una cittadinanza attiva e democratica, Parlamento e Consiglio europeo tornano con un'altra Raccomandazione il 20 agosto 2009, entro l'ambito della Strategia di Lisbona, che il nostro Parlamento, nella seduta comune del 31 luglio 2008, ha approvato all'unanimità: l'alfabetizzazione digitale. Con il termine digitale (in informatica) si identifica oggi una nuova generazione di ragazze e ragazzi, i nativi digitali. […] Sono le nuove, nuovissime generazioni, che vivono in famiglie che, per quasi l'80%, posseggono un pc con connessione a banda larga per il 41% e per oltre il 60% hanno accesso a Internet. Che cosa è successo in questa nuova generazione? Si è aggiunta, a quelle di Gardner, una nuova intelligenza, l'intelligenza digitale nata dalle sinapsi neuronali sviluppatesi grazie al modo nuovo di comunicare e ricevere comunicazioni da parte di queste ragazze e ragazzi che […] studiano mentre ascoltano musica, e nello stesso tempo si mantengono in contatto con il gruppo di pari attraverso Msm Messenger, mentre il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole”.

Accidenti (mi dico)!! Siamo in presenza addirittura di una nuova forma di intelligenza (chissà che cosa ne penserebbe Howard Gardner di tutto ciò). Poi ci sono di mezzo le strategie di Lisbona, il life long learning ecc... L'autore di quell'articolo (Francesco Butturini, preside di un liceo classico di Verona) conclude che “deve cambiare l'ambiente scolastico: l'aula non potrà più essere quella che un ipotetico viaggiatore del tempo riconoscerebbe senza difficoltà. La tecnologia trasformerà le nostre aule scolastiche”. Non posso fare a meno di ricordare quante volte ho sentito e letto quest'ultima frase negli ultimi 30 anni! A partire dalle rivoluzioni che avrebbero portato le tecnologie audiovisive (l'idea degli anni '70 delle televisioni a circuito chiuso al posto degli insegnanti, qualcuno se la ricorda?), o il cambiamento epocale che avrebbero portato i primi personal computer degli anni '80, o gli ipertesti degli anni '90 su cui avremmo dovuto impostare il nostro lavoro (sugli ipertesti tornerò più avanti)... Ma ora, mi si dice, la faccenda è diversa, la cosa è grossa: c'è Internet, c'è la LIM (Lavagna Interattiva Multimediale), c'è una nuova forma di intelligenza, c'è un'intera generazione di bambini che si sta modificando antropologicamente! Dunque ci viene detto che, se vuole parlare ai nativi digitali, la didattica deve comunicare in forme nuove: “la didattica che non parla i linguaggi dei nativi digitali è in crisi. Da riformare. Lo dice l'Europa, con la nuova strategia di Lisbona” (afferma l'autore dell'altro articolo del «Il Sole 24 Ore», Antonio C. Larizza). Beh, se lo dice l'Europa...

Infine, cominciano però a rizzarmi i capelli quando leggo che “su questa corrente di innovazioni si sta muovendo il ministero dell'istruzione mettendo in atto quanto previsto dall'art. 15 della Legge Finanziaria 2009 per quanto riguarda la dotazione nelle scuole di lavagne interattive multimediali. È un inizio di un'operazione lunga e complessa, che si affianca alla direttiva ministeriale per la quale a partire dal 2013 i libri di testo saranno solo digitali”. Accidenti (di nuovo)! Dal 2013 i libri di testo saranno solo digitali! Mi viene subito da chiedere: ma dove vivono i dirigenti del ministero dell'istruzione? In quali dimensioni spazio-temporali a noi sconosciute?

Ma, un momento; mi fermo e mi viene subito da fare una piccola riflessione (banale, molto … terra terra): come mai si trovano i soldi per queste operazioni tecnologiche sulle scuole quando, dall'altra, si attua una politica scolastica di tagli che ormai possiamo definire “brutale”? (Certamente anche quest'ultima è comunque “un'operazione lunga e complessa”...).

C'è qualcosa che non quadra in tutto ciò. Certo, se le indicazioni ci vengono dall'Europa, dalla strategia di Lisbona, dobbiamo prenderle in seria considerazione. Ancora di più se poi andiamo a leggere un'altra interessante notizia che questa volta ci viene dagli Stati Uniti d'America; in questo caso il protagonista è un altro fervente sostenitore del processo di rinnovamento della didattica attraverso le tecnologie informatiche: Bill Gates (che strano..). Il quale, ha pensato bene di donare (attraverso la sua Fondazione) 20 milioni di dollari per questa giusta causa: una scuola più divertente!! Bill Gates viene così in aiuto a tutte quelle persone (pedagogisti, insegnanti e genitori) per i quali il problema di base nell'annoso dibattito sulla riforma della scuola, è dato dalla scarsa “attrazione” che la scuola eserciterebbe nei confronti delle giovani generazioni (gli attuali “nativi digitali”) e per i quali occorrerebbe intervenire per rendere la scuola più piacevole, più attraente, più divertente.

