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Un sacrificio inutile?

di Francesco Lamendola - 27/07/2011





CON UN PENSIERO AFFETTUOSO PER LA SIGNORA A.

Vi sono delle persone, specialmente donne - ma non sempre - delle quali si può dire che, in un certo senso, hanno sacrificato tutta la propria vita per gli altri.
Sono soprattutto mogli (e, talvolta, mariti) che si son fatte carico di una casa, di una famiglia, con tutta la passione e la dedizione possibili, ma che sono state mal ricompensate dal coniuge o dal compagno: con l’indifferenza, se non addirittura con il disprezzo.
Hanno tirato su dei bravi figli, dando loro amore e l’esempio quotidiano di una vita fatta solo di lavoro e abnegazione; ma, a parte la soddisfazione di averli visti crescere bene, non si sono mai sentite dire, né a parole, né - quel che più conta - attraverso i fatti, un semplice «grazie»: tutto quanto hanno fatto era semplicemente scontato.
Per la verità, forse non si sono mai sentite dire neppure un «ti voglio bene»; in compenso, sono state spesso rimproverate e persino offese per le cose più insignificanti, per un oggetto lasciato fuori posto, per un pranzo servito con dieci minuti di ritardo; mai un complimento o una carezza, sempre e solo frasi burbere e stizzite.
Così, la loro vita è sbocciata, ha effuso il suo profumo, è trascorsa come quella di un fiore bellissimo, che però, non è mai stato visto né ammirato da alcuno, la cui fragranza è rimasta ignorata, il cui splendore si è perso nel nulla, sconosciuto a tutti.
Non c’è da meravigliarsi che queste persone, giunte oltre i sessant’anni, e tuttavia - magari - ancora attraenti, ancora ricche di un fascino che non teme le rughe, perché sgorga direttamente dall’anima, siano prese dallo sconforto al pensiero di aver tanto donato, senza mai ricevere; e, forse, anche da quell’altro pensiero, di avere, cioè, ancora molto da donare, pur nella loro età avanzata, ma di non avere alcuno a cui offrire i propri tesori di bontà, di sensibilità, di dolcezza.
È possibile e auspicabile che queste persone, ormai libere dagli impegni pressanti del lavoro e della cura dei figli (perché questi ultimi sono divenuti grandi e hanno spiccato il volo fuori dal nido), trovino finalmente l’agio di coltivare interessi che, prima, avevano dovuto sacrificare e che riescano, così, a riversare in qualche nuova attività, libera e spontanea, una parte di quella energia interiore di cui si sentono ancora ricche.
Può accadere, per esempio, che una passione manifestatasi in gioventù, ma che avevano poi dovuto sacrificare - suonare uno strumento musicale, dipingere, dedicarsi alla lettura di buoni libri - possa ora riaffiorare e venire coltivata con successo, cioè, in primo luogo, con profonda soddisfazione personale e poi, perché no, apprezzata anche dagli altri: questa è un’ottima cosa, che consente, in un certo senso, di riappropriarsi di qualche cosa che faceva già parte della personalità e la cui rinunzia aveva in qualche modo impoverito la vita di tali persone.
Anche dedicare qualche maggior cura alla salute e al benessere fisico, concedersi delle belle passeggiate in luoghi idonei, tali da ritemprare la mente e il corpo; frequentare una palestra e combattere, ma senza affanno esagerato, il processo di invecchiamento, puntando soprattutto sul ritrovare un buon rapporto con se stessi, anche dal punto di vista estetico: pure questa è una buona cosa, che presenta vantaggi sia di ordine psicologico, che fisico.
Ogni essere umano ha il desiderio istintivo di piacersi; questo desiderio non diminuisce affatto con l’età, perché il cuore di una persona interiormente viva è sempre giovane e, contrariamente a quello che possono pensare, stupidamente, gli altri, i suoi battiti non si fanno meno frequenti in base alla data che sta scritta sui documenti anagrafici, ma rimane perennemente sensibile al fascino della bellezza e della giovinezza.
Anche per una persona anziana, dunque, è importante piacersi, è importante potersi guardare allo specchio e trovare che si possiede un aspetto fresco e gradevole; e, di conseguenza, sapere che anche gli altri possono scorgere quella freschezza e quella gradevolezza, tanto più se esse scaturiscono da un animo ricco e sensibile e non semplicemente da un corpo che ha avuto la fortuna di conservarsi snello e ben proporzionato.