Tranquilli, ci pensa Bill Gates: ha la soluzione giusta.

L'obiettivo è quello di migliorare gli strumenti educativi a disposizione di tutti i giovani studenti. Circa 5 di questi milioni andranno ai vertici di Institute of Play e Quest Atlantis, società specializzate nello sviluppo di piattaforme videoludiche per l'insegnamento delle varie materie. “I milioni assicurati da Gates serviranno per l'introduzione di videogame a scopo educativo, così come piattaforme in stile social network per compattare classi ed insegnanti”. Ho letto giusto? Videogame a scopi educativi? Piattaforme in stile social network?

Ecco, raggiunta questa … vetta, le mie pur deboli capacità di smascheramento cominciano ad attivarsi; arrivati a questo punto, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a mettere un po' d'ordine in questo guazzabuglio. Per fortuna mi viene in soccorso Nicholas Carr, autore di un libro che per l'appunto ho appena finito di leggere e che consiglio vivamente (purtroppo la casa editrice non mi concederà nessuna commissione sull'aumento delle vendite del libro, se ci sarà, dopo questa mia segnalazione). Il titolo del libro (da cui ho rubato il titolo del presente articolo e che saccheggerò a piene mani nelle prossime pagine) è: Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello(Raffaello Cortina Editore, 2011). Carr non è certo un ignorante in materia; di più: è un assiduo e forsennato utilizzatore di Internet. Non è un luddista anti-tecnologico o il fautore di un “ritorno ai bei tempi antichi”; non è un apocalittico profeta di sventure ma nemmeno un entusiasta adepto del cyber-spazio. Insomma è l'autore giusto per aiutarci a “smascherare” Internet (così come lo è un altro scritto e un altro autore che consiglio: Clifford Stoll Confessioni di un eretico high-tech Garzanti, 2001).

E qui, finalmente, leggo qualche analisi sensata e chiarificatrice che voglio riproporre. La forza delle argomentazioni di Carr è data anche dal fatto di basare e supportare le proprie analisi e conclusioni su una vasta e recente letteratura scientifica di ricerche nell'ambito delle neuroscienze. Seguiamolo dunque passo passo.

 

La falsa neutralità

Intanto occorre sgomberare subito il campo dalla classica idea della neutralità tecnologica, secondo cui i prodotti della scienza e della tecnica moderna non sono in quanto tali buoni o cattivi: è il modo in cui vengono usati che determina il loro valore. Questa argomentazione era già stata smontata e smascherata da Marshall McLuhan: ogni nuovo medium in realtà ci cambia. “'La nostra reazione convenzionale a tutti i media, secondo la quale ciò che conta è il modo in cui vengono usati', scriveva, 'è l'opaca posizione dell'idiota tecnologico'. Il contenuto di un medium è 'paragonabile a un succoso pezzo di carne con il quale un ladro cerchi di distrarre il cane da guardia dello spirito'”. E quale succoso “pezzo di carne” ci troviamo di fronte oggi: Internet con le sue meraviglie!

Carr ci porta quindi a conoscere le ultime scoperte sul funzionamento del cervello (idee nuove ma anche rafforzamento di idee antiche). Continuiamo a seguirlo.

 

Cervello: neuroplasticità e tecnologie della mente

Prima di tutto occorre considerare l'idea di neuroplasticità, ovvero l'abbandono dell'idea del cervello adulto come apparato fisico immutabile (idea tipica dell'era industriale che rappresentava il cervello come un congegno meccanico), per abbracciare una concezione del cervello come una realtà in continuo mutamento e adattamento a variazioni anche minime nelle nostre condizioni di vita e nel nostro comportamento. I nostri cervelli cambiano di continuo in risposta alle nostre esperienze e al comportamento, rimodellando i propri circuiti con ogni genere di stimolo sensoriale, atto motorio, associazione mentale, ricompensa ecc... “La neuroplasticità […] è uno dei più importanti risultati dell'evoluzione, una caratteristica che consente al sistema nervoso di 'sottrarsi alle limitazioni del proprio genoma e di adattarsi così alle situazioni ambientali, ai cambiamenti fisiologici e alle esperienze'. La vera genialità nella costituzione del nostro cervello non è il fatto di contenere molti circuiti cablati ma il fatto di non averne. La selezione naturale […] 'non ha progettato un cervello che consiste di molti adattamenti predeterminati', bensì un cervello capace ' di adattarsi alle richieste ambientali nel corso di tutta l'esistenza di un individuo, e a volte nel giro di pochi giorni, formando strutture specializzate per far fronte a queste richieste'. L'evoluzione ci ha dato un cervello che può letteralmente cambiare idea di continuo”. Il nostro modo di pensare, di percepire e di comportarci - ora lo sappiamo – non è determinato totalmente dai geni. Ma non è nemmeno del tutto determinato dalle nostre esperienze infantili. Noi cambiamo attraverso il modo in cui viviamo e, come Nietzsche aveva intuito, attraverso gli strumenti che utilizziamo”.

Ecco: questo è un passaggio importante: l'influenza della tecnologia sul cervello è profonda. Carr prende come esempi di strumenti e tecnologie in senso ampio che hanno influito fortemente sulla mente delle persone le mappe geografiche, gli orologi meccanici, la scrittura e la lettura silenziosa (ovvero il libro). Consideriamo in particolare queste ultime due: leggere in silenzio un libro richiede la capacità di concentrarsi intensamente per un lungo periodo di tempo; non è facile sviluppare una tale disciplina mentale. In effetti la condizione normale del cervello (dal punto di vista evolutivo) è quella della distrazione. Leggere un libro significa quindi, in un certo senso, praticare una modalità di pensiero innaturale che richiede di prestare un'attenzione intensa e ininterrotta ad un oggetto statico. La scrittura e la lettura liberano l'attenzione delle persone dal flusso esterno degli stimoli fuggevoli per concentrarsi più profondamente su un flusso interno di parole, idee, emozioni.

Negli ultimi tempi si sta sempre più diffondendo un altro “strumento della mente”: Internet. Quali sono le sue caratteristiche e quali i suoi effetti?

La tesi principale di Carr in parole semplici è questa: ogni volta che accendiamo il computer, ci tuffiamo in un “ecosistema di tecnologie dell'interruzione e della distrazione”. Se, da una parte, interattività, collegamenti ipertestuali, ricercabilità, multimedialità ecc. portano notevoli benefici, essi alla lunga portano a conseguenze profonde sulle nostre abilità mentali. Ormai diversi studi di psicologi, neurobiologi, educatori e progettisti Web (che Carr segnala) arrivano alla stessa conclusione: quando andiamo online entriamo in un ambiente che favorisce la lettura rapida, il pensiero distratto e affrettato, l'apprendimento superficiale. Se, “sapendo quello che sappiamo oggi riguardo alla neuroplasticità del cervello, ci dovessimo proporre di inventare un medium in grado di riconfigurare i nostri circuiti mentali il più rapidamente e completamente possibile, con ogni probabilità finiremmo per progettare qualcosa che assomiglia moltissimo a Internet. La Rete può a buon diritto essere considerata la più potente tecnologia di alterazione della mente mai diventata di uso comune, con la sola eccezione dell'alfabeto e dei sistemi numerici; perlomeno, è la più potente arrivata dopo il libro”.

La Rete coinvolge quasi tutti i nostri sensi (tranne, per ora, odorato e gusto) simultaneamente ed è anche un sistema veloce per fornire risposte e ricompense (i famosi “rinforzi positivi”) che incoraggiano la ripetizione di azioni fisiche e mentali . Date le sue caratteristiche (che implicano un suo uso anche in un contesto sociale, v. i cosiddetti social network molto usati), è chiaro che la Rete attrae e coinvolge moltissimo i giovani. Tuttavia l'uso di Internet cattura la loro attenzione soltanto per disperderla.