A maggior ragione ciò è importante per una donna, perché il fatto di piacersi e di poter piacere è, per la donna, molto più che un capriccio della vanità, ma, al contrario, un aspetto fondamentale della psicologia femminile, indipendentemente dall’età, dal livello culturale e da qualunque altro fattore estrinseco.
Lo si osserva già nelle bambine piccolissime e, con buona pace del femminismo militante, non è affatto un risultato artificiale di un certo tipo di educazione o di pressione sociale, ma un qualcosa che sorge in maniera assolutamente spontanea e naturale; e chi afferma il contrario vuol dire che non ha mai osservato una bambina: come essa gioca, come si rapporta agli altri ed a se stessa, come si guarda allo specchio.
Pretendere che la donna, in nome di qualche banale slogan femminista sulla pretesa emancipazione, si spogli di questa componente della sua struttura essenziale, significa chiederle il sacrificio della sua stessa femminilità; e pretenderlo da una donna anziana è ancora più insensato e crudele, se possibile, di quanto non lo sia da una ragazza giovane: perché gli esseri umani, mano a mano che si inoltrano lungo la strada della vita, acquistano esperienza e, forse, saggezza, ma non mai a scapito della propria struttura essenziale, bensì in accordo con essa, e cioè sacrificando ciò che è superfluo, non ciò che è essenziale.
Ciò detto, torniamo al punto.
Bene fanno le persone non più giovani, dopo aver speso la propria vita accudendo gli altri e aiutandoli a divenire autonomi, a ritagliarsi spazi di libertà e di creatività personale, che consentano loro di vivere la vecchiaia con apertura e serenità, non con un senso di chiusura, di restringimento degli orizzonti, di ripiegamento in se stesse.
E tuttavia, anche laddove si verifichino queste condizioni favorevoli, quando - cioè - la persona di cui parliamo riesca a realizzare, in età matura o avanzata, alcuni sogni della giovinezza e a ritrovare il tempo e la passione per dedicarsi a cose che la fanno stare bene con se stessa, è possibile, anzi probabile, che un fondo di malinconia, se non di vera e propria amarezza, rimanga comunque nei recessi della sua anima; che il morso di una ferita mai rimarginata, il rammarico di un amore che non si è ricevuto, a fronte di quel che si è dato, continui a far sanguinare.
Che dire, dunque, a questa persona che, legittimamente, si sente in qualche modo defraudata dalla vita, defraudata di qualche cosa che le sarebbe, in un certo senso, spettato, di cui avrebbe dovuto godere nei lunghi anni in cui si è prodigata per gli altri, senza ricevere mai parole o gesti di gratitudine, né di affetto?
La prima cosa che vorremmo dirle è che il suo sacrificio non è stato affatto inutile.
Con pazienza, con tenacia, con passione, ha tenuto insieme una famiglia; ha cresciuto ottimamente dei figli; ha trasmesso agli altri positività, fiducia, benevolenza.
Come si fa a dire che tutto questo sia poco, che si sia perduto nel nulla?
Non si è perduto per niente: ogni singolo istante, ogni singolo gesto, ogni singola parola sono scritti per sempre nel libro della Vita e rimangono impressi a caratteri indelebili nella mente e nel cuore di quanti hanno avuto la fortuna di riceverli o anche solo di esserne testimoni.
È certo che, arrivata ad un certo punto di stanchezza, frustrata e scoraggiata, quella persona avrebbe potuto andarsene: divorziare, separarsi e rifarsi una vita tutta sua.
Avrebbe potuto; ma non l’ha fatto.
È stato un bene, è stato un male?
Partiamo da una considerazione: le donne e gli uomini delle ultime generazioni, in quelle date circostanze, non esiterebbero un attimo prima di prendere una tale decisione; sono quasi solo le donne e gli uomini di qualche generazione fa, che restavano così ammirevolmente legate al sentimento del dovere che a sua volta, era stato trasmesso loro dai propri genitori.