Ovunque e in qualsiasi momento la Rete ci confonde con un variegato e allettante carosello di offerte. “La costante distrazione che la Rete incoraggia […] è molto diversa dal tipo di digressione temporanea, intenzionale della nostra mente che ravviva il pensiero quando stiamo valutando una decisione. La cacofonia di stimoli di Internet, invece, manda in cortocircuito sia il pensiero cosciente sia quello inconscio, impedendoci di approfondire o di essere creativi”. Insomma, l'uso intensivo di Internet e degli strumenti online ha conseguenze neurologiche significative: “Se il tempo trascorso sul Web rimpiazza completamente quello che passiamo a leggere libri, se ci dedichiamo molto di più a scambiarci bocconcini di messaggi invece di comporre frasi e paragrafi, e a saltare da un link all'altro anziché fermarci per una pausa di calma riflessione e contemplazione, i circuiti che presiedono a quelle vecchie funzioni e occupazioni intellettuali si indeboliscono e cominciano a cadere in pezzi. Il cervello ricicla le sinapsi e i neuroni inutilizzati per altri impieghi più urgenti. Guadagniamo nuove capacità e prospettive sul mondo, ma perdiamo quelle vecchie. […] L'uso quotidiano di computer, smartphone, motori di ricerca e altri strumenti simili 'stimola un'alterazione delle cellule cerebrali e un rilascio di neurotrasmettitori che gradualmente rafforzano nuovi tracciati neurali nel nostro cervello, mentre indeboliscono i vecchi”.

 

La lettura

Prendiamo ad esempio la lettura di testi e la differenza che c'è tra leggere libri e leggere pagine Web. I ricercatori hanno scoperto che, quando si fanno ricerche e letture su Internet, le persone mostrano una configurazione di attività cerebrale molto diversa rispetto a quando si legge un testo lungo o un libro. “I lettori di libri mostrano una grande attività nelle regioni [del cervello] che presiedono al linguaggio, alla memoria e all'elaborazione di stimoli visivi, ma non ne manifestano altrettanta nelle regioni prefrontali associate alla decisione e alla risoluzione di problemi, che invece si attivano negli utenti esperti della Rete quando scorrono testi e fanno ricerche nelle pagine Web. […] Il Web ci riporta, nel vero senso della parola, al tempo della scriptura continua, quando la lettura era un atto cognitivamente arduo. Nella lettura online […] sacrifichiamo la funzionalità che rende possibile la lettura approfondita. Torniamo ad essere 'meri decodificatori di informazione'. […] È proprio il fatto che la lettura di libri 'sottostimola i sensi' a renderla così intellettualmente gratificante. Consentendoci di filtrare le distrazioni e di mettere a riposo le funzioni di risoluzione dei problemi dei lobi frontali, la lettura approfondita diventa una forma di pensiero approfondito. La mente del lettore esperto di libri è una mente pacata, non esagitata. Quando parliamo di attivazione dei neuroni è un errore presumere che di più equivalga a meglio”.

Ipertesti, multimedialità e multitasking

Altro esempio da prendere in considerazione: gli ipertesti. Presi dall'entusiasmo dei nuovi mezzi informatici, negli anni '80 e '90 del secolo scorso molti esperti e insegnanti sostenevano che l'ipertesto avrebbe rafforzato il pensiero critico degli studenti; si diceva inoltre che gli ipertesti avrebbero dato la possibilità di sperimentare punti di vista diversi arricchendo le acquisizioni. Insomma, una volta liberati dai percorsi di lettura obbligati richiesti dalle pagine dei libri stampati, i lettori avrebbero creato nuove connessioni intellettuali tra i vari testi. A questo entusiasmo accademico si aggiungeva la convinzione (postmoderna...) che gli ipertesti avrebbero abbattuto l'autorità patriarcale degli autori offrendo maggior potere al lettore. Molte ricerche neurologiche e psicologiche hanno portato a conclusioni diverse rispetto agli entusiasmi degli inizi per i quali gli ipertesti avrebbero portato ad un'esperienza più ricca del testo. Al contrario, erano molte più le prove del fatto che le maggiori richieste (presenti in un ipertesto) di prendere certe decisioni ed elaborare stimoli visivi, indebolivano il rendimento della lettura; molte caratteristiche degli ipertesti avevano come risultato un aumento del carico cognitivo richiedendo una capacità di memoria di lavoro che eccedeva le possibilità dei lettori. In poche parole: le ricerche hanno mostrato che chi legge testi lineari comprende di più, ricorda e impara meglio rispetto a chi legge testi disseminati di link.

Questa conclusione dovrebbe interessare e far riflettere molto soprattutto gli insegnanti (e in particolare quelli invaghiti delle nuove tecnologie informatiche applicate all'ambito della didattica). Quanti libri di pedagogisti sono stati scritti e mi sono passati tra le mani che magnificavano l'uso degli ipertesti a scuola...

Ora, passando dall'esperienza degli ipertesti degli anni passati a quella del Web, la situazione non cambia (o meglio, potremmo dire, si aggrava...). “Proprio come i pionieri dell'ipertesto un tempo credevano che i link avrebbero offerto una più ricca esperienza di apprendimento, anche molti insegnanti erano convinti che le opere multimediali […] avrebbero migliorato la comprensione dei testi e rafforzato l'apprendimento. Ma questa convinzione, a lungo accettata senza particolari controlli, è stata confutata dalla ricerca. La divisione dell'attenzione richiesta dai prodotti multimediali affatica ulteriormente le nostre facoltà cognitive, riducendo le capacità di apprendimento e indebolendo la comprensione. Quando si tratta di fornire alla mente la materia prima del pensiero, di più può significare di meno”. In sostanza, le tecnologie multimediali tipiche del Web limitano, anziché accrescere, l'acquisizione di informazione.

L'obiezione più usata a questa serie di conclusioni è che (pensando alla scuola) presentare i contenuti in forme diverse non danneggerebbe la comprensione: presentare spiegazioni verbali insieme a testi, immagini, brani video e audio rafforzerebbe l'apprendimento in quanto è vero che il nostro cervello usa diversi canali per elaborare ciò che vediamo e udiamo. Tuttavia Internet, come dire..., non è stata inventata da un gruppo di insegnanti per ottimizzare l'apprendimento. Essa non presenta l'informazione in modo equilibrato ma come un miscuglio che fa a pezzi la concentrazione. Internet in effetti è proprio questo: un sistema di interruzione, una potente macchina di dispersione dell'attenzione. Le frequenti interruzioni disperdono i pensieri, indeboliscono la memoria e ci rendono un po' tesi e ansiosi. “Più è complessa la successione di pensieri in cui siamo impegnati, maggiore è il danno causato dalla distrazione”.

A ciò è collegata la questione delle capacità “multifunzione” o “multitasking” (per qualcuno, questa capacità di operare su molteplici piani e compiti contemporaneamente, rappresenta un punto di forza di Internet per lo sviluppo di facoltà mentali nuove). In realtà, “navigare nel Web richiede una forma di multitasking mentale particolarmente intenso. Oltre a inondare la nostra memoria di lavoro di informazioni, questi esercizi da giocoliere impongono i cosiddetti 'costi di commutazione' ai nostri processi cognitivi. Ogni volta che spostiamo l'attenzione, il cervello si deve orientare di nuovo, mettendo ulteriormente alla prova le nostre risorse mentali. […] Il cervello impiega tempo per cambiare i propri obiettivi, per ricordare le regole necessarie a svolgere il nuovo compito, e bloccare le interferenze cognitive dell'attività precedente ancora molto vivide”. Per di più, si può dire che che l'ambiente digitale incoraggia sì le persone ad affrontare una più ampia gamma di argomenti ma ad un livello più superficiale; i link distraggono dal leggere e dal pensare in modo approfondito.

Certo, da una parte è vero: abbiamo sempre “leggiucchiato i giornali più di quanto li leggessimo, e scorriamo sistematicamente con gli occhi riviste e libri per coglierne l'essenziale e decidere se meritano una lettura più accurata. L'abilità di scremare il testo è importante quanto quella di leggere in profondità. Ma l'aspetto preoccupante è che lo scorrere superficialmente sta diventando la modalità principale di lettura. Una volta era un mezzo per raggiungere uno scopo, un modo per identificare l'informazione meritevole di approfondimento, ora invece sta diventando fine a se stesso, è ormai il nostro sistema preferito per raccogliere le informazioni di ogni tipo e dar loro un senso. […] Quello che stiamo sperimentando è, in senso metaforico, un'inversione di tendenza del percorso iniziale della civiltà: da coltivatori di conoscenza personale ci stiamo evolvendo in cacciatori e raccoglitori nella foresta elettronica dei dati”.

 

E allora? È tutto negativo?

 

Aspetti positivi e negativi

Non proprio. Le ricerche hanno mostrato quali abilità cognitive vengono rafforzate dall'uso dei computer e di Internet; tuttavia si tratta in genere di funzioni mentali di basso livello ovvero semplici, come la coordinazione oculo-manuale, i riflessi involontari e l'elaborazione degli stimoli visivi. Alcuni studi indicano inoltre come il tipo di “ginnastica mentale” cui ci dedichiamo online potrebbe portare ad un'espansione della capacità della memoria di lavoro, aiutandoci a diventare più abili nelle nostre attività di “giocolieri dei dati”: quanto più pratichiamo la navigazione online, l'analisi veloce e il multitasking, tanto più i nostri cervelli plastici sono in grado di svolgere quei compiti e l'importanza di tali abilità non va certo sottovalutata. Quando siamo online “il continuo spostamento dell'attenzione può rendere i nostri cervelli più svelti nel multitasking, ma questo di fatto ostacola la nostra capacità di pensare in modo approfondito e creativo. 'Ottimizzare in funzione del multitasking si traduce in un miglior funzionamento: ovvero creatività, inventiva, produttività? La risposta è, nella maggior parte dei casi, 'no' […]. Più si fa multitasking, meno deliberativi si diventa; meno capaci di pensare e di risolvere un problema'”. Si finisce per essere più inclini a fidarsi di idee e soluzioni convenzionali invece di contestarle con schemi di pensiero originali. Quando facciamo multitasking, insomma, impariamo ad essere abili ma ad un livello superficiale. Come già affermava Seneca: “Essere dovunque è non essere da alcuna parte”.