Quindi, se il loro sacrifico è stato un male per loro, sicuramente è stato un bene per altri, a cominciare dai figli - salvo casi estremi, nei quali l’equilibrio familiare fosse così gravemente compromesso dai comportamenti dell’altro coniuge, da rendere comunque preferibile una separazione.
Ma siamo proprio sicuri, tirate le somme, che la decisione di rimanere al proprio posto, nonostante tutto e a dispetto di tutto, sia stata un male per la persona che l’ha presa?
Non ne saremmo poi così sicuri.
Certo, è innegabile che, sul piano personale, essa abbia comportato un prezzo oneroso da pagare, in termini di frustrazione e di solitudine affettiva: e chi l’ha provata, sa bene che la solitudine di essere in due è ancora più amara di quella di chi è da solo.
Eppure, siamo certi che la sofferenza sia il solo metro possibile per giudicare ciò che è bene per una persona?
Non è forse vero, al contrario, che la sofferenza può diventare un potentissimo strumento di crescita personale, di perfezionamento morale, di superiore consapevolezza ed armonia?
Oppure vogliamo cadere nella banalità di sostenere che solo nella prospera fortuna l’individuo si realizza; e nella palese falsità di affermare che solo essa lo aiuta a migliorarsi?
Nessuno è mai diventato migliore, finché il morso della sofferenza non lo ha messo alla prova: è questo il vaglio, che la cosa piaccia o non piaccia, per separare le persone di valore dalle persone insignificanti.
D’altra parte, se a quella persona sono mancati la riconoscenza e l’amore del proprio compagno o della propria compagna, difficilmente - crediamo - le saranno mancati quelli dei figli, dei parenti, degli amici, dei vicini di casa, dei colleghi di lavoro: perché la bontà genera un circuito virtuoso e nessuna buona azione, per quanto possa sembrare che le cose stiano altrimenti, passa mai totalmente inosservata.
Il mondo non è così ricco di buone azioni, di buone parole e di buoni pensieri, da poterli dissipare inutilmente; niente affatto: esso ne fa tesoro, li ripone in qualche angolo prezioso di un’anima umana, affinché - magari a distanza di anni - quel seme generi una nuova piantina.
Stiamo attenti, perciò, a non avere fretta di giudicare le cose secondo le apparenze; di misurarle con il facile metro di ciò che sembra, vedendole dall’esterno: e magari non è.
Chi può dire, giudicando dal di fuori, se una vita sia stata giusta o sbagliata; se il sacrificio di tutta una vita sia stato utile oppure inutile?
Nessuno, tranne Dio.
Corta è la nostra vista e fallace il nostro giudizio; il più delle volte, se vogliamo essere sinceri, noi non sappiamo essere dei buoni giudici nemmeno riguardo a noi stessi e alla nostra vita: figuriamoci quando si tratti degli altri.
Perciò, cara amica o caro amico di cui abbiamo qui parlato oggi, cerca di rasserenare il tuo animo e non ti tormentare con rimpianti che sarebbero, quelli sì, inutili e crudeli.
La tua vita é stata bene spesa: tu hai agito così come ti sembrava giusto agire, così come ti era stato insegnato e come la tua coscienza ti suggeriva.
Ai nostri giorni vanno di moda altri valori e altri atteggiamenti, lo sappiamo bene: ma questo non significa che tu abbia avuto torto e che le ultime generazioni abbiano ragione: pensare questo, significherebbe affermare che il nuovo è sempre più giusto dell’antico; e questa è una proposizione manifestamente insostenibile, tanto sul piano concettuale che su quello pratico.
E poi, guardiamoli bene questi uomini e queste donne d’oggi, che davanti alla prima difficoltà sciolgono i propri legami affettivi e sottopongono i figli al trauma della separazione dei propri genitori: è proprio vero che la loro vita è più felice? O non accade piuttosto, e assai frequentemente, che essi vadano a reiterare proprio quelle dinamiche e quegli errori che già li avevano condotti, a suo tempo, in un vicolo cieco?
Anche se nei tuoi occhi c’è, forse, un fondo di malinconia, cara anima che sei rimasta sempre al tuo posto in seno alla famiglia, io vi scorgo anche qualche cosa d’altro: la luce di chi è in pace con se stesso, perché si è sempre assunto, lealmente e sino in fondo, tutte le proprie responsabilità.