È vero che l'uso crescente di televisioni, video e Internet ha portato ad un significativo sviluppo delle abilità visivo-spaziali (possiamo, ad esempio, far ruotare gli oggetti mentalmente meglio di quanto si sapesse fare una volta). Ma queste abilità di intelligenza visivo-spaziale si accompagnano ad un indebolimento della predisposizione per l'elaborazione profonda che è alla base dell'acquisizione attenta di conoscenze, dell'analisi induttiva, del pensiero critico, dell'immaginazione e della riflessione. “La Rete ci rende più intelligenti, in altri termini, soltanto se definiamo l'intelligenza con gli standard della Rete stessa. […] Se consideriamo la profondità del pensiero e non soltanto la sua velocità, dobbiamo arrivare a una conclusione diversa e ben più inquietante”.

La cosa è preoccupante: “tenendo presenti le conclusioni sulla plasticità del cervello, “sappiamo che le nostre abitudini online continuano ad avere ripercussioni sul funzionamento delle sinapsi anche quando non siamo connessi. Possiamo quindi presumere che i circuiti utilizzati per la scansione veloce, la scrematura e il multitasking si stiano ampliando e rafforzando, mentre quelli dedicati alla lettura e alla riflessione approfondita - con un'intensa concentrazione – si stiano indebolendo o consumando. […] Le funzioni mentali che stanno perdendo la 'battaglia per la sopravvivenza del più occupato' in corso fra le cellule cerebrali sono quelle che presiedono al pensiero calmo, lineare, quelle che utilizziamo per seguire una lunga narrazione o un'argomentazione complessa, quelle che sollecitiamo quando riflettiamo sulle nostre esperienze o contempliamo un fenomeno esterno o interno. A vincere sono le funzioni che ci aiutano a localizzare velocemente, a classificare e valutare frammenti disparati d'informazione, quelle che ci fanno mantenere salde le nostre traiettorie mentali mentre siamo bombardati dagli stimoli. Queste funzioni sono, non a caso, molto simili a quelle dei computer”.

Memoria e attenzione

Un altro campo nel quale l'influenza dei mezzi informatici e di Internet viene ad incidere pesantemente è quello della memoria. Già in passato c'era chi aveva intuito (Seneca, Erasmo …) che la memoria non è un semplice contenitore, non è un mero strumento di archiviazione dei dati. Essa è il primo passo di un processo di sintesi che conduce ad una comprensione più profonda e personale della realtà. La memoria come “essenza unica” di un individuo. Oggi usiamo i mezzi informatici e la Rete come una sostituzione (e non solo un'integrazione) della memoria personale. Potremmo quasi dire che “memoria biologica” e “memoria artificiale” appaiano spesso indistinguibili. Dice Clive Thompson (della rivista Wired): “Ho praticamente smesso di fare sforzi per ricordarmi qualcosa […] visto che posso trovare istantaneamente l'informazione online”. In effetti siamo tentati dall'affermare che, quando disponiamo di connessioni più o meno continue ad Internet, non è più così pratico usare i nostri cervelli per immagazzinare le informazioni: invece di memorizzare l'informazione, adesso la archiviamo digitalmente e ci limitiamo a ricordare che qualcosa è stato archiviato. Insomma, la memorizzazione sembra sia diventata quasi una “perdita di tempo”.

Se per gli antichi Greci la memoria era una divinità (Mnemosine, madre delle Muse), per Agostino “un santuario, vasto e infinito” e per William James “l'arte del ricordo” era “l'arte del pensiero”, oggi abbiamo perso sia la divinità che l'umanità della memoria: Mnemosine è diventata una macchina... Questo fatto dimostra che forse la metafora del cervello come computer ci ha ormai conquistato. E così per qualcuno se “la memoria biologica funziona come un disco fisso, che archivia i bit di dati entro posizioni prestabilite e li serve poi come input per i calcoli del cervello, scaricare questa incombenza sul Web non è soltanto possibile ma […] persino liberatorio. In questo modo abbiamo a disposizione una memoria molto più capiente, e possiamo sgomberare spazio nel nostro cervello per operazioni assai più significative e 'umane'”.

L'unico problema però di questa concezione della memoria, tipica dell'era di Internet, è che è semplicemente sbagliata. Anche qui Carr ci riporta alle conclusioni più profonde e aggiornate che ci vengono dalle neuroscienze. La memoria è “un processo naturale straordinariamente complesso che, a ogni istante, si adatta mirabilmente all'ambiente particolare in cui vive ognuno di noi, e alla sua specifica combinazione di esperienze. […] Ogni aspetto della memoria umana - il modo in cui si forma, si mantiene, stabilisce connessioni e ricorda - è governato da segnali biologici, chimici, elettrici e genetici altamente variabili e dotati di una quantità di sfumature quasi infinita. C'è una differenza enorme tra i due tipi di memoria: il “processo di creazione della memoria a lungo termine nel cervello umano […] è uno di quei fenomeni incredibili radicalmente diversi rispetto ai 'cervelli artificiali' come quelli dei computer. Mentre un cervello artificiale assorbe le informazioni e le salva immediatamente nella sua memoria, il cervello umano continua a elaborarle a lungo dopo averle acquisite e la qualità di quei ricordi dipende proprio da come l'informazione viene elaborata”. Insomma, in poche parole: la memoria biologica è viva, quella informatica, no. La memoria biologica è contingente, esiste nel tempo e cambia con il cambiare del corpo; essa è in stato di perenne rinnovamento.

Chi pensa sia un'ottima cosa trasferire memoria umana sui supporti informatici confonde inoltre la memoria di lavoro con la memoria a lungo termine; in realtà quando una persona non riesce a consolidare un dato nella memoria a lungo termine, essa non “libera spazio” nel cervello per altre funzioni. “Non riduciamo le nostre capacità mentali quando acquisiamo nuovi ricordi a lungo termine. Anzi, le rafforziamo. A ogni ampliamento della memoria corrisponde un'estensione dell'intelligenza. Il Web fornisce un'integrazione opportuna e interessante per la memoria personale, ma quando cominciamo a usarlo come un sostituto di quest'ultima, tralasciando i processi interiori di consolidamento, rischiamo di privare la mente delle sue ricchezze”.

La chiave per il consolidamento della memoria è data dall'attenzione. Acquisire ricordi e formare connessioni tra di essi, richiede una forte concentrazione mentale, affiancata dalla ripetizione o da un intenso coinvolgimento emotivo o intellettuale. Più forte è l'attenzione, più acuta è la memoria. Ora, l'influsso “dei molteplici e contrastanti messaggi che arrivano dalla Rete non soltanto sovraccarica la nostra memoria di lavoro, ma rende anche molto più difficile per i lobi frontali concentrare l'attenzione su un unico oggetto. Il processo di consolidamento del ricordo non può nemmeno partire. […] Più usiamo il Web, più alleniamo il cervello a essere distratto, a trattare l'informazione in modo rapido e efficiente, ma senza un'intensa attenzione.[...] I nostri cervelli diventano abili a dimenticare, inabili a ricordare”. Entriamo a questo punto in un circolo vizioso: l'uso del Web “rende più difficile fissare i ricordi nella memoria biologica, quindi siamo obbligati ad affidarci sempre più alla capiente memoria artificiale della Rete, anche se questo rende il nostro pensiero più superficiale”.

Carr conclude che il Web è una tecnologia della dimenticanza: “Fra tutte le cose cui rinunciamo quando ci dedichiamo a Internet come medium universale, la più preziosa è probabilmente la ricchezza di connessioni interne alle nostre menti. È vero che il Web stesso è una rete di connessioni, ma i link che associano i bit di dati online non hanno nulla a che vedere con le sinapsi del nostro cervello. […] Le connessioni del Web non sono le nostre e non importa quanto tempo passiamo a cercare e a navigare: non saranno mai le nostre connessioni. Quando affidiamo la nostra memoria a una macchina, le affidiamo anche una parte molto importante del nostro intelletto e persino della nostra identità”.

Le implicazioni generali di queste conclusioni sono molto forti: “La memoria personale modella e conferma la 'memoria collettiva' che è alla base della cultura. I contenuti archiviati nella mente individuale - eventi, fatti, concetti, capacità - sono qualcosa di più della 'rappresentanza di una peculiare personalità' che costituisce il Sé […]. Essi sono anche 'il punto cruciale della trasmissione della cultura'. […] Affidare la memoria a banche dati esterne non minaccia soltanto la profondità e la peculiarità del Sé, ma mette anche in pericolo la profondità e la peculiarità della cultura che tutti noi condividiamo. […] La cultura è di più dell'insieme di quello che Google descrive come l'informazione del mondo. È più di ciò che può essere ridotto a codice binario e caricato in Rete. Per rimanere vitale, la cultura deve essere rinnovata nelle menti dei membri di ogni generazione. Se affidiamo all'esterno la memoria, la cultura avvizzisce”.

 

Conclusioni

Le conclusioni a cui giunge Carr possono apparire pesanti ma forse vale la pena prenderle in considerazione. Le prime conclusioni sono una conferma di alcune idee già espresse da altri autori che hanno studiato le tecnologie per la mente (ovviamente Marshall McLuhan, ma io vi ho ritrovato anche alcune idee del mio caro Neil Postman). Ogni strumento impone delle limitazioni nello stesso modo che apre delle possibilità: più lo usiamo, più ci adeguiamo alle sue forme e funzioni. Inoltre le tecnologie da una parte ci rafforzano, dall'altra ci indeboliscono: i nostri strumenti finiscono per intorpidire qualsiasi parte del corpo essi amplifichino. Inoltre c'è un prezzo che paghiamo per acquisire il potere della tecnologia: l'alienazione. Questo prezzo, nel caso delle tecnologie della mente, può risultare particolarmente alto. Le tecnologie intellettuali amplificano e nello stesso intorpidiscono le nostre capacità naturali più umane e più intime: il ragionamento, la percezione, la memoria, le emozioni. La commistione cibernetica tra mente e macchina ci può forse aiutare a svolgere compiti cognitivi in modo molto efficiente: essa è però anche una minaccia alla nostra integrità di esseri umani.

“Uno dei pericoli più rilevanti cui andiamo incontro se automatizziamo il lavoro delle nostre menti e cediamo a un potente sistema elettronico il controllo sul flusso dei nostri pensieri e dei nostri ricordi è […] una lenta erosione della nostra umanità, e anche dei nostri sentimenti di benevolenza. Una mente calma e attenta non è necessaria soltanto per pensare in modo approfondito: è indispensabile anche per esercitare comprensione ed empatia.[…] Più siamo distratti, meno siamo capaci di sperimentare quelle forme di empatia, di compassione e anche le altre emozioni più caratteristiche della nostra umanità. 'Per arrivare a riflessioni di un certo tipo, in particolare decisioni di carattere morale relative a situazioni morali e psicologiche di altre persone, dobbiamo disporre di un tempo adeguato per la meditazione'. […] Internet sta deviando i nostri tracciati vitali e diminuendo la nostra capacità di contemplazione, il che altera la profondità delle nostre emozioni, oltre che dei nostri pensieri”.

Ecco, è qui l'essenza degli avvertimenti che Carr (e prima di lui molti altri, come per esempio l'informatico Joseph Weizenbaum) lancia a tutti noi: “quello che ci rende più umani […] è ciò che è meno calcolabile riguardo a noi stessi: le connessioni fra la mente e il corpo, le esperienze che danno forma alla memoria e al pensiero, la nostra capacità di emozione e di empatia. Il grande pericolo cui andiamo incontro se ci lasciamo coinvolgere sempre più intimamente dal computer […] è quello di perdere la nostra umanità, sacrificando le qualità stesse che ci distinguono dalle macchine. L'unico modo per evitare di andare incontro a questo destino […] è avere l'autoconsapevolezza e il coraggio di non delegare ai computer le nostre attività più profondamente umane e le nostre occupazioni più intellettuali, in particolare tutti quei compiti 'che richiedono saggezza'”. In caso contrario, se ciò dovesse avvenire, se dovessimo affidare all'intelligenza artificiale la soluzione di quei compiti “che richiedono saggezza”, ebbene, quello sarà un punto di non ritorno.

In quanto a noi insegnanti, mi riecheggiano nella mente le parole di Postman: gli insegnanti non dovrebbero fermarsi a chiedersi come usare la tv o il computer per l'insegnamento, ma fare il passo ulteriore e più coraggioso: come usare l'insegnamento per controllare la tv e i computer? E questa, occorre riconoscerlo, è una prospettiva che rema completamente contro il fiume in piena della scuola divertente che ci vuole propinare Bill Gates (e i suoi profeti...